Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: MadLucy    13/12/2013    3 recensioni
Sono passati ormai otto anni dalla prematura morte di re Joffrey; ora sul Trono di Spade siede Tommen Baratheon, bello quanto ignaro, manovrato con fine astuzia dall'intraprendente moglie, Margaery Tyrell. Al Nord regna Bran Stark: il suo improvviso ritorno è avvolto in una caligine di mistero, così come il sinistro e devastante potere grazie al quale ha conquistato il comando; al suo fianco c'è la moglie Meera, ma a corte tutti sanno che il re passa le notti nel letto del suo consigliere più fidato. Quando, per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia in passato, il principe barbaro Rickon Stark si sporca le mani di sangue Lannister e rapisce la principessa Myrcella, non si può più tornare indietro: è guerra. Che parte interpreteranno Sansa Stark, Yara Greyjoy e Gendry Waters in tutto questo? Tra amori conflittuali, alleanze strategiche e scandali a palazzo, i nuovi concorrenti possono schierare le pedine: e che il gioco del trono abbia inizio.
(Bran/Jojen; Rickon/Myrcella; Gendry/Arya)
Genere: Generale, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bran Stark, Myrcella Baratheon, Rickon Stark, Shireen Baratheon, Tommen Baratheon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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V. Avorio fu il rifiuto.




-Morti.- ripetè il capitano delle guardie. -Affogati, tutti.-
-Tutti?- Yara Greyjoy, le mani puntate sui fianchi, esaminò con occhio critico la scena che le si presentava davanti. I relitti di tante piccole imbarcazioni erano stati trascinati sulla costa durante la notte, miseri, scarni e patetici, spuma rossa di vite lasciate indietro. Purtroppo non era difficile valutare le proporzioni del naufragio: le carcasse di almeno sette barche erano incagliate profondamente nella sabbia come unghie nella carne, ferite dall'irruenza del mare, e si poteva scorgere diverse assi di legno galleggiare sulla superficie increspata ed inquieta dell'acqua, in balia delle onde.
-Erano sentinelle, mia signora.- spiegò l'uomo, aggrottando la fronte. -A turno, durante la notte, circumnavigano l'isola divisi in gruppi per accertarsi che dei malintenzionati non approdino di nascosto. Finora, sono stati trasportati a riva dalla corrente ventidue cadaveri. Ci sono ancora dei dispersi, che però presumibilmente non sono andati incontro ad un destino diverso. Non abbiamo la benchè minima idea di cosa possa essere successo, nessuno di noi riesce a spiegarselo...-
-A me non sembra un mistero così insolubile.- replicò Yara, contraendo la mascella. -Se il loro compito è tenere alla larga gli invasori, chi sarà mai stato a distruggere le loro barche? Perchè è abbastanza evidente che non è stata una tempesta: visto che non si allontanano tanto dalla costa, se si fosse verificata, noi ce ne saremmo accorti e questi poveracci non avrebbero avuto la brillante idea di salire sulle barche. E poi, non è un po' strano che siano morti proprio tutti? Non erano dei pivelli, insomma. Navigare era il loro mestiere. Quindi, invece di perdere tempo, per quale maledettissimo motivo non hai mandato le pattuglie a setacciare l'isola?!-
Il capitano delle guardie scrollò il capo. -Non ho mancato di farlo, mia signora. Il resto dei miei uomini è impegnato a cercare tracce dei presunti nemici... ma finora niente.-
-Nel caso in cui questi nemici ci fossero, sarebbero in pochi, perchè altrimenti non avrebbero potuto far passare inosservato il loro arrivo, e sarebbero arrivati da meno di dieci ore. E' ovvio che non hanno ancora attaccato. Non vogliono mica il comitato di accoglienza.- brontolò Yara, chiedendosi perchè accidenti avesse dei simili citrulli al suo servizio. -Continuate ad ispezionare Pyke, e più accuratamente di quanto non stiate già facendo. Concentratevi soprattutto nei dintorni del palazzo... sarebbe sensato che il loro obiettivo fossi io.- Non molto avveduto, ma sensato, pensò con un ghigno.
-Agli ordini, mia signora.- rispose il capitano, lanciandole uno sguardo seccato. Gli uomini di ferro acconsentivano di malavoglia ad obbedire ad una donna, ed era sotto certi versi comprensibile, però Yara non tollerava di vedersi mancare di rispetto. Quel pregiudizio salava il suo sangue da prima che nascesse, come i geni dei Greyjoy, macchiava le sue mani come calce ed ustione di sole. Yara guardava se stessa nel riflesso della propria spada, e così sarebbe stato finchè non sarebbe stata calpestata così forte da poter soltanto evitare l'immagine distorta negli occhi degli altri.
A quel punto si allontanò dalla spiaggia, lasciando i suoi uomini intenti a quei macabri ritrovamenti, e pensò al da farsi. L'idea di allarmare l'intera Pyke, magari inutilmente, non l'allettava granchè: meglio evitare il panico generale. Però, allo stesso tempo, era prudente che tutti stessero all'erta, per reagire prontamente ad un eventuale attacco. E non era forse necessario organizzare dei turni di pattuglia per le città? Beh, sì, ma il problema persisteva.
Yara aveva un presentimento, riguardo questi ipotetici nemici: esponenti di famiglie nobili delle altre isole, che -come era già successo- si ribellavano al suo dominio e cercavano di conquistare la roccaforte, anche ricorrendo alla violenza -e anche circa questo v'erano dei precedenti. Ma come speravano di assediare Pyke con pochi uomini? Se si fosse presentato un esercito, sarebbe stato impossibile nasconderlo. Quindi qual era il bandolo della matassa?
-Yara!- La voce di Tristifer la riscosse da quei tetri pensieri. Yara sbuffò; la consapevolezza di tutte le vite sprecate invano l'opprimeva di tristezza, e la tristezza -essendo un sentimento che tende ad indebolire l'animo- le procurava fastidio ed irascibilità alla prima occasione. Con Botley, poi, ogni scusa era buona per sbottare e sfogare il proprio malumore.
Il ragazzo era a cavallo, perchè invece di scendere a controllare l'accaduto con lei aveva preferito galoppare fino a Lordsport e tornare indietro.
-Hai scoperto che cosa è successo?- domandò preoccupato, scendendo con un balzo dalla groppa del destriero ed avvicinandosi alla moglie, le briglie attorcigliate ad un polso.
Yara dissentì scontrosamente con il capo. -Non proprio. So solo che alcune barche sono state rinvenute sfracellate sulla riva e tutti gli uomini addetti alla sorveglianza sono annegati. Escludendo l'eventualità di una tempesta, l'unica soluzione possibile è che degli invasori li abbiano tolti di mezzo per approdare a Pyke. Ora si tratta di scoprire se è così, chi sono e perchè l'hanno fatto. E di prenderli a calci in culo.- concluse cupa.
-Questo è lo spirito giusto.- sorrise Tristifer. Poi s'impensierì. -Mi stai dicendo che a Pyke ci sarebbero degli stranieri con cattive intenzioni? Non sarà troppo difficile riconoscerli. Dovranno per rifornirsi in qualche modo: allora, o si daranno alle scorrerie, o acquisteranno qualcosa per dare meno nell'occhio, ma saranno lo stesso riconoscibili. Voglio dire, avranno un altro accento, un altro aspetto, no? Qua si capisce subito se uno è isolano o no. E c'è diffidenza verso gli estranei.-
Yara la trovò un'affermazione inusualmente ragionevole. -... può darsi. Però aspettare non è la scelta migliore. Ho già mobilitato le pattuglie, e si vedrà cosa combineranno.-
Attorno a loro, i soliti coloriti schiamazzi del mercato del pesce erano scemati in un silenzio strattonato dalla tensione. La tragedia consumata ieri notte aveva colpito parecchie famiglie della città, per non parlare del fatto che quel luogo era terribilmente vicino alla costa dei ritrovamenti. Yara avvertì una dolorosa nausea prenderle la gola -c'era nell'aria qualcosa di sbagliato, qualcosa che sovrastava e diluiva l'inebriante profumo del sale, perchè della dimensione ultrasensibile non si vedono gli artigli, ma i graffi- e d'un tratto preferì essere molto lontano da lì. Era come se, giungendo lì quel mattino, avesse accettato il carico d'un destino infausto, la cognizione d'una insidia che spalancava sospetti e malfidenze come crepacci, e di cui quindi sarebbe stato meglio rimanere all'oscuro. Se fosse stata una comune cittadina, nessuno l'avrebbe chiamata in causa ed ella avrebbe potuto sguazzare serena nella propria lieta ignoranza; invece era la regina, e doveva sobbarcarsi il problema in tutta la sua mole sulle spalle. E Yara percepì distintamente gli occhi dei morti fissi sulla propria nuca, in una pretesa perentoria, in un'accusa inarticolata, in un responso crudele.
-Torniamo a casa.- ordinò la ragazza. -Non abbiamo più niente da fare. Sarò più utile a Pyke piuttosto che qui. Se gli intrusi cercheranno d'impossessarsi del potere, è là che attaccheranno.-
Tristifer soppesò il suo sguardo per qualche istante, forse valutando l'umore della moglie e tentando d'interpretare quell'intimorita confusione così inedita sul suo volto duro; infine decise di tacere per ora sull'argomento, montò in sella e le fece segno di salire dietro di lui.
Tristifer aveva sempre qualche disagio a parlare di quella cosa con Yara, allora quando lo voleva fare usava molti giri di parole, non facendo intenere di voler dirottare il discorso su quella cosa e facendo sì che fosse Yara stessa a fare l'ovvio collegamento, e che tutto sommato la colpa sembrasse sua.
-Lo sai che la moglie di mio fratello ha partorito un'altra figlia?- buttò lì. -Una femmina. Symond non ha parlato d'altro per tutta la lettera che mi ha inviato...-
-Buon per loro.- fu l'atona risposta. Tristifer espirò lentamente. Perchè accidenti con lei era tutto così complicato?
-In realtà, ecco, io cercavo di dirti che... non trovi che sarebbe bello... cioè... un giorno moriremo, no?... e allora Pyke chi la erediterà? Bisogna, ehm....-
-Ancora con questa storia.- imprecò Yara. Oggi non era proprio giornata: ci mancava soltanto la sviolinata sui figli. -Senti, Tris, io non voglio marmocchi che mi si appendano alle tette e piangano tutto il giorno. Questo tu lo sai da molto tempo, anche da prima che ci sposassimo. Eri consapevole del fatto che avresti dovuto rinunciare a figli, annessi e connessi. Quindi le soluzioni sono due: o ti trovi una puttana più disposta ad assecondare il tuo desiderio di paternità, o rimani a bocca asciutta. Intesi?-
Tristifer, nella sua candida innocenza, s'indignò. -Una puttana? Ma Yara, che dici? Credi che io accetterei di fare un bambino con la prima che capita? Io non voglio un figlio a caso, voglio nostro figlio. Perchè quando si ama una persona, funziona così... e io ti amo, Yara!- esclamò con partecipazione.
