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Autore: alwaysbeenweird    14/12/2013    1 recensioni
"Perché hai tentato il suicidio l’altra sera? Perché lo hai fatto? Qui ti aiuteranno, ti aiuteranno a capire, Peter. Forse tua zia ha ragione a dire che sei problematico. Forse lo siamo tutti e due. Ma io non posso proteggerti, né aiutarti. Chiamami pure codardo, ma non ne ho la forza.
Addio, Peter.”
Proprio un gran bel padre aveva!
Aggrappandosi alla ringhiera del letto scese dal materasso con le poche forze che aveva, poggiando le punte dei piedi sul pavimento gelido come la pietra.
Si sentiva spaventato, confuso, la vista gli si stava annebbiando. Continuava a domandarsi perché, perché, perché?
"AH, DANNATO!" fece in tempo a urlare, prima di cadere, storcendosi la caviglia.
"Oh, guarda, Pete, ora hai un motivo in più per stare in ospedale!" sentiva la voce di suo padre prenderlo in giro, mentre lui, tutto meno che divertito, si massaggiava la caviglia, coi capelli corvini che gli ricadevano sulla faccia e che si bagnavano, in un miscuglio di sudore freddo e lacrime."
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Non ho lasciato solo il piccolo Peter, tranquilli, c'è il suo angelo Jesse dagli occhi azzurri, seppur velati, che lo aiuterà a vivere. E che gli insegnerà ad amare gli altri e se stesso.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ci tengo a precisare che questo è un capitolo di intermezzo che conservo da tanto, troppo tempo. Sono sette pagine scritte di getto, è Jess. Ancora non lo conoscete, così ho deciso di parlare sotto il suo punto di vista. Questi sono i suoi pensieri. 
Spero lo amiate come faccio io, buona lettura.






Jess si svegliò nel silenzio più totale.
Era sudato, completamente sudato.
I vestiti bagnati appiccicati al corpo e il prurito che lo assaliva lo fecero alzare di scatto.
Era buio, sentiva il nero della notte abbracciarlo.
Anche se la cecità regnava sovrana, aveva sviluppato la capacità di stare in un posto e rendersi conto se l'oscurità lo circondava davvero o se erano solo i suoi occhi a impedirgli di vedere, qualche anno prima.
Sentiva l'odore della notte.
Percepiva la quiete che si faceva strada nei corridoi dell'istituto quando le luci erano davvero spente e tutto taceva.
A volte i ciechi vedono più di coloro che hanno occhi sani aveva detto una volta un professore della Saint James. E Jesse aveva amato la sua voce. La forte convinzione di cui era impregnata. Gli aveva dato speranza, gli aveva fatto capire che alla fin fine poteva non essere così diverso. Poteva vedere anche lui. Non allo stesso modo, bensì meglio degli altri.
Scostò le coperte e si alzò dal letto. Freddo.
Questa fu la prima cosa che sentì. Un freddo pungente e insopportabile, al quale era sfuggito fino a qualche secondo prima solo grazie al pesante piumino che lo avvolgeva.
Poggiò i piedi a terra. Il pavimento dell'istituto era uguale a quello dell'ospedale psichiatrico: di un marmo liscio e gelido. Non sapeva di che colore fosse, ma se lo immaginava verde. In realtà non sapeva nemmeno come fosse il verde, non l'aveva mai visto, però gli avevano detto che l'erba era verde, e lui conosceva il profumo dell'erba.
Anche se il pavimento di marmo non aveva il profumo dell'erba e anche se di solito il marmo è bianco. Che poi chissà com'era il bianco.
Ah, giusto, il bianco è come le camicie pulite che mi posa sul letto Mary di mattina si disse.
Cominciò a camminare verso quella che sapeva la porta d'ingresso della sua stanza, tastoni, cercando di non sbattere il mignolo del piede da nessuna parte come era invece solito.
Quando raggiunse lo stipite vi si aggrappò, contando mentalmente i passi che avrebbe dovuto fare per arrivare alle scale che lo avrebbero portato al piano di sotto.
