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Autore: Touen    14/12/2013    3 recensioni
C'era un immagine che mi accompagnava da un po'. Un ragazzo seduto solo in un cimitero. Magari con un cane affianco a sé e la chitarra in spalla. Che, forse, piangeva per una Lei che non c'era più.
Ne scrissi una Os che cancellai in un momento di crisi. Questa è la sua continua.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando arrivò il referto dell’autopsia sul cadavere di Beryl, eseguita per stabilire, in via ufficiale, le modalità del suicidio e di dubbia utilità, giacché la polizia aveva archiviato il caso di Beryl, considerandola un’adolescente depressa senza alcun motivo apparente, John era troppo stanco per sopportare quella ulteriore conferma che lei non era più con lui.

Era venuta a fargli visita la psicologa della scuola, nella speranza di aiutarlo. Non sapeva di aver commesso un errore.
Era stata una pugnalata al cuore in senso letterale. Aveva avvertito una fitta al petto così dolorosa da impedirgli la respirazione.

Era certo di non essersi depresso. Per lui quel dolore che avvertiva era niente, poca cosa in confronto a quello che avrebbe dovuto provare. Per questo si dannava e, a volte, odiava. Non soffriva abbastanza per la proporzione con cui la amava.

Trascorreva le giornate leggendo i libri di Marquez, ascoltando gli Stones e portando in giro Kennedy.
Non piangeva e se ne tormentava perché per Beryl avrebbe dovuto versar lacrime fino a generare un nuovo mare che dividesse gli amanti di tutto il mondo.

Mise la lettera in tasca e la riprese solo un pomeriggio in cui si ritrovava seduto sotto un olmo con Kennedy accoccolato accanto a lui.

La lettera era indirizzata ai genitori di lei, ma era chiusa. Forse erano ancora troppo deboli per poterla leggere.
L’aprì e la lesse come se si trattasse di un libro sui più macabri rituali di magia nera.

Era morta per l’avvelenamento da pillole e non per i tagli, risultati troppo superficiali per creare un danno alle arterie, ma lui già sapeva e non fu necessario leggere le dosi o i nomi dei farmaci, Beryl disponeva di notevoli dosi di sostanze psicoattive.

Scansò accuratamente le condoglianze per evitare una nuova lacerazione al petto, gettò il primo foglio e si avvinghiò sul secondo, raramente presente.

Quest'ultimo affermava, in maniera breve ed esplicita, che nel ventre di Beryl, per un periodo di circa tre mesi, era vissuto un feto.

John non ci credette e aveva tutte le ragioni per farlo.

Beryl aveva problemi di ciclo a causa dei suoi disturbi alimentari. Lui raramente la penetrava perché aveva timore che si affaticasse e quando lo faceva, indossava il preservativo per i suoi disturbi nel lubrificarsi e si scostava sempre prima dell’orgasmo perché a lei piaceva continuare con la sua mano. Amava poterlo guardare gemere e decidere quando aumentare o diminuire il suo piacere.
Lui la accontentava, come sempre, aspettando il giorno in cui Beryl si sarebbe resa conto di tutte le attenzioni che le riservava e avesse smesso di rovinarsi.

Era impossibile che fosse opera sua, andava oltre ogni ragionevolezza; ma ciò nonostante il bambino c’era stato e John non volle più pensare, perché così avrebbe capito cose che in realtà non desiderava comprendere.

In quell’attimo voleva solo svanire fino a divenire trasparente come aria.

Era più facile far tacere la propria mente, accettare che Beryl aveva resistito per anni e poi aveva deciso di porre fine a tutto; così poteva anche incolparla nell’intimo.

Quella lettera indicava che qualcuno l’aveva spinta nel baratro che lei evitava.

Affioravano nuove domande, altre ragioni per cui sentirsi male; perché lui, oltre a non aver salvato Beryl, aveva lasciato morire un bambino inerme.

Perché non glielo aveva detto? Lui avrebbe capito e avrebbe desiderato il bambino per sé. Non lo avrebbe detto neanche ai suoi genitori che quell’infante non era sangue del suo sangue.

Ora John voleva solo dimenticare il tutto, far finta che non fosse accaduto nulla.

Chi gli aveva portato via la sua bambina? Chi aveva rovinato anche la sua vita?

Assieme a questi interrogativi gli tornò in mente la canzoncina in stile anziano blues man che Beryl gli cantava quando voleva fargli comprendere che era arrabbiata.

“Oh John, oh John, tu mi hai deluso, con me hai chiuso.”

Lui odiava quella canzone perché non avrebbe mai voluto deluderla, ma quel ricordo gli suggerì una agghiacciante teoria. Forse, con quel gesto estremo, lei volesse vendicarsi della miopia di John che non aveva capito cosa era accaduto.

Lui avrebbe dovuto comprenderlo, ma aveva fallito nel suo solo compito, quello di proteggerla.

Forse l’aveva odiato durante gli ultimi attimi della sua vita.