La ragazza alzò gli occhi al cielo. -Non vedo in conseguenza a cosa la mia risposta dovrebbe cambiare.-
Egli ritentò. -Tu... tu parli così perchè non sai cosa significa. Ma se lo provassi, magari, capiresti che... che è una bella cosa, a parte il fatto che i neonati piangono. Prima o poi smettono, immagino. Dovresti pensare alle Isole di Ferro. Non puoi lasciarle senza un Greyjoy al comando!- ribadì Tristifer. La moglie sbuffò impaziente.
-Prima che io muoia, speriamo, ce ne vorrà ancora un po'. E chissà quante cose potrebbero succedere. Per esempio, potrebbe presentarsi a palazzo una qualche troietta con un bastardo di Theon, risalente al periodo in cui si dava ancora alla pazza gioia,- sorrise Yara maligna, -oppure tu potresti scoprire che in definitiva non mi ami poi così tanto come pensi...-
-Questo non lo puoi dire, Yara.- protestò il ragazzo, con impeto. -Questo mai.-
-Concentrati sulla strada, se non vuoi mandare il cavallo giù da un crepaccio.- lo derise Yara, con un cenno indolente del mento. Egli abbassò lo sguardo sulle proprie mani e tacque, rassegnato. Discutere con Yara era producente come discutere con i sassi. Se in partenza aveva un'opinione riguardo qualcosa, era quasi inconcepibile che giungesse a cambiarla, perchè avrebbe significato ammettere d'essersi basata su erronee convinzioni fino a quel momento.
Quando finalmente -dopo aver visto per un bel pezzo in lontananza il profilo delle torri nere, svettanti e slanciate verso il cielo- giunsero a varcare l'arco di pietra, furono accolti precipitosamente da un attendente dall'espressione ansiosa.
-Mia signora.- ansimò con affanno. -Il principe Theon... lui... non si sente bene.-
Yara aggrottò la fronte e saltò giù in fretta da cavallo, avvicinandosi ad ampi passi all'uomo. -Come sarebbe a dire? Cos'ha?!-
-Ecco, ha avuto un attacco di... di panico, penso, urla e non vuole che nessuno gli venga vicino...-
-E questo perchè diamine è successo?! Sarà stato provocato da qualcosa!- ruggì Yara, scuotendo violentemente l'attendente per le spalle.
Lui deglutì. -Non saprei, forse... forse la mancanza della luce? Oggi il cielo è piuttosto nuvoloso...-
-Sì, e il cazzo di mio marito è così lungo che mi entra per la figa e mi esce per il culo. Ho chiesto la verità!- latrò lei, battendo un piede per terra con impazienza. Alle sue spalle, Tristifer mosse gli occhi a disagio.
-... lui ci ha chiesto perchè voi non c'eravate, e noi glie l'abbiamo detto, che c'era stato un naufragio, che erano morte delle persone... e così...-
-Spostati!- sbottò Yara, scostandolo con un gesto stizzito. Aveva già abbastanza pensieri, senza che quegli incapaci glie ne procurassero altri; possibile che con Theon nessuno sapesse combinarne una giusta?! A dire la verità, nemmeno lei era in grado di capire cosa potesse essere detto o no in presenza del fratello, cosa facesse scattare le sue crisi, però quella situazione era ingestibile.
-Aspettami qui. Torno fra un po'.- bofonchiò all'indirizzo di Tristifer. Il ragazzo l'afferrò per il braccio.
-Stai calma, Yara.- proferì lentamente, carezzandole una mano. Lei si sottrasse imbarazzata, con un gesto infastidito.
-Non dirmi di stare calma, Tristifer Botley! Sono stata capace di badare a me stessa fino al giorno prima di sposarti, per cui comprendimi, se non ti ritengo indispensabile per la conservazione della mia persona.- commentò con acido sarcasmo. In tutta risposta, Tristifer la seguì apprensivo con lo sguardo finchè non fu impedito dal raggiungerla.
Yara aveva salito le scale fino a trovare la stanza di Theon. Era contaminata da una penombra umida, a causa del maltempo, e i servi non avevano nemmeno acceso il fuoco lì dentro, così il risultato era che il freddo strisciava sulle pietre squadrate delle pareti. Hanno paura di lui, dedusse Yara contraendo le labbra. Pensano che sia posseduto da uno spirito maligno. Pensano che sia matto...
Suo fratello era rannicchiato in un angolo, le ginocchia appuntite compresse convulsamente al petto, la faccia premuta fra le vesti troppo larghe per il suo corpo, in un tentativo di nascondersi dal mondo, o forse d'essere confortato da un grande, libero buio senza disegni. Ogni tanto, le spalle erano scosse da vigorosi sussulti che pretendevano lo sfruttamento dell'ultima fiacca energia che gli restava. Egli sottovoce sputava soltanto un monotono, sordo lamento, troppo fievole per superare l'ostacolo delle ginocchia e raggiungere la realtà.
-Theon.- azzardò Yara, compiendo un cauto passo in avanti, fissando con occhi dubbiosi e corrucciati la gracile figura contorcersi nell'udir pronunciare il proprio nome, quasi che fosse stato pungolato con una spada. La sorella non temeva lui in sè, ma invece l'idea ch'egli potesse agitarsi e rimettersi a sbraitare e terrorizzare gli abitanti dell'intero maniero.
-Non dirlo.- biascicò Theon, alzando la testa. Pareva che con la sua voce avessero banchettato i corvi: ne rimaneva soltanto un suono atono, spolpato, prosciugato. Niente più flutti marini, soltanto un'aspra incrostazione di sale. -Non... dirlo. Se lo dici ti sente.-
-Chi
mi sente?- Oh, Yara sapeva perfettamente chi Theon aveva timore che l'udisse, però voleva che il fratello lo ripetesse un'altra volta, per dimostrare l'assurdità delle sue parole. Ma si può davvero dimostrare qualcosa ad un pazzo? si domandò per la prima volta, tristemente. Theon non è pazzo, si rispose seccamente. Ha solo... bisogno di dimenticare.
-Lui.- bisbigliò Theon pianissimo, così piano che Yara comprese la sua risposta soltanto affidandosi ai ricordi delle volte precedenti. -Lui!- e fu un urlo, spezzato da un'urgenza febbrile. Nella sua voce, l'istinto di fuga lottava contro una debolezza assuefante. Infine non gli rimase altro da fare che stringersi ancora di più su se stesso, strizzare gli occhi e tremare.
-Non riesci nemmeno più a pronunciare il suo nome, adesso?- Yara avanzò ancora, lo sguardo chino e fisso inesorabilmente su quel mucchio di stoffa, la voce brutale. -Lo sai che così, avendoti lasciato incapace di vivere, ha vinto due volte? Ed è successo perchè tu glie l'hai permesso. Perchè glie lo stai permettendo, di entrare nella tua testa, di rovinare le tue giornate, di impedirti di dormire. Perchè pensi a lui e soltanto a lui. Ma non può sentirti, e sai perchè? Perchè è molto lontano da qui, e probabilmente è morto. Perchè non verrà mai più ad importunarti. E il suo nome- scandì Yara, con lenta audacia, -è Ramsay. Ramsay Snow. Ramsay Bolton, o come accidenti vuoi chiamarlo. Ramsay. Su, avanti, dillo! O hai troppa paura anche per fare questo?!-
-Padron Ramsay.- rantolò Theon, scuotendo la testa intrappolata fra le ginocchia. -Vuole essere chiamato... no! Non dirlo, non dirlo, lui non vuole che si dica... Snow. Non vuole! Se lo fai, lui poi...-
-Io lo chiamo come cazzo mi pare e piace, primo perchè non ho paura di nessuno, secondo perchè non mi sentirà mai.- lo rimbeccò Yara. -Lui non ti sente, Theon! Come farebbe a sentirti?! Devi piantarla con questa ossessione.-
Theon sollevò il capo. Il suo volto, scavato dal tempo, aveva la carnagione macchiata e la fronte segnata dalle cicatrici di mille dolori. Le labbra morse a sangue pendevano quasi a brandelli. Sotto le palpebre lise, gli occhi sporgevano dilatati e bulbosi; una luce abbagliante aveva rotto le pupille. Gli stenti avevano divorato la sua antica bellezza, lasciando soltanto ossa e giusto quella pelle necessaria per tenerle insieme.
-Lui è qui.- boccheggiò, come se gli mancasse il respiro. -Lui è qui, adesso.-
-Ma davvero? E dove, nell'armadio?- Yara non resistette ulteriormente alle insistenze della delusione, che ruppe la diga e le soffocò la voce. -Non so più che cosa fare con te.- ammise stancamente.
-È arrivato qui stanotte.- insistette Theon, esagitato. -Ecco perchè le persone iniziano a morire. E moriranno ancora... e ancora... E lui è qui, adesso, Yara! Tu mi devi credere!-
-Ma io ti crederei,- replicò la sorella, tranquilla, -se tu mi fornissi una prova. Visto e considerato che le persone non muoiono soltanto se le uccide il tuo amico, hai qualcosa di più convincente da propormi?-
Appena terminò la frase, l'anta di legno dell'armadio sbattè fragorosamente, a causa del vento che spirava dalla finestra. Theon sgranò gli occhi ed emise un gemito pietoso. Nei suoi occhi sbarrati d'animale braccato non era rimasto niente di quel che era stato, non una goccia di presunzione, non una stilla d'orgoglio. Yara rise davanti a quel fagotto di vestiti, e una strana nausea la colse nel provare la compassione, la vergogna. Non si compatisce, un Greyjoy. Non deve farsi compatire, un Greyjoy. Quale legge aveva ancora valore?
-Oh, andiamo! Adesso questo Ramsay è un'entità soprannaturale?- Persino aggredirlo a parole sembrava più di quanto il fuscello ch'era il suo corpo potesse sopportare, quindi la sorella ci rinunciò. -Senti, fratello, ascoltami. Io ti voglio bene, ma non si può continuare così. O ci dai un taglio, oppure ti devo portare da qualche altra parte. Siamo intesi? Non resterai a vivere qui ancora a lungo, se si ripeteranno queste sceneggiate. Datti una regolata. E mangia di più, chè sembri uno spaventapasseri.-
Quando Yara uscì, non potè fare a meno di notare lo sguardo disperato di Theon inseguirla finchè non sparì nella tromba delle scale. C'era anche qualcosa di simile alla compassione nelle sue iridi tagliate, ma la ragazza non riuscì a spiegarsi il perchè.
Il responso, che quella sera durante la cena le riportarono gli attendenti, fu piuttosto allarmante. A quanto pare, era certo che l'avvenuto non fosse stato un incidente, ma un vero e proprio omicidio premeditato. Infatti gli uomini, oltre che molta acqua di mare nei polmoni, avevano segni di strangolamento sul collo e di colluttazione sul capo -ovvero qualcuno aveva tentato di immobilizzarli e stordirli, prima di annegarli. Le barche, poi, presentavano delle falle nella parte inferiore, ma in maniera piuttosto circoscritta: dei fendenti troppo precisi perchè potessero essere stati assestati dalle creste degli scogli. Gli assassini quindi avevano ucciso i marinai, per poi distruggere le barche con le proprie armi.