Gli era venuta la strana e sconsiderata voglia di camminare sull'erba.
Sapeva che uscire, soprattutto se di notte, al Saint James era proibito, ma non poteva resistere, e sapeva di poter contare sull'appoggio della maggior parte dei tutori e dei dipendenti del luogo in cui si trovava per non essere punito da Padre Sullivan.
Strisciò contro il muro del corridoio finché non raggiunse l'iniziò del corrimano, che identificò anche come quello delle scale. Ci si aggrappò forte e fece per scendere il primo gradino, quando un tonfo sordo raggiunse il suo orecchio, il cui udito era sin troppo sviluppato, quasi per compensare l'occhio che invece aveva deciso di morire senza essere mai servito davvero a qualcosa.
Il rumore lo fece sobbalzare, questo è certo, ma sapeva che se si fosse fermato in quel momento, sfortunato com'era l'avrebbero subito raggiunto i tutori e l'avrebbero obbligato a tornare in camera.
Quindi si fece forza e, maledicendo il mignolo che rischiava di sbattere praticamente ovunque, prese a scendere i gradini, uno alla volta, lentamente. Temeva di percepire la luce o di sentire i rumori del personale dell'istituto che si alzava, ma per fortuna riuscì a raggiungere il piano inferiore senza troppa fatica, seppur con un senso di oppressione all'altezza del petto non indifferente.
Quant'era ansioso. E quanto si malediceva per questo.
Fosse stato per lui, i momenti sarebbero potuti essere tutti come quelli che passava nell'ospedale psichiatrico, in particolare nella cucina, a lanciarsi farina con cuochi, inservienti, e compagni d'istituto.
Jesse non ricordava quando avevano iniziato a portarli lì. E non ricordava nemmeno il motivo. Sapeva solo che succedeva di martedì, di giovedì, e di sabato, e che quelle erano le giornate che aspettava per tutta la settimana da quando aveva memoria.
Si avvicinò a quello che sapeva il portone d'ingresso. Non gli serviva certo per uscire, sapeva che l'avrebbe trovato sbarrato, ma quello era il punto di riferimento di cui aveva bisogno per arrivare alla porta sul retro. Quando arrivò all'entrata si girò a destra, contò undici passi finché non si ritrovò faccia al muro, svoltò ancora nella medesima direzione, per poi percorrere tutto il corridoio, che sapeva lungo e stretto, e che, alla fine, dava su una porticina che celava uno sgabuzzino, al fondo del quale si trovava un'altra piccola porta: quella che lui cercava. Quando, toccando le pareti, si rese conto di essere arrivato nello stanzino, si diresse finalmente verso la porta, alta più o meno un metro e mezzo e larga una sessantina di centimetri. Quando la spinse, non sapendo come aprirla, si rese conto che era bloccata, ma che se si applicava una forza maggiore la si poteva sentire aprirsi, anche se di poco, e lasciar filtrare l'aria fresca della notte.
Chiavistello, pensò Jess. C'è sicuramente un chiavistello.
Cercò con mani insicure e tremanti sulla porta. Nessuna maniglia.
Freddo continuava a pensare Jess. Lo spiffero che era riuscito ad entrare qualche secondo prima l'aveva fatto rabbrividire.
Trovò il chiavistello. Sorrise nel buio. Lo sbloccò e finalmente sentì la porta meno rigida e invarcabile. Spinse leggermente. Sentì lo scricchiolio tipico del legno vecchio.
"Ah!" urlò sottovoce quando qualcosa gli punse il polpastrello. Vi passò sopra con l'altra mano, accorgendosi che una spina gli si era infilata nel dito medio. La manutenzione era un optional in quel posto.
Quel dolorino appena accennato, ma tanto fastidioso, che gli percorreva il dito, gli ricordò una scena. Allora chiuse gli occhi, inspirò il dolce odore dell'erba e, sorridendo, si lasciò sfuggire una lacrima.