Scelse di non crederci; non riusciva a vedere dei segnali che indicassero un trauma e tanto meno riusciva a trovare un colpevole. Non c’erano ragazzi interessati a Beryl la stramba, l’anoressica, la depressa. Non c’erano famigliari o amici che mai avessero potuto fare una cosa del genere, su questo era certo. Li conosceva così intimamente, tutte quelle ore passate insieme, e poi, era divenuto dannatamente esperto nel decifrare i segnali del suo corpo e lei non aveva mai comunicato nervosismo quando si trovava con loro. Mise la lettera in tasca senza notare il terzo foglio e l’inserto annesso.

John vagò per ore per le vie della città e si fermò solo per guardare una vetrina di abiti premaman. Sorrise perché tra poco anche lei ne avrebbe avuto bisogno e sarebbe stata obbligata a smetterla con il vomito autoindotto, con la ginnastica estrema e le docce fredde; lei non avrebbe mai fatto male a un altro essere. Di questo era certo.

Osservò le tutine che tra cinque, sei mesi avrebbero occupato un intero cassetto nella stanza che lui stesso avrebbe dipinto con immagini di buffi animaletti.

Rimase occupato nei suoi pensieri fin quando Kennedy, che lo seguiva senza bisogno di un guinzaglio, abbaio e lui ricordò. Desiderò che sparisse, che un camion lo investisse, che fuggisse via.

Si comprò un frullato e rincasò.

Si rase e si lascio andare nell’acqua calda della vasca profumata dai sali che odoravano di vaniglia. Gli ricordavano la festa patronale, le giostre e lo zucchero filato che gli compravano. Quello era l’odore dei ricordi d’infanzia.

Chiuse gli occhi e rilassò i muscoli pensando a come sarebbe stato bello il domani.

Lui sapeva che domattina Beryl sarebbe stata scordata da tutti, dimenticata dai suoi stessi genitori, la lapide sarebbe svanita, lui sarebbe andato al cinema con Tommy e avrebbe rimorchiato una ragazzina idiota per il ballo.

Il suo sguardo cadde su Kennedy e per un attimo odio quel cane che gli evitava la dolcezza della pazzia, ricordandogli costantemente che lei non era più con lui. Pareva un essere degli inferi di qualche assurdo romanzo dell’orrore che faceva da tramite dal regno dei morti a quello dei vivi.

Il pastore tedesco era lì a vigilare su di lui e pensò a come la tomba di Beryl sarebbe rimasta, almeno per un decennio, la più visitata e a come avrebbe dovuto frequentare i genitori di lei per aiutarli a sopportare quello strazio immane.

Lasciò vagare lo sguardo per la stanza fin quando iniziò a prestare attenzione ai suoi jeans stinti e strappati e si ricordò del resto della lettera. Lesse il foglio rimasto, uno scritto a mano che affermava in modo semplice e veloce che, attaccato al petto di Beryl, era stato trovato il foglio ripiegato e annesso alla lettera. Vi era anche scritto che non avevano aperto per rispetto.

“Questo è il bello di vivere in un piccolo paesino dove tuo zio controlla qualsiasi ambito del post morte, i becchini lo sanno e lo rispettano, terrorizzati dall’idea che gli riduca ad ammassi sanguinolenti se sono irrispettosi nei confronti del suo nipote prediletto, che, tra l’altro, ha subito un’immensa perdita.” pensò.

Rifletté su come gli fosse andata meglio rispetto a chi si vantava di avere zii marescialli e nonni nella scientifica e rise.

Inizio a leggere il foglio che sapeva ancora dell’odore di lei.

ricordo di quando mi raccontasti del professore di filosofia che ti mise una mano sul cavalo dei jeans senza accorgersene…

John rabbrividì al pensiero di quel gesto causale, della presa ferma di lui, di come strinse prima che entrassero gli altri.

non volevo; ma sono stanca, debole e nessuno mi avrebbe sentito. Mi ha fatto sanguinare, non mi è mai accaduto con te…

Lui pensò a tutte quelle volte che ci aveva riso su. Aveva sempre ritenuto quel gesto un urto involontario, singolare ma involontario.

John, hai un nome che m’ispira al romanticismo ed è per te che ho arrancato, è per te che faccio ciò. Perché il dolore più grande l’avresti provato tu ché non avresti mai sopportato l’idea che qualcuno mi ferisse. Saresti diventato pazzo…

“Ti amo anch’io, Beryl” disse John quando terminò la lettera e scoppio a piangere; non glielo aveva mai detto prima.

A John sembrava che i suoi occhi, che da anni non lacrimavamo, non avessero più la sensibilità necessaria. Non si fermavano, non vi era un limite e le lacrime sgorgavano in rivoli incontrollati. Non poteva capire come Beryl sopportasse quel gesto, all’apparenza così naturale, ogni giorno.

Gli occhi gli bruciavano come se fossero allergici alle loro stesse lacrime. Il corpo sobbalzava e Kennedy gli si avvicinò per strusciargli il muso contro, come aveva fatto la notte della sua escursione notturna.

 

   
 
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