-Che senso ha, se l'intento era l'omicidio?- aveva replicato Yara.
-Soltanto quello d'inscenare un naufragio.- fu la sinistra risposta.
Adesso non c'erano più dubbi: dei criminali avevano ucciso le sentinelle di vedetta per approdare di nascosto a Pyke. Ma dov'erano, in quel preciso momento, e quali erano le loro intenzioni? Yara decretò che ci avrebbe pensato ancora su il giorno successivo e se ne andò a letto, provata dalle emozioni della giornata. Durante la notte fece un sogno strano, indistinto, che mal ricordò in seguito; ma nel dormiveglia, un solo barlume di coscienza acceso nella mente, le parve d'udire una voce sussurrare qualcosa. Yara fu tentata di sgridare Tristifer intimandogli di lasciarla dormire, ma era davvero troppo insonnolita per farlo. Dopo un po' non la sentì più, e poi di nuovo, e poi no. Yara dedusse di stare ancora sognando. Poi quei suoni bassi ed inarticolati assunsero una forma, e le parve di distinguere Yara Greyjoy.
-Cosa?- borbottò, ancora immersa nell'incoscienza. Yara, Yara, ripetè la voce. Poi svanì ancora, e questa volta la regina delle Isole di Ferro scivolò in un sonno incontrastabile.
Al mattino, aveva già dimenticato ogni cosa.
***
-E questo era l'ultimo suddito a richiedere udienza.-
L'annuncio di Jojen, così tanto ardentemente sperato, raggiunse Bran da sotto tutti gli strati d'apatia che lo avevano seppellito, diverse ore prima, in un depresso silenzio. Il re del Nord lasciò scivolare il capo contro lo schienale del trono, abbassando le palpebre, mentre un sospiro scuoteva il petto sotto la pelliccia. Estate, accovacciato ai suoi piedi, spalancò le fauci in un colossale sbadiglio, quasi condividendo la stanchezza del ragazzo. Il re del Nord aveva passato una pessima nottata: nei suoi sogni, la catasta di cadaveri dall'alto della quale egli dominava i Sette Regni era sempre più gremita. Jon Snow, Theon Greyjoy, Robin Arryn, tutti morti. Stannis Baratheon giaceva ai suoi piedi con il liquido cerebrale a ruscellare sul petto, così come sua figlia. E Bran continuava a ridere, un suono basso e singhiozzante che non conosceva, e c'era tanto sguaiato ludibrio nella maniera in cui si leccava il sangue dalle dita, ancora ed ancora; almeno fino a che non aveva calciato con un piede l'ultimo corpo inerte a terra. Gli occhi erano sprofondati nelle cavità delle orbite, il petto era aperto fino a svelare la ritorta cassa toracica, ma era assolutamente riconoscibile. Bran conosceva a memoria ogni linea di quel corpo dilaniato, perchè era quello di Jojen. S'era svegliato con un acre sentore di ferro a riecheggiare nella gola e l'immagine di quegli eloquenti spiragli scavati. Il suo consigliere aveva assistito senza commentare, l'adempimento d'un'intuizione abbozzata in tutta l'oscenità dei suoi dettagli.
Come se non bastasse, Selyse Florent era giunta a Grande Inverno per organizzare il matrimonio della figlia e Stannis, anzichè essere affacendato nelle questioni belliche, lo era di più nel cercare una stanza che fosse di suo gradimento. Era Davos Seaworth ad avere preso in mano le mappe per primo, ed in quel momento lui ed il suo re discutevano presumibilmente di questo.
-Era ora.- bofonchiò Bran. -Perchè tutte le faine del mondo hanno deciso di mangiarsi le galline proprio la notte scorsa? Cosa posso farci io, poi... che si prendano il risarcimento che vogliono e se ne vadano, per l'amor del cielo. Ti prego, andiamo in camera tua e mettiamo fine a questa giornata...-
Ma Jojen non diede segno di muoversi, imperturbabile. -Temo che non sia ancora giunta al termine, Maestà.-
Prima che Bran facesse in tempo a replicare qualcosa di mesto ed esasperato, una fragorosa esplosione annunciò che le grandi porte erano state sbattute con inaudita violenza contro i muri. Dietro, due guardie impotenti lanciavano sguardi preoccupati al re, quasi a dire noi ci abbiamo provato, a trattenerlo, ma poi ci siamo accorti che gli anni di vita che ci rimangono valgono la pena di essere vissuti.
Rickon avanzò. Le unghie erano conficcate nel palmo, la pelle delle nocche tesa, bluastra e crepata dal freddo, la chioma crepitava alle sue spalle come una fiamma viva e le labbra contratte stentavano a celare le zanne. Salì i gradini del trono. Un istante più tardi, fu di fronte a Bran. Non più ai piedi dello scranno, non più suddito asservito: un istante più tardi, era il principe di Grande Inverno.
-Fino a quando pensavi di tenermelo nascosto?- domandò infine, in un ringhio basso e gutturale che gli raschiò la voce, più che un'accusa, meno che una minaccia incombente.
Bran sostenne con i suoi occhi nitidi di buio quello sguardo palpitante di furore, sbiancato da un fulmine, con la formale e composta saldezza dei re dell'inverno.
-Poco. Sarebbe stato comunque troppo poco. Non volevo che fosse oggi, Rickon, soltanto posticipare di...-
-Le voci corrono a palazzo. Non hai idea di quante cose interessanti si vengono a scoprire, bighellonando per i corridoi... di quante persone si possono conoscere.- Il tono di Rickon era l'acido che deteriora la pietra e storpia i volti, insinuante come veleno in gola. -Per esempio, io ho incontrato una fanciulla che afferma di essere la mia fidanzata. Eppure ero assolutamente convinto di non essere fidanzato proprio con nessuno. Sbalorditivo, vero?-
Bran schermò quelle parole con un sospiro, sostenendo la fronte con una mano, come se si sentisse emotivamente e fisicamente troppo debole, in quel momento, per poter affrontare degnamente uno scontro verbale faticoso come quello che si prospettava in arrivo. La sua voce procedeva impedita da una viscosa spossatezza.
-Senti, Rickon, adesso sei abbastanza grande e abbastanza sveglio, o almeno lo spero, per capire il motivo delle mie...-
-Mi hai promesso sposo, Bran. Promesso sposo. Ti rendi conto? Non sono una tua fottuta figlia femmina! Non puoi fare quello che ti pare con la mia vita, per realizzare i tuoi scopi!-
Un impeto ferino s'era avventato contro quelle parole, scandendo il ritmo d'un delirio affannoso, quasi che esse stessero già minacciando il confine della ragione e stridessero in bilico su quell'orlo, e il vacuo lampo ceruleo degli occhi del ragazzo era annullato sulla dimensione cieca e nefanda della sua rabbia senza origine, senza fulcro, senza criteri, oltre l'ineccepibile ordine e i severi ranghi della civiltà; rabbia che scoppia alla stregua dei temporali estivi, una calamità furibonda che abbatte ad occhi chiusi, scroscia implacabile, attacca come pioggia battente, affamata benchè fine a se stessa. Non c'era stata un'evoluzione nel suo rancore, non una crescita progressiva, ma soltanto un urto, una spaccatura irreversibile, assoluta. La triviale compulsione degli animali pungolati imbrattava come sangue il suo sguardo, crudo, esposto, efferato, che tanto violentemente artigliava l'anima di chi ne rimanesse vittima. Sembrava che fosse un demone ad agitarsi fra quelle parole, divincolandosi, torturando per svincolare. Il disgusto che egli provava nei confronti del proprio onore calpestato si rifletteva talvolta negli occhi di Rickon, come l'ombra d'una razionalità messa da parte.
Jojen valutava ogni aspetto della situazione come sempre, con furtiva ponderatezza, con silente circospezione: gli occhi gravi si soffermavano dapprima sull'espressione di Bran, contratta ed impreparata a quei rumorosi disordini e scompigli, soltanto la linea della bocca a testimoniare una sofferta lesione; poi scorrevano, come concentrate gocce d'inchiostro, ad incontrare ed esaminare la sovraeccitata confusione sul volto di Rickon, devastato dalle tracce d'un grido inespresso, la posizione del corpo offensiva e prevaricatoria: il petto era palpitante, i respiri troppo brevi e trafelati, quasi che il furore stesse logorando i suoi nervi e saccheggiando le sue forze. Taceva, Jojen: sapeva perfettamente quale era il suo posto -sapeva perfettamente quando ed in che circostanze intervenire. Ed ascoltava.
-Quelli che tu chiami i miei scopi sono le scelte più appropriate per il regno.- protestò Bran, sentendosi accusato ingiustamente d'egoismo. -Io sono il re e tu sei il principe, e ciò comporta automaticamente che...-
-Per il regno?! Non farmi ridere. Non abbiamo bisogno di questa stupida alleanza, e tu lo sai benissimo!- Rickon sputò con foga sul pavimento, la bocca storta in una smorfia stomacata, quasi che quei discorsi avesse un sapore nauseabondo. -Se quello spaccacazzi di Snow non fosse venuto ad intromettersi nei fattacci altrui, tu non avresti stipulato il maledetto patto e noi saremmo partiti per il Sud contro i Lannister ugualmente. Non ci serve quel saccente megalomane di Stannis, nè quel pitocco ammasso di infelici che ha la presunzione di chiamare esercito. Sono sicuro che, anche se non assoldiamo l'ultimo barbone che mangia a sbafo alla Barriera, vinciamo la guerra lo stesso.-
-Quel che è necessario o meno per la vittoria lo decido io, non tu.- sbottò Bran, esausto. -Perchè accidenti non cerchi di capire la scomodità della mia posizione e, per la prima volta in vita tua, non fai quello che ti chiedo io? Sarebbe poi così tremendo? Si tratta di sposare una ragazza, non di subire un'evirazione, insomma.-
Rickon era sbalordito dall'indignazione. -Tu non mi hai chiesto assolutamente nulla, Bran! Tu hai organizzato il matrimonio alle mie spalle, senza nemmeno disturbarti a farmelo sapere. Se questa è la considerazione che hai di me, perchè io dovrei averne anche solo un briciolo di più per te? Come puoi pretendere rispetto da un fratello che disprezzi?- Scosse la testa, azzardando un passo avanti. -No, certo, questo matrimonio non mi danneggerebbe per niente. Dovrei soltanto andare a vivere al Sud e dare ai miei figli il nome della loro madre. Della loro madre! Cos'altro esigono, che partorisca io?!- Il suo sarcasmo era decisamente troppo aspro per strappare una risata; egli ghignò. -Questa è un'umiliazione bella e buona. Avresti dovuto sposarla tu, quella Shireen, se ci tieni tanto all'alleanza: lo Storpio e la Sfregiata, pensa che spasso nei ritratti di famiglia.-
Il volto di Bran si fece torvo, intransigente come la pietra, e tutto il senso di colpa che in parte avvertiva per ciò che aveva fatto parve freddarsi in raggrumato biasimo.