*Flashback*
"Ahi! Ahi! Ahi! Mami! Mami, fa male!" dice il bimbo biondo cenere, in mezzo al campo d'erba verde, tenendosi la manina destra e puntando l'indice verso la donna con la salopette in jeans qualche metro davanti a lui. Il bambino si mette a correre. I capelli biondi sono lunghi il tanto giusto per svolazzare un po' e finirgli davanti alla faccia. Gli finiscono negli occhi. Il bimbo inciampa e quasi cade, ma le braccia pronte della madre lo salvano in tempo. Lei ride mentre lo prende in braccio e se lo stringe al petto. Lui mette su il broncio e le agita il ditino dolorante davanti al viso. La donna prende la manina candida fra le sue, lisce e morbide. "C'è una spina, mami. Proprio qui!" dice il piccolo succhiandosi l'indice. Lei gli tira fuori il dito dalla bocca e lo porta verso la sua, lasciandoci sopra un bacio casto e amorevole.
"Sparita la bua!" urlano insieme. Le labbra della mamma sono meglio dei cerotti, meglio delle pomate, meglio delle medicine, per il bimbo biondo cenere. Quando la mamma lo fa scendere gli guarda bene la manina e, individuata la spina, la tira via coi denti.
"Ora il mio piccolo tesoro non ha più la bua nemmeno sulla pelle!" gli sussurra. Perché i baci della mamma fanno sparire il dolore del cuore ma ben poco possono fare per quello della carne.
Il bimbo sorride, trova la figura sfocata della donna fra le ombre che gli vorticano intorno. Riesce a prenderle la mano. La bocca di lei si apre in un sorriso a trentadue denti. La stringe forte.
"Ti voglio bene, Jesse."
"Anche io, mami."

 
Era a piedi nudi.
A piedi nudi sull'erba gelida e bagnata. Sentiva il terriccio sotto ai piedi. I fili verdi che sbucavano dalla terra gli si infilavano fra le dita dei piedi, gli facevano il solletico, lo facevano sorridere.
Quello che provava Jess in quel momento era un certo, strano senso di libertà. Uno di quelli che si percepiscono nel fare le più piccole e insignificanti cose, che però hanno la capacità di farti sentire in pace col Mondo.
"Therapy, I'm a walking travesty, but I'm smiling at everything. Therapy, you were never a friend to me. You can keep all your misery.*" si mise a sussurrare. Quelle parole erano parte di una canzone. Anzi, della canzone.
Jess non sapeva chi la cantasse, né quale fosse il titolo. Era una di quelle che si sentono spesso in occasioni diverse e alla fin fine non puoi fare a meno di ricordarle. Ti entrano in testa che tu lo voglia o meno. E, in momenti come quello, non riusciva proprio a rinunciare a cantarla sottovoce, a sussurrarla come un cantico antico e a ripetere all'infinito le strofe. Per sentirsi libero. Libero e in pace. Come di rado gli succedeva. Lo faceva chiudendo gli occhi. Avrebbe potuto farlo tenendoli aperti, certo, tanto cosa sarebbe cambiato, ma voleva sentirsi come gli altri. Voleva azzerare tutto. Come quando nei film i ragazzi dicono alle donne che amano "chiudi gli occhi" mentre le abbracciano da dietro. E fanno veder loro il Mondo. Quello vero. Quello sotto la superficie. Quello che non a tutti è permesso scorgere. Quello che non sempre si può vedere con le palpebre sollevate.
"NO! NO! NON ANDARE VIA! NO, JESSE!"
La "e" finale del suo nome prolungata. Le parole urlate, urlate a un cielo terso e buio, a una luna pallida e indifferente. A chi altri, sennò?
"NO! LASCIATEMI STARE! E' VERO! IO L'HO VISTO, ERA QUI! JESSE!"
Un urlo sovrumano, di quelli che fanno vibrare il petto di chi lo produce come fosse la cassa di un tamburo.
"JESSE!"
Non riusciva ad ignorarlo. Non ce la faceva. Era una voce spaventosa, disperata. Una voce che usciva dal profondo, che sembrava provenire dallo stomaco, che era risalita fino alla bocca con fatica e che ora stava venendo liberata.