-È questo il motivo per cui non la vuoi sposare? Per la cicatrice che ha sul volto?- chiese, serio e tagliente.
Rickon parve messo a disagio da quella domanda, ma dallo sguardo si poteva percepire l'onestà della sua risposta.
-Per chi mi prendi? No, non è per questo. Più che altro, è stata l'idea che tutto fosse già calcolato e concluso e che io non ne fossi a conoscenza, ricordi?-
La risposta di Bran fu un tracollo di sbrigative confessioni. -Non ho avuto il tempo di consultarmi con te, Rickon! È successo tutto così in fretta, e io dovevo dire sì o no, subito. Non potevo permettermi d'esitare. I miei doveri di re mi impongono di...-
-Tu sei re di Grande Inverno soltanto quando ti fa comodo esserlo.- sbraitò Rickon, incapace per indole di trattenere ciò che andrebbe trattenuto. -Soltanto quando dài il consenso per farmi sposare questa e quest'altra. Ma non sei il re di Grande Inverno, e non hai nessun dovere verso il tuo popolo, vero? quando ti sbatti il fratello di tua moglie...- La sua voce divenne un sibilo acuto come un ago. Jojen non battè ciglio, e nulla lasciava intendere che fosse stato chiamato in causa. Bran s'irrigidì, ma non osò storcere un muscolo per dimostrare il proprio dispetto, temendo di scatenare ulteriori litigi inutili. 
-Come al solito, parli di ciò che non sai. Tu non capisci, e non capirai mai, a che cosa sto rinunciando a causa di questa corona.- Però l'allusione era stata troppo indelicata per passare inosservata, senza nemmeno rispondere con una frecciata, perciò Bran non potè evitare di aggiungere: -Tu non ti ricordi cosa significhi amare, e l'unica cosa a cui stai pensando in questo momento è la prigioniera Lannister che non potrai più andare a trovare nelle segrete. Sempre e soltanto la perversione domina il tuo animo, il resto è mera tracotanza e l'ottuso egoismo di un bambino che pesta i piedi.-
Tra l'altro, negli amplessi fra lui e Jojen non c'era mai stata furia passionale o impeto concupiscente. Si amavano con lenta solennità, quasi svolgessero un rituale, perchè si trattava di realizzare i loro sguardi intensi, di suggellare un'affinità irreversibile, di consacrare un sentimento etereo sul piano della realtà, di avanzare il passo risolutivo per onorare, coronare, innalzare l'amore ad una pienezza completa, ad un significato più alto, di modo che la loro unione fosse inconfutabile ed incondizionata. Non era una corsa, uno spasimo, una fame: era un cammino, un processo, il naturale compimento di qualcosa che già esisteva a livello emotivo, una transizione non priva di fervente sacralità, la cui meta non era però il piacere, quanto l'adempimento del loro personale culto e la contemplazione dell'effetto che l'uno esercitava sull'altro.
Invece quella fra Rickon e Bran, ormai, era soltanto una gara a chi faceva più male all'altro. Il re del Nord invidiava un po' il magistrale contegno delle emozioni di Jojen, ma specialmente il fatto che non gli richiedesse alcuno sforzo: invece lui fremeva letteralmente dall'impulso di dare un pugno sul muso di quel suo dannatissimo fratello, sebbene sapesse benissimo di non poterlo fare.
Solitamente Bran guardava i suoi interlocutori dall'alto, assumendo inevitabilmente una posizione d'inattaccabilità; invece in quel momento Rickon era di fronte a lui, terribilmente vicino -entrambi avrebbero potuto darsi reciprocamente la morte in pochi istanti, ed in tal caso sarebbe stata soltanto una questione di chi ci sarebbe riuscito prima.
La voce di Rickon suonò fredda, immobile. -Dimmi cosa dovrebbe trattenermi dal tagliarti la gola nel sonno, gettare tua moglie in pasto ai soldati, scagliare tuo figlio giù dalla torre più alta e prendere il controllo di Grande Inverno al posto tuo.-
Bran non reagì. Aveva sentito di peggio, visto di peggio. L'insolenza d'un ragazzino non sapeva più scalfirlo, non dopo che l'empietà nella sua forma più primordiale l'aveva storpiato.
-Tu sei pazzo, Rickon. Sei completamente impazzito. E, sappilo, non mi fai paura.- scandì con voce rallentata e chiara. -L'unica cosa che mi interessa sentire adesso è che andrai da Stannis Baratheon a chiedergli che giorno sposerai sua figlia...-
Allora Rickon gonfiò il petto, infuriato all'idea che la sua provocazione non avesse fatto breccia nell'autocontrollo del fratello, assunse l'espressione terribile di quando si sta per giungere ad un punto di non ritorno e sbottò: -Io non prendo ordini da un rotto in culo.-
Bran sorrise un sorriso imbestialito. Ancora. Ancora. E ancora. Come diamine si permetteva quello stupido idiota?! Cosa ne sapeva, lui?!
-Oh sì, che lo farai.- Il tono era fermo, ma si trattava solo del freddo involucro di un nucleo incandescente. Oppure te lo spacco io, il culo.
-Non mi puoi obbligare, nè tu nè nessuno al mondo!- urlò Rickon, forsennato.
-Dici sul serio? Ne sei proprio certo?- Bran protese il volto in avanti, con un sorriso scellerato a fior di labbra. Una luce sconosciuta fendeva i suoi occhi come una lama. La sua voce era calma e terribile, e c'era una sottile esaltazione di natura indefinibile. -O sposi Shireen con le buone, oppure durante la cerimonia entrerò nella tua mente e ti muoverò come una marionetta. Hai afferrato il concetto?-
Istintivamente, Rickon fece un passo indietro, scartando, mentre l'ombra del dubbio spegneva la sua spavalderia. -Non ne saresti capace.-
Bran artigliò i braccioli del trono con tutte le dita, si sporse ancora e rimase ad un soffio dal viso del fratello. Poteva percepire il suo fiato sulle guance, decifrare la minuta esitazione della sua fronte aggrottata, mentre la certezza più elementare -che Bran non avrebbe mai, mai saputo fare quello a lui- vacillava incerta.
-Vuoi vedere?- Il re del Nord affondò lo sguardo nelle iridi chiare del fratello, come avrebbe potuto fare in uno specchio d'acqua sorgiva. Percepì distintamente la resistenza delle difese, ma furono poco più che ridicole: Rickon aveva una forza fisica notevole, ma non sapeva dominare le proprie emozioni nè difendere in maniera adeguata la propria mente. Sconfisse l'impotente opposizione e percepì di starsi facendo spazio, di starsi assestando dentro di lui, mentre egli non reagiva, incredulo, sconcertato, perso ormai il controllo d'ognuno dei suoi sensi...
-Maestà.- A quel punto Jojen interruppe il contatto visivo spostandosi di fronte a lui e prendendo possesso dei suoi occhi con dolce fermezza. -Maestà. Adesso basta. Mi senti? Maestà.-
Le ciglia di Bran frullarono di disorientamento. Il ragazzo osservò Jojen confuso, che ricambiò con stoica sollecitazione, poi si accorse di quel ch'era successo e aprì la bocca, intenzionato a dire qualcosa, qualsiasi cosa, per far intendere a Rickon che, nonostante sembrasse così, le sue intenzioni non erano affatto... quelle.
Suo fratello era scivolato in ginocchio. Non aveva riportato alcun danno, però la sola intrusione di Bran nella mente era un'esperienza angosciante. Seppur per pochi istanti, la consapevolezza aveva abbandonato il suo corpo, dilaniato, mutilato e mortificato da una presenza estranea, scomoda ed imprevedibile, capace di scavare fino a raggiungere il fulcro stesso della sua essenza e violare anche quello... Rickon si alzò, non del tutto saldo sulle gambe, le mani tremanti. Gli occhi fissavano in basso, senza parlare. Scese i gradini, uno ad uno, con toccante cautela, seguito dallo sguardo costernato di Bran.
-Rickon... io... mi dispiace. Non...-
Rickon non si fermò. Si voltò indietro soltanto una volta, giunto alla porta, e, lo sguardo affollato di fantasmi, pronunciò con lento astio: -Lo sapevo che non sarei dovuto tornare qui.-
Poi uscì; il re del Nord continuò a guardare la porta, con lontana nostalgia. C'era il grigio di quell'inverno nei suoi occhi. Quando cominciò a parlare, la sua voce era un mormorio funereo.
-Quando ho ricostruito questo castello, quando ho visto Rickon entrare da quelle stesse porte, credevo che tutto stesse per aggiustarsi. Che sarebbe stato come prima. Che finalmente fosse stata fatta giustizia e ci sarebbe stata restituita la nostra vita, la nostra vera vita, quella di un tempo.- Sospirò, appesantito dalla mole delle proprie speranze. -Un'utopia, ovviamente. Gli Stark sono tornati, dicono tutti: e invece non è vero. Non siamo più una famiglia. Gli Stark sono morti, Jojen, e non torneranno finchè l'inferno non si spalancherà. Siamo morti. Questo è un castello morto, e noi abbiamo il sorriso triste dei sopravvissuti. Niente, e dico niente, può tornare com'era. Da adesso è definitivamente vero.-
Con il suo desolato assenso, il silenzio aggravò la veridicità di quell'affermazione. La landa gelata del vuoto restò sospesa nell'aria, uccidendo il respiro, come un laccio alla gola.
Bran si voltò a destra, leggendo la propria colpevolezza negli occhi cupi di Jojen.
-A cosa pensi?- domandò, quasi timidamente. Il fatto che Jojen sapesse sempre che cosa fare per aiutarlo, che fosse perennemente al suo fianco in caso di necessità, era una delle ragioni per cui Bran lo amava così tanto, però allo stesso tempo trovava triste che il ragazzo dovesse vedere perennemente il peggio di lui, stargli accanto e non abbandonarlo per tutta la durata del suo stato, proprio quando il re avrebbe preferito nascondersi ed evitare che una persona amata assistesse a tale orrore. Temeva che, a lungo andare, questo avrebbe potuto influenzare l'idea che Jojen aveva di lui. Il consigliere mosse gli occhi verso di lui, spazzando via quell'impressione d'assenza e deconcentrazione che dava la sua espressione pensosa.
-Penso che un momento fa tu ci sia andato troppo vicino.- decretò infine, imperturbabile, e Bran avvertì una fitta al petto: l'aveva deluso.
-Lo so.- mormorò.
-Stavi per fargli del male sul serio, e molto più irreparabilmente di quanto tu non immagini.- sottolineò Jojen. -Gli esercizi di continenza non hanno dato i risultati sperati. Il tuo potere cresce di giorno in giorno, più celermente di quanto mi aspettassi, se devo essere sincero.- concluse, inquieto.
Bran si strinse nelle spalle. -Oh, avanti, Jojen. Sai che non avrei mai ferito Rickon davvero. Volevo solo...-
-Intimidirlo? Fargli prendere un po' di paura? Cercare il suo rispetto con la forza, dato che non riesci ad importi su di lui a parole?- Il ragazzo non aveva un tono di rimprovero, ma di spietata effettività: niente di più e niente di meno di quel che era, senza sfumature che lasciassero presagire la sua opinione.
-Così suona peggio di quanto non sia.- si lamentò Bran, piccato. -Hai sentito che cosa mi ha detto?! Io mi dovrei lasciare insultare gratuitamente dal mio fratellino minore, e poi andare a comandare eserciti?!-
-Non è una novità il fatto che Rickon usi la lingua con la stessa delicatezza con cui usa la spada, però tu hai avuto prova che non saresti mai riuscito a trattenerti. Appena hai varcato la soglia della sua mente, hai continuato ad infierire.- osservò Jojen. -Sai benissimo che quando entri nel corpo di qualcuno i poteri prevalgono e la tua volontà soccombe, perciò, qualsiasi sia il tuo intento di partenza, finisci comunque per perdere il controllo...-
-Sì, sì.- Bran non vedeva l'ora di sviare il discorso da quella questione; l'instabilità della sua presa, come se i poteri gli sfuggissero irrimediabilmente dalle mani, lo metteva incredibilmente a disagio. L'ambiguità di quella situazione lo atterriva. -Ad ogni modo Rickon sposerà Shireen, che lo voglia o no. L'idea che il destino dell'esercito e l'esito della guerra debbano dipendere dalle beghe infantili di un sedicenne è semplicemente inaccettabile.-
Jojen scosse la testa, quasi fra sè, mentre aiutava Bran ad issarsi su Estate. -Questo matrimonio non avverrà, Maestà.-
-E io invece lo farò avvenire.- replicò il ragazzo, colto da un impeto d'insofferenza. Rickon avrebbe fatto quello che doveva fare, non l'avrebbe avuta vinta ancora una volta. Bran non l'avrebbe permesso, no.
-Temo che non ci sia niente che tu possa fare.- fu l'incolore risposta.
Bran trovò il suo sguardo, angustiato. C'era esasperazione nella sua voce, quando esclamò: -Come fai ad esserne così sicuro?!-
Jojen, che teneva rapidamente il passo di Estate, si fermò soltanto per richiudere le porte del salone dietro di loro. -Perchè ho visto...-
-Cos'hai visto?- lo incitò Bran, impaziente.
Jojen esitò, quasi che titubasse all'idea di rivelare ciò che aveva in mente. Una veloce valutazione attraversò i suoi occhi.
-... ho visto che non avverrà.- Non si sbilanciò altrimenti, stringendo le labbra.
Bran non s'accontentò di quella risposta: -Il fatto che tu non abbia visto un evento verificarsi non significa necessariamente che esso...-
-Maestà.- lo interruppe Jojen, con gentile fermezza, posando una mano sulla sua spalla e costringendo Estate a fermarsi. I suoi occhi toccavano intimamente quelli di Bran. -Ti fidi di me?-
Il ragazzo sbuffò e distolse lo sguardo, arrossendo. -Che razza di domanda è? Se il tuo intento non è insultarmi, non pormela più.-
-Dunque credimi.- ribadì Jojen.
-E allora io cosa dovrei fare? Disdire tutto? Avvertire Stannis? O...-
-Lascia che il destino segua il suo corso.- si limitò a suggerire il consigliere, criptico com'era spesso.
Bran diede un colpetto alla groppa di Estate, che riprese a percorrere il corridoio verso le scale.
-Bene. Adesso però smettiamola di parlare di Rickon, perchè sono già sufficientemente di malumore.- ordinò a voce spenta. -Volevo affrontare invece una questione in sospeso... la tua partecipazione, o meglio non-partecipazione, alla campagna militare. Sarai più al sicuro qui a Grande Inverno piuttosto che a portata dei Lannister, e questo è tutto.-
Jojen Reed inarcò un sopracciglio, intanto che saliva i gradini. -Se è per questo, lo stesso discorso vale per te.-
-Io sono un re. Ho dei doveri, non posso deludere le aspettative del mio popolo. È diverso.- argomentò Bran, annoiato.
Il consigliere parlò con efficace trasparenza e logica invincibile. -Sei un re, e il tuo compito è fare quanto ti sembra più giusto per tuoi sudditi e per l'esito favorevole della guerra. Io sono il tuo consigliere, e il mio compito è suggerirti ciò che mi sembra più conveniente e più assennato fare. Se entrambi dobbiamo adempiere alle nostre funzioni, lasciandomi qui mi impedisci di svolgere il mio lavoro.-
Bran affondò il mento nella pelliccia di Estate. Non aveva energie per discutere anche con Jojen, quella sera: come aveva potuto venirgli in mente di intraprendere quell'impresa?
-Mi rifiuto, Jojen. Questo è un ordine. Non posso correre un rischio simile...- s'oppose. Jojen lo seguiva impettito e la sua fronte era attraversata da increspature sempre più marcate.
-Se puoi correre il rischio di perdere la vita, perchè non puoi correre quello di perdere me? È assurdo, Maestà, permettimi di confessarlo.- affermò egli. -Tu sei insostituibile ed io sono soltanto un alfiere, al pari degli altri.- Bran sollevò la testa ed incise gli occhi nei suoi.
-Tu sei soltanto un alfiere al pari degli altri, ed io ti amo.- Nella sua voce non c'era dolcezza nè pietà, e Jojen non sorrise.
-Non basta più, Maestà.- dedusse a voce bassa. -Non c'è mai stato posto per un noi. Nemmeno adesso. Tantomeno adesso.-
Il silenzio calò ad annuire per la seconda volta, implacabile, facendo rabbrividire Bran nelle vene; il ragazzo cercava inutilmente di dimostrargli ciò che provava, la nociva consapevolezza di dipendere dall'umana mortalità di un individuo, che perciò doveva essere perennemente sotto il suo controllo -e trascinare il proprio regno allo stesso destino, il freddo che l'idea di quel distacco scavava nel suo corpo, il panico per quella divorante e sconclusionata solitudine di cui portava ancora le cicatrici, la frustrazione che soffriva all'effettività di non poter impedire il male di Jojen soltanto con le proprie mani, con le proprie forze, con i denti e le unghie... Se guardava alla realtà con sguardo obiettivo, Bran vedeva il vuoto d'un mondo che non aveva più torti da infliggergli. Nessuno... eccetto uno. L'unico che Jojen gli stava suggerendo di rischiare.
-Non ti rendi conto che se tu muori, per me è finita?- fu tutto quel che riuscì a dire, mentre nulla di convincente giungeva alle sue stesse orecchie. Non era abbastanza bravo con le parole, non sufficientemente da piegare Jojen con i propri argomenti. Perchè non soltanto questo, non era così poco: non era finita per Bran e basta, per l'esercito era finita, per la guerra era finita, per il Nord era finita. Per un popolo intero, era finita. Come poteva permettersi di correre un pericolo del genere?
-Significa che baderò alla mia incolumità.- s'avvide Jojen, come se non vi fosse nulla di più ovvio. Bran, seppur controvoglia, avvertì le labbra costringersi ad un sorriso sconsolato.
-Tu? Che non sai nemmeno tenere un coltello in mano?-
-Chi si occuperà di moderare i tuoi attacchi, se io non ci sarò?- rincarò Jojen. A quel punto il re strinse le labbra, disarmato, e abbassò gli occhi. Carezzò Estate in mezzo alle orecchie, distrattamente, e si chiese perchè dovesse sempre essere egli stesso il suo peggior nemico.
-A proposito della guerra, Maestà,- Jojen cambiò argomento, notando il suo turbamento, -sarà bene che prima di partire per un viaggio lungo come questo, la cui durata è ancora sconosciuta, tu... passi le notti con la tua legittima consorte. Comunque vada, bisogna assicurarsi che non manchino eredi a Grande Inverno. Capisci cosa intendo dire, vero?-
-E come potrei non capirlo? Sei stato piuttosto esplicito.- arrossì Bran, imbarazzato. -Immagino che tu abbia ragione... So che devo farlo, e lo farò. Non temere. Anche tu, al ritorno dalla guerra, dovrai pensare a prendere moglie.- aggiunse, con studiata noncuranza. L'idea lo infastidiva un po', certo, però non poteva essere così egoista da pretendere che Jojen rinunciasse a tutto per lui. Il suo consigliere aveva il diritto, come tutti, di sposarsi, avere dei figli, amministrare le terre che gli appartenevano per eredità. Il suo incarico non doveva annullare qualsiasi altra cosa.
Jojen, al contrario di quanto Bran si aspettava, scosse la testa con sussiego. Il suo sorriso era remoto, come se l'ingenuità di tale proposta lo divertisse.
-Io non mi sposerò mai, Maestà. Il mio posto è accanto a te, perchè ho un sacro obbligo soltanto verso il mio re.-
Non c'era tristezza nella sua voce, quanto l'autoritaria consapevolezza d'avere un compito che avrebbe portato a termine soltanto dopo aver chiuso gli occhi per l'ultima volta.
-Non pensi che tuo padre sarà deluso? Sei il suo unico figlio. Se non ti sposerai, alla tua morte casa Reed si estinguerà.- obiettò Bran; la risposta non potè fare a meno di rallegrarlo, indipendentemente da tutto il resto. 
-Mio padre sa chi sono.- ribattè Jojen, sibillino, -e sa cosa devo fare. Oltre a questo, niente è davvero importante.- 
Effettivamente, egli avrebbe potuto avere una vita all'infuori della corte, avrebbe potuto andarsene e non tornare mai più, avrebbe potuto curarsi d'una persona che non fosse Bran... e allo stesso tempo non poteva. Io sono il suo destino, pensò Bran. Gli sono stato imposto, gli risulto inevitabile. Lui è nato per me. E quel pensiero lo attraversava in un brivido d'emozione.
Fatto sta che raggiunsero la camera e si prepararono per la notte. Esausto, incapace di sorreggere le palpebre, il re del Nord appoggiò la testa sulla spalla di Jojen e si strinse giusto un altro po' al suo fianco.
-Verrai con me, alla fine, giusto?- mugugnò nel dormiveglia, contrariato.
Jojen sorrise. -Sì.-
-Non serve che io dica altro, allora.-
Il consigliere attese che il suo re prendesse sonno; accadde piuttosto in fretta, perchè utilizzare i poteri lo aveva sfiancato ulteriormente. Mentre contemplava il viso del suo amato, il ragazzo non trovò nulla di più lecito che chiedere al mondo intero di lasciarlo dormire, di camminare in punta di piedi, di non fare troppo rumore. Ma Bran non era nato per vivere la vita facile d'un re dalla corona d'oro, che al mattino dimentica i propri sogni, che può permettersi la serenità per più di una notte. Era nato per gloria e dolore, stenti e vittorie, sconquassi e traguardi, per regolare i conti -pagando tributi e riscuotendo debiti, per iniziare una guerra che avrebbe premiato la perdita con la fama. Per farsi del male in nome del bene altrui, sempre in bilico fra due mondi troppo vicini. Sia vendicatore, sia vittima sacrificale. Brandon Stark, come tutti coloro che avevano portato quel nome prima di lui, era nato per non morire mai, eternato dalle parole delle leggende e dal ricordo dei posteri.
Jojen carezzò la fronte di Bran, un sentimento inesprimibile acceso nello sguardo come un'antica stella. Oltre a questo, niente è davvero importante.
***
La stanza ch'era stata concessa a Shireen era una delle più belle del palazzo. Di forma circolare, molto spaziosa, con tre finestre e tende di broccato viola così lunghe da spandersi in una pozza di stoffa sulla piastrelle di pietra scura; su una delle pareti dipinte d'oro, si poteva ammirare un vivido affresco raffigurante una fanciulla dai lunghi capelli mossi al vento ed una ghirlanda di rose blu fra le mani. Delle piccole servette indaffarate s'affrettavano a sistemare gli abiti della principessa nei cassettoni e nel grande armadio a due ante; non erano vestiti sontuosi come quelli che di solito le dame del Sud sfoggiavano, bensì più austeri, sebbene non mancassero di una loro singolare raffinatezza. Era povera, la corona dei Baratheon, ma assolutamente carica di dignità.
-Entra pure, Rickon. Non mi aspettavo un'altra tua visita, dopo così breve tempo.-
Shireen sorrise, le ombre delle fiamme a dipingerle la chioma di riflessi scarlatti. Infatti v'era un focolare acceso, in fondo alla stanza, presso il quale sedeva la principessa, tendendo le mani alla benevolenza del suo calore. Morbidi e sinuosi spettri incandescenti avviluppavano i ceppi in un bacio mortale, districandosi e congiungendosi in una danza vorticosa di primitiva e superba bellezza, inaccessibile e ritrosa nel suo mistero, e dita fievoli come note musicali tastavano, percorrevano, assalivano la corteccia della legna come avrebbero fatto quelle d'un amante, ed inoculavano scintille fino a che i ceppi gemevano pietosamente arrendendosi in sbuffi di cenere, insediati, contaminati, divorati dall'interno da un morbo inarrestabile, e la morte giungeva lenta, languida, un incantesimo di selvaggia malinconia. Shireen, abbastanza vicino da avere le guance e la fronte arroventate da un calore pungente, rimirava con mesta tenerezza il fuoco, quasi alla vista d'un figlio amorevolmente accudito; non le faceva paura, e la parte destra del suo volto nemmeno lo percepiva. Rickon avanzò senza parlare, ed il suo sguardo rivolto al caminetto era cupo: era penoso per lui vedere quella suprema espressione di potere e d'affermazione così blandamente ammansita, imprigionata, svilita.
-Nemmeno io credevo che mi sarei mai ripresentato al tuo cospetto in vita mia.- ammise Rickon. -Eppure, eccomi qui.-
Shireen non domandò nulla. Quando si voltò verso di lui, il suo viso si dorò d'una curiosità puerile, tonda e limpida, a trasparire pulsando e spaccando le scaglie di ferro ad arrampicarsi lungo le linee dei suoi tratti. Non c'erano schermi -non c'erano maschere.
-Perchè porti i capelli così? Sono quasi lunghi come i miei.- commentò vivace, con una voce talmente inconsapevole ed esente da ogni contaminazione esterna da rendere impossibile un'eventuale reazione di fastidio.
-Perchè... mi piacciono.- borbottò Rickon. -Sono qualcosa di cui non mi posso disfare... il passato non si deve rinnegare mai.-
In effetti raccontavano una parte della sua vita, quella che nessuno voleva ascoltare, e lo rappresentavano, in un certo senso. Sì, parlavano di lui ancora prima ch'egli potesse aprire bocca.
-Nemmeno la propria famiglia, però.- osservò Shireen pensosa. Il suo sguardo non lasciava spazio a dubbi.
Rickon strinse i denti. Possibile che ovunque si voltasse gli altri cercavano di fargli la predica?!
-Lascia perdere. Non ho voglia di litigare anche con te.- liquidò sbrigativo.
-Già.- Le labbra di Shireen si curvarono in un sorriso mite. -Nessuno ha mai voglia di alzare la voce con la principessa sfregiata.-
Non era un'accusa, la sua, quanto una triste constatazione, quasi un'amichevole rassegnazione di cui non attribuiva nessuna responsabilità all'interlocutore. Nei suoi occhi v'era una malinconia rappresa che il ragazzo non seppe come gestire.
-Io non faccio elemosina a nessuno.- tagliò corto Rickon, seccamente. Non voleva compatirla, perchè in fin dei conti non era una fanciulla così debole da guadagnarsi quel disprezzo, eppure gli risultava inevitabile. La bugia crepitò innocua, in coro con le fiamme del camino.
-Allora sei il primo.- Attorno a Shireen gravitava un'atmosfera d'innaturale beatitudine e la triste, sincera immensità dei suoi occhi provocava in Rickon la tediosa sensazione d'essere sciocco, ignaro d'una consapevolezza più alta, superiore alla sua esperienza, del dolore e dell'esistenza. -Non tutti sono capaci di comprendere la mia fortuna. Ho un padre e una madre che mi amano e vogliono il meglio per me. Ho degli amici su cui contare. Ho una vita serena ed agiata che non tutti possono permettersi. È davvero molto di più di quanto mi meriti, non credi?-
Il ragazzo credeva di capire dove lei volesse andare a parare, e latrò una risata. -Se tutto ciò è un discorsetto atto a convincermi che in fondo la vita è bella e io devo ritenermi un ragazzo fortunato, risparmia il fiato.-
Shireen inarcò un sopracciglio, perplessa. -Ma tu sei un ragazzo fortunato. Dopo tutto quello che certe persone hanno tentato di fare per sterminare la tua famiglia, tu sei ancora qui. A te sembra poco, e invece è l'unica cosa che conta.-
-L'unica cosa che conta...- ripetè Rickon, salace. Il silenzio fu impreziosito dallo scoppiettio del fuoco, ed i pensieri zampillavano come le scintille a levarsi dal camino, compiendo archi aggraziati fino ai loro piedi. Sapeva, Shireen, a che punto d'esasperazione la sopravvivenza diventa una maledizione, anzichè un miracolo?
Lo sguardo del ragazzo, alla ricerca d'una distrazione, si posò su un manichino ricoperto interamente da un lenzuolo. Senza che domandasse nulla,
-Lavorano già al mio abito da sposa.- spiegò Shireen, con voce indecifrabile, indicando le serve con un cenno della mano. -Pensavano che fosse di cattivo auspicio che tu lo vedessi prima del gran giorno, ma... Su, lasciate che lo guardi.-
Intimidite, le ragazze scostarono il lenzuolo. L'abito ch'era rimasto celato fino a quel momento era qualcosa che Rickon non aveva mai visto prima d'allora. Il corpetto aderente era dorato, trapuntato di minuscole perle bianche, decorato d'un complesso d'arabeschi e pietruzze di quarzo rosa pallido, e la scollatura a cuore era impreziosita di pizzi antichi; la vasta, immensa gonna, a dilatarsi sempre di più come una corolla, era di splendente e pregiato raso cangiante, ed il suo orlo ricamato richiamava le guarnizioni del petto. Applicate sopra v'erano ruches di tulle arricciato, vaporose ed eteree, divise in bande che parevano petali di fiore. Gli abiti erano probabilmente l'ultimo interesse di Rickon, eppure gli fu impossibile non ammettere che quello era un vero capolavoro.
Shireen lo esaminava con sguardo assorto, distante, come da un'altra epoca. -È troppo bello per me, me ne rendo conto. Farei una misera figura.-
Pochi sgradevoli secondi galleggiarono fra loro, in attesa di sapere come si sarebbe risolto il silenzio.
-Io non ti sposerò, Shireen.- Non c'era severità nella voce, nell'espressione di Rickon, ma solamente un'impassibile intransigenza. Lo sapeva. Lo sentiva, chiaro come il flusso del proprio sangue nelle vene. Il giovane Stark osservò la ragazza: Shireen aveva il portamento e la fierezza della sovranità di diritto, l'impronta del potere sul viso, la durezza ad ammorbarle la pelle. Nata per regnare, questo sì. Ma non al suo fianco.
La fanciulla sorrise gentilmente, senz'ombra di delusione o rammarico. In effetti, c'era troppa acquiescente gentilezza in Shireen Baratheon, troppo placido amore per la vita, dopo che essa le aveva rubato, oltre al diritto di nascita, quanto rende più fiera una donna: la propria bellezza.
-A dire la verità, l'ho capito dal primo momento in cui ti ho guardato dritto negli occhi.- confessò ella. -Tu ami quella prigioniera che tieni nel sotterraneo, vero? Myrcella.- I suoi occhi brillavano di malizia, adesso. Rickon ghignò senza allegria, incerto se stesse deridendo lei o se stesso.
-Amore? Tu quello lo chiami amore...- commentò aspro. -Non si osa amare una persona, dopo aver superato certi limiti.-
Non sapeva nemmeno lui di quali limiti stesse parlando. Quelli della dignità, della decenza? Perchè guardando negli occhi di Myrcella aveva visto quel guasto, quel cedimento, quello squarcio, e troppe volte se ne era rallegrato.
-Dicono che è bellissima.- proseguì Shireen, raggiante d'entusiasmo, come se stesse sfogliando le pagine d'un libro di fiabe.
-Lo è.- si limitò a replicare Rickon laconico, mentre gli pareva quasi di percepire fra le dita quei boccoli biondi, d'avvertire le sue labbra tenere sotto i denti.
Shireen sorrise insinuante. Era un'anima cosciente, lei, oltre l'inganno, oltre l'invidia. -Scommetto che Myrcella starebbe molto meglio di me con questo vestito.-
Egli incrociò le braccia. -Se stai cercando di strapparmi una confessione...-
-La parola confessione l'hai pronunciata tu, non io.- gli fece notare la ragazza, divertita.
-... sappi che non c'è niente da confessare.- concluse Rickon, convinto che fosse irritazione quel rossore che balenò sulle sue guance, confondendosi con il riflesso del fuoco.
Shireen lo contemplò, perchè il suo sorriso era come uno specchio, e gli altri spesso riuscivano a trovarci quanto era sempre rimasto dentro di loro, rannicchiato in un buio meandro della coscienza. Anima vecchia, sì, e corpo di fanciulla, sorriso di miele e pelle di pietra, lievità nella voce e sconforto negli occhi. Forse una contraddizione, la sua. C'era una saggezza troppo pesante nel suo sguardo, ed inconciliabile con la vitalità delle sue labbra. Perchè poche volte il destino l'aveva schiaffeggiata, poca sofferenza aveva raggiunto il suo animo, ma la sua condanna era consumarsi lentamente, e in quel piccolo dolore di bambina Shireen era sola.
-Secondo te lo sa, il fuoco, che quando finirà di consumare il suo pasto morirà con lui?-
Gli occhi di lei si riempirono di fiamme fino a dimenticare il proprio colore. Ma le riflettevano, e basta: un'anima contemplatrice, che non conosceva l'arte della devastazione. Gli occhi di Rickon lo inghiottivano, il fuoco.
-Non può fare a meno di consumarlo.- rispose egli, dopo qualche istante.
-È un predatore talmente nocivo- iniziò Shireen, in un filo di voce ispirata, -da non limitarsi alla distruzione di tutto ciò che lo circonda, ma, non soddisfatto, anche di se stesso.- Allora cercò Rickon con lo sguardo, sollecita. -Non distruggerti, te ne prego. Non farlo.-
Per un attimo il suo sorriso fu così inestimabile da offuscare l'imperfezione del suo viso -da renderla bella quanto Myrcella. 
Peccato, Shireen Baratheon. Magari in un'altra circostanza, in un altro momento, in un'altra realtà, avrei detto di sì. Rickon sorrise beffardo. Si alzò ed annullò la distanza che lo divideva dalla porta a lunghi passi. Prima di lasciare la stanza, 
-Alcuni vanno incontro alla distruzione per destino.- proferì a voce alta.
-Mentre altri per scelta, non è così?- sussurrò Shireen, troppo piano per essere udita. Ed allora cominciò a cantare, a mezza voce, parole sconosciute: the stones crack open, the water burns; the shadows come to dance, my love, the shadows come to play; the shadows come to dance, my love, the shadows come to stay, mentre la legittima regina dei Sette Regni assisteva all'agonia del fuoco con occhi inscalfibili; e Rickon trattenne un ringhio fra le labbra, pensando ch'era vero -che Myrcella sarebbe stata dannatamente splendida con quel vestito.
***
-E questa,- sussurrò Myrcella, mentre il polpastrello dell'indice percorreva con tocco fievole il disegno della cicatrice che attraversava il petto di Rickon, -questa come te la sei procurata?-
-Una pantera ombra.- rispose il ragazzo, noncurante, con voce roca. -Avevo undici anni e faceva freddo, quella notte. Me lo ricordo... faceva freddo. Io e Osha cercavamo di accendere il fuoco, ma il vento soffiava e soffiava...-
Invischiati nella massa fuligginosa del buio, nell'appagamento frastornante del loro piacere, giacevano ebbri e torpidi godendo della nera pace di quella cella. Imbrattati di bitume erano i loro corpi, ma ammorbate irrimediabilmente le loro anime, senza via di scampo. Gretta s'era consumata la passione -quella passione impura che aveva riecheggiato stridula nelle loro viscere, come una saetta, fino a che non era scoppiata chiassosa, e la viscosa testimonianza di quel ch'era stato s'essiccava nell'intreccio della cenere.
La prigioniera riusciva a malapena a distinguere morbidi profili soffusi della luce ibrida d'una candela esitante, poggiata a terra; la figura imponente di Rickon era poggiata al muro, le gambe distese davanti a sè con insolente negligenza, ed il corpo della fanciulla si sosteneva al suo, le braccia violate di sangue annerito a cingerlo con dolcezza.
Rickon lasciò ricadere il capo nel grembo di Myrcella, con lenta pigrizia. Il languore dell'orgasmo l'aveva lasciato stordito, quasi sopraffatto, impastato in una densa voluttà simile ad una ragnatela d'indolente sonnolenza.
-Non ho voglia di andarmene.- bofonchiò a fatica, affondando le unghie nelle sue cosce, nell'ennesima riaffermazione inutile d'un potere già consolidato. -Non ne ho voglia. Lassù sono... bah, sono tutti così stupidi. Nessuno capisce. Voglio rimanere qui.-
-Allora rimani.- bisbigliò Myrcella, accondiscendente, infilando le dita in quella chioma rossastra come sangue raggrumato. -Compiresti la tua volontà, ed allo stesso tempo recheresti un grande omaggio alla tua umile schiava.- Affondò le labbra nell'incavo del suo collo, sfiorando la pelle e stuzzicandola con la lingua. -E io ho così tanto bisogno di compagnia...- mormorò suadente, una nota dolente ad alterarle la voce.
Lo spettro stanco del solito ghigno s'aprì come una ferita. -Oh, sì. Hai tanto bisogno di compagnia.-
Era così facile mentire, che Myrcella stessa si stupiva della naturalezza con cui pronunciava certi spregiudicati azzardi, senza che il pudore la frenasse; e facile, spaventosamente facile era concedersi: aveva smesso di fare male -era bastato ammorbidire i muscoli e rilassare le spalle, convincersi di desiderarlo, per superare qualsiasi remora. Era ruvida, la bocca di Rickon, e la esplorava senza riguardo, ma ormai la prigioniera ci aveva fatto l'abitudine, e la considerava soltanto la costante riprova d'intima familiarità che quella nuova vita le stava offrendo. Dopo tanti indugi, una certezza. Ormai persino le serve avevano smesso di portarle da mangiare, perchè voleva essere sempre lui a farlo, ed era dunque diventato il suo unico contatto umano.
Mentre seguitava a carezzare i capelli al proprio carceriere, Myrcella ricordò d'un tratto il suo primo arrivo a Grande Inverno: a quel tempo aveva nove anni, voleva sposare un lord bello ed aitante che la servisse e la riverisse in un castello pieno di sfarzo. Guardava Robb Stark, grande, carismatico ed ammirato, non certo quel bambino di sei anni che lanciava a tutti gli ospiti sguardi d'intrepida sfida. E la testa di Robb Stark, dopo essere rotolata nella rossa mensa delle Torri Gemelle, era marcita nella carne putrescente di un lupo; era morto, e molti, troppi insieme a lui. Myrcella pensò poi a Trystane Martell, rapito da una fulminante ed impietosa malattia orientale. Cosa sarebbe successo se fosse sopravvissuto, quel principe allegro e gentile? L'avrebbe sposata, e lei sarebbe stata la regina di quelle opulente terre dove il sole splendeva in tutta la sua maestà; l'avrebbe baciata, e non sarebbe stata ruvida la sua bocca, nè brusca. L'avrebbe venerata con adorazione, l'avrebbe maneggiata come se fosse stata di cristallo. Sarebbe stato diverso. Diverso.
Ma ora tutto era andato, tutto passato, perduto, ripensarci faceva solo male, e lei non era altro che una prigioniera di lusso vestita dalla luce di una candela, la dignità strappata di dosso così come dilaniate erano state le vesti; principessa che in quell'ammaliante profusione di menzogne stava cedendo al suo aguzzino frammenti di sè, uno ad uno, fino a che non avrebbe smarrito l'integro ricordo della propria immagine, e tutti gli specchi si sarebbero rifiutati di rifletterla. Quella realtà subdola la stava sradicando da se stessa -la stava derubando della sua anima. Forse anch'essa era divenuta -come tutto il resto- buio. 
Dopo una lunga pausa, Rickon trovò la carica per parlare ancora. La sua voce era tagliente, atona, quasi discutesse di un argomento di vago interesse.
-Mi hanno organizzato un matrimonio combinato.- 
-... matrimonio?- La prigioniera era a tal punto stupita, che smise di carezzargli i capelli; quella parola sdrucciolò strana sulla sua lingua. L'idea che si era fatta di Rickon era assolutamente incompatibile con quella di un marito, ed i consequenziali obblighi e doveri che questo ruolo implica. In verità, sembrava incompatibile con qualsiasi genere di dovere. Figuriamoci se si trattava di andare incontro ad una donnetta emozionata e restarle fedele per tutta la vita.
-Perchè?- Fu la prima domanda che sorse spontanea alle labbra di Myrcella.
-E che diavolo ne so, io!- tuonò Rickon, stizzito. -Per le alleanze, per i soldati...-
La fanciulla, dopo qualche istante di frastornato turbamento negli occhi, riprese a scorrere le dita fra quei capelli scarlatti e scompigliati.
-Chi è lei?- domandò alla fine, incuriosita, mostrandosi il più mesta possibile -perchè, visto che a Rickon quella storia pareva non piacere per niente, non doveva piacere nemmeno a lei. Con lui l'unica soluzione era assecondarlo ciecamente.
-Shireen Baratheon.-
Myrcella rimase sconcertata da tale risposta. -Mia cug...-
Rickon sollevò la testa di scatto, incollerito: -Non dirlo, maledizione, Lannister! Lei non è tua cugina. Tu hai un solo cognome, ricordatelo. Insomma, che cazzo, ti sei mai guardata?! Sei assolutamente, orribilmente Lannister in tutto e per tutto.-
A quel punto si zittì, placato dal flusso furibondo di parole. Allungò un dito verso un boccolo, adagiato sullo zigomo della ragazza, e se lo rigirò intento, arricciandolo su un dito e traendolo a sè distrattamente, quasi per mostrarle di non essere più arrabbiato. -Oggi è stata davvero una giornata scalognata.- proferì infine.
-Non vorrei che il mio aspetto, ricordandoti i Lannister, avesse contribuito a peggiorare il tuo umore. Se così è stato, mi dispiace molto, mio signore.-
Myrcella abbassò lo sguardo, in segno di subordinazione, e per diversi istanti la sua stessa bugia le compresse il cuore; ci credette, in qualche modo, ed il timore di averlo davvero infastidito la punse nella più tenera sensibilità del suo animo. Tanta passione fomentava dentro di lei, che le emozioni acquisivano essenza sanguigna. È solo una menzogna, sibilò la voce di sua madre, ritta in piedi in un angolo della cella. I suoi occhi erano fissi ed implacabili come la notte. Una menzogna, Myrcella. Una menzogna. Tu non sei angosciata all'idea di avergli rovinato l'umore. Tu lo odi. Tu lo vuoi morto. Tu lo scorticheresti con quelle stesse mani con le quali lo stai cullando. Stai mentendo, te lo ricordi ancora?
Certo che se lo ricordava. C'erano notti solitarie in cui la sua rabbia era un coltello ad affondare nelle tenebre, la voce le mancava ma le urla si contorcevano nella gola, e quella cella era troppo piccola per la sua furia; ma, appena lo vedeva, poche ore dopo, si calava automaticamente nella parte e le menzogne scivolavano dalle labbra come acqua da una roggia, e non c'era più rancore, di alcun tipo. Non riusciva più ad essere arrabbiata, non lo era, il suo cuore non era scosso da tremiti nè tratteneva il furore, ma taceva mansueto, mite, pacificato, quasi nell'inconscio timore di tradirsi se avesse svelato tutto il rancore, ma non era vero, perchè il rancore lo beveva l'alba, e asciutta era la sua sete di sangue.
Rickon sorrise con sprezzo davanti a quella dolce sottomissione e le morsicò la gola, forte. Myrcella non emise un gemito; la sua pelle aveva imparato il dolore a memoria, ormai.
-Cara la mia Lannister, ma tu non devi chiedermi scusa per chi sei. Devi pagare, e basta. Dov'ero rimasto, prima che i tuoi occhioni verdi me lo facessero scordare? Ah, sì- proruppe sarcastico, -il fatto che questa giornata ha fatto schifo. Mio fratello ha tentato di uccidermi, per esempio. Poi ovviamente non ha avuto i coglioni di farlo, ma in fondo è soltanto uno storpio ricchione. Cosa ci si può aspettare da lui? E poi, sì, ha contribuito un tuo parente, tanto per rimanere in argomento di palle al piede.- concluse, come se nulla fosse.
Myrcella inarcò la schiena, di modo che il ragazzo lasciasse scendere la bocca oltre il suo collo. -Tommen, dici?-
-No, non Tommen. Lui gioca a fare il re per i fatti suoi.-
Myrcella aggrottò la fronte. Suo fratello era un re distratto. Non cattivo: sbadato, incapace di concentrarsi sulle faccende del regno, innamorato della propria infanzia e di tutte le frivolezze che capitavano ai suoi occhi. Più amato di Joffrey, certo. Ma ugualmente indegno.
La fanciulla pensò allora a Tyrion, ma preferì chiedere senza ulteriori indugi. -Chi, dunque?-
Rickon strinse i denti. Era evidente quanto gli costò quel che disse. -Jaime. Sì, è così. Tuo padre si è salvato. Lui... è vivo.-
Zio Jaime. Myrcella sgranò gli occhi nel buio e le sue ciglia incrostate di nero scricchiolarono. Zio Jaime è vivo. Forse, in fin dei conti, non sono poi così sola. Forse, in fin dei conti, c'è davvero ancora qualcuno per cui combattere. Sollevò il capo, mentre la meraviglia le piegava le labbra in un sorriso euforico. Lui può aiutarmi. Anzi, di certo mi salverà. Perchè non dovrebbe farlo? Magari sta già venendo qui.
-Io... So che la mia gioia ti infastidisce ancora di più, ma non posso fare a meno di...-
-Lascia stare.- borbottò Rickon. -Stai zitta. Ho bisogno di...-
Poi tacque, interdetto, incapace di spiegare a parole di che cosa avesse bisogno esattamente. Abbandonò nuovamente la testa nel grembo di lei e chiuse gli occhi, mentre la sonnolenza di poco prima prendeva il sopravvento. Ho bisogno di silenzio, riflettè Rickon, espirando tutta la stanchezza annidata nel suo petto. Silenzio.
Myrcella non sapeva per quanto tempo lui fosse rimasto lì, inerme come un bambino, però i pensieri non tardarono a susseguirsi nella sua mente, in una certa determinata direzione.
Uccidilo, mormorava Cersei Lannister dal suo cantuccio, adesso che faticherebbe a reagire. Hai ottenuto quel certo potere su di lui, tale da permetterti d'essere avvantaggiata a fuggire, proprio come volevi. Devi farlo, Myrcella, e devi farlo ora. Le occasioni non si ripresentano ogni giorno. Per un istante, un furore incontenibile scosse le mani della ragazza. Un lampo, una folgore. Sì, perchè Rickon Stark aveva rovinato tutto, tutto, e meritava la peggiore fine possibile. Se fossero state quelle deboli mani di fanciulla ad ammazzarlo, poi, l'infamia sarebbe stata di gran lunga più disonorevole. Myrcella, con un solo fendente, aveva la possibilità di togliergli la vita e la gloria, quanto di peggio possa accadere ad un principe.
Cosa aspetti? insisteva sua madre, concitata. Ma Myrcella, non appena sfiorò la daga ch'egli portava appesa alla cintura, ritrasse la mano repentinamente, quasi che si fosse scottata. Non poteva farlo. Era una pazzia. E se Rickon si fosse svegliato d'un colpo e le avesse aperto la testa a metà? Non era prudente. Come avrebbe potuto una ragazzina gracile come lei trafiggere un corpo simile? Non ne aveva la forza. Era lenta, fiacca, impacciata. Sarebbe stato un suicidio, anzichè un omicidio.
Allora la candela, sibilò sua madre. Accosta la fiamma ai suoi capelli e brucialo. Un gesto altrettanto stupido, ribattè ella prontamente: e se le fiamme, dilagando, avessero raggiunto anche lei? Quello era uno spazio angusto. Inoltre era un'utopia immaginare che Rickon sarebbe rimasto fermo e tranquillo ad ardere vivo.
Secondo questo ragionamento, figlia, non uscirai mai da qui.
Myrcella non l'ascoltò. Sarebbe evasa, invece, ma non in quel momento. Più avanti. Quando sarebbe stato più sicuro.
Più sicuro, sospirava Cersei. Sei già morta, Myrcella. Perchè è così che si muore, lo sai?
Myrcella non gradì quel commento. Chinò il viso su quello di Rickon: l'odore della cenere impregnava la sua pelle come acqua -forse in memoria della sua anima andata a fuoco, della sua fanciullezza arsa troppo presto. Il sentore della distruzione lo seguiva ovunque, come se una stella cattiva vegliasse il suo cammino, ammantandolo con la propria ombra. La ragazza smarrì ancora una volta le dita fra i suoi capelli e restarono così, sospesi in quell'interruzione di vita senza morte, concordi in quei piacevoli istanti di nonsenso. Era talmente facile fingere e talmente doloroso svelare i propri reali sentimenti, che Myrcella non aveva dubbi riguardo ciò che preferiva. Era talmente facile volergli bene in quella cella, in quel buio, in quel silenzio, nascondere la sofferenza fra le pieghe del mantello delle tenebre e lasciarsi prendere per mano, dopo tanto tempo d'ostinata solitudine. Sarà stato a causa della sua educazione da lady, ma obbedire ed annuire e compiacere risultava molto meno faticoso, e lei era stanca, e anche lui era stanco. 
Cersei continuava a fissarla, imperterrita, dall'angolo della cella. 
Ad un certo punto, che poteva essere giunto dopo un'ora come dopo dodici secondi, Rickon si ridestò con un sospiro, che schioccò fra le sue labbra socchiuse.
-Devo andare, adesso.- annunciò funereo. L'idea non lo esaltava per nulla.
-No.- sussurrò Myrcella di rimando. -Non... ecco... ti prego, no. Ancora un poco. Fa così freddo... così terribilmente freddo.-
Rickon invece era caldo, piacevole, come se una fiamma perpetua crepitasse nel suo petto e fosse cera bollente a scorrere nelle vene. Le bastò immaginare la notte nella cella senza quel rinfrancante tepore, per gemere con voce sottile. I brividi la assediavano, perchè il ghiaccio s'era insinuato dentro di lei, attanagliando il midollo stesso delle ossa: il freddo del Nord l'aveva avvelenata. Lei voleva tenerlo stretto tutta la notte e percepire ancora il profumo del fuoco otturarle le narici.
Il ragazzo derise sottovoce quella debolezza e la squadrò con un sorriso. Infine parve arrendersi ad una decisione insolita.
-Sono stufo di sentirti pigolare come una quaglia con l'ala rotta.- dichiarò, lasciandosi scivolare dalle spalle la vasta cappa di velluto blu foderata d'ermellino. -Tieni qua.-
Cinse il suo corpo snello con la stoffa, avvolgendolo nel mantello, mentre la prigioniera lo fissava con gli occhi gonfi di sconcerto.
-Non posso accettare.- balbettò, presa in contropiede. -È... è troppo. Voglio dire, è il tuo mantello! Non devi privartene per darlo a me...-
-Come se ne avessi necessità.- replicò Rickon, spavaldo. -Io non ho mai freddo. Comunque, io faccio quello che mi pare, perciò se mi gira di darti il fottuto mantello tu te lo tieni. Chiaro?-
Il suo tono era aspro, ma Myrcella sorrise. -... non so davvero come ringraziarti.-
-Non mi ringraziare.- borbottò lui. -Domani te ne farò passare la voglia, credimi.-
Fu con queste minacciose parole che se ne andò, quasi indignato dalla propria stessa generosità; però era invano che Myrcella lo attendeva, aspirando intensamente l'odore impresso sulla pelliccia, perchè il giorno dopo il suo carceriere non arrivò. E nemmeno quello dopo. E quello dopo ancora.
***
Garlan, fratello mio,
ci siamo. Il mio dolce marito ha deciso che partirà per la guerra, ebbene sì, nel caso in cui l'avessi sentito dire da altri, ti confermò che è così: però questo è l'unico imprevisto. L'idea di non poterlo tenere sotto controllo, qualora la situazione precipitasse, mi spaventa, però non c'è verso di dissuaderlo. Troverò la maniera più indiretta per convincere Tyrion Lannister che la cosa migliore da fare è seguire nella campagna militare il giovane re, per consigliarlo e sorvegliarlo, data la sua inesperienza. E, quando l'esercito partirà da Approdo del Re, non ci sarà più un solo Lannister alla Fortezza Rossa. Ebbene, ormai è certo: anche Jaime se ne andrà. Perciò il nostro piano è quasi compiuto.
Attenderò con impazienza il tuo arrivo. Quanti anni sono che non ci vediamo? Troppi, fratello mio. Troppi. Andrà tutto bene, vedrai. Questo castello sarà nostro -questo regno sarà nostro.
La tua affezionata sorella,
Margaery



































Note dell'Autrice: Eccomi qui! Spero di non aver postato troppo tardi! ^-^
Nella speranza di non aver deluso le vostre aspettative, il quinto capitolo. Con il prossimo, avremo la partenza per la guerra e il chiarimento d'un po' di questioni irrisolte lasciate qua! Perchè Rickon non torna da Myrcella? I sogni di Bran porteranno forse a qualcosa di ancora più terribile di un tentato omicidio? Cosa sta combinando Margaery? Cosa diamine sta succedendo a Pyke? Possibile che Theon abbia ragione? Eheh.
So che dopo aver letto questo capitolo siete nauseati da Rickon: era in ogni singolo pezzo! La prossima volta si parlerà della Fortezza Rossa e di Jaime, se i Sette Dei vorranno. Solo io posso scrivere che Bran è uno storpio ricchione ed indignarmi allo stesso tempo con il personaggio che lo dice... -.-  facepalm.
La canzone che Shireen canta è quella che compare anche nel telefilm, non è affatto farina del mio sacco!
Grazie mille alle sette persone che hanno messo questa storia nelle preferite, le due che l'hanno messa nelle ricordate e le diciotto che la seguono! (diciotto?! Wow!) E ovviamente un ringraziamento speciale va a SherlockLady, Talia_Federer, RLandH e yoyobigship, per avere recensito il capitolo precedente! Per me è incredibilmente costruttivo.
Grazie anche a chi continua a leggere, nonostante la lunghezza esorbitante dei capitoli! Ci vediamo nelle prossime note dell'autrice! ^-^
Lucy
ps: per chi si chiedesse quando compariranno Arya e Gendry, ebbene sì, quel momento sta per arrivare... abbiate fede!
  
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