Quella voce aveva rotto il suo silenzio. Il suo silenzio perfetto colmato solo dalle parole di quella canzone. Era stato uno scatto, il suo. Appena aveva sentito il suo stesso nome venir pronunciato con quella foga, con quella forza, era saltato su. Un urlo carico di disperazione. Sentiva le parole sbattere contro il metallo freddo della finestra sbarrata.
Sapeva da dove proveniva la voce. Lo sapeva benissimo.
Non era la prima volta che udiva qualcuno urlare. D'altronde, viveva accanto ad un manicomio.
Ma ogni qualvolta era successo, si era semplicemente girato dall'altra parte del letto e, ormai abituato a dormire con quel frastuono, si era lasciato cadere tra le braccia di Morfeo.
Perché quel giorno, in quel preciso momento, no? Perché non stava ignorando quel rumore? Perché, anzi, ne era quasi attirato, rapito?
Era forse perché si sentiva chiamato in causa? Quella persona urlava il suo nome. Lo urlava a gran voce. Lo urlava con tutta l'aria che aveva nei polmoni.
"JESSEEEEEEEE-..." sedato. Lo percepì nel modo in cui si spense la voce. In quello in cui, fino a un attimo prima, aveva lottato per resistere e non si era arresa fino all'ultimo. Aveva spinto per uscire finché aveva potutoo e, anche se non ce l'aveva fatta, si era assopita con orgoglio.
Era abituato, sì. Sin troppo abituato. In un attimo percepì tutto l'ospedale ribaltarsi. Gente che si alzava e accendeva le luci, che urlava per sapere che era successo, e lui lì, a piedi nudi sull'erba bagnata a fingere di non essere parte di quella cosa, quando invece ne era il fulcro.
Jesse continuava a cantare sotto voce. Percepiva qualcosa di strano nell'aria quella sera. Qualcosa che sapeva di sudore freddo e di sofferenza. Dava il voltastomaco.
Era una delle fortune/sfortune provocate della cecità.
Qualcosa doveva pur compensarla, così udito, olfatto e tatto erano talmente sviluppati da sembrare surreali.
Nessun altro provava quella sensazione in quel momento. Forse perché lì, accanto a lui, non c'era nessuno. Ma non era una scusa plausibile, perché Jess sapeva che, anche se ci fosse stato qualcuno, lui sarebbe stato l'unico a percepirla. La sentiva completamente sua. Se l'avesse assaporata, rigirata sulla lingua e ingoiata, avrebbe potuto sputarla e sentire ancora lo stesso sapore.
Pensò che avrebbe voluto conoscere più canzoni. In realtà, la sua conoscenza era molto limitata a prescindere dal fatto che si trattasse di musica, letteratura o cinematografia.
Beh, d'altronde i sordi e i muti possono leggere e guardare i film, che fosse perlomeno permesso ai ciechi di ascoltare la musica! Al Saint James quasi non era concesso. Possibile che tutti dovessero sempre e solo riposare? Ogni volta che Jess chiedeva di accendere la minuscola radiolina regalatagli da sua madre la risposta era un secco "NO": c'era sempre qualcuno che stava per andare a dormire, che stava dormendo o che si era appena svegliato. Per non parlare della scusa "Al signor Patterson potrebbe venire l'emicrania!"
No dico, seriamente? si diceva ogni volta dopo aver sentito per l'ennesima quella scusa. Il signor Patterson ha 83 anni, non solo non ci vede, ma è pure mezzo sordo, l'emicrania la fa venire lui a noi con le sue urla da vecchiaccio e le botte che da con quel cavolo di bastone che, agitando come un ossesso, spesso finisce per sbatterci in testa!
Si chiese come sarebbe stata la sua vita se non avesse vissuto lì.
Se fosse potuto uscire all'aria aperta senza la paura che qualcuno lo prendesse per un braccio e con tono disperato lo obbligasse a tornare dentro.
Un recluso. Ecco cos'era. Un recluso circondato dal Braille e dai tutori che lo accarezzavano e programmavano ogni momento della sua vita.
Se così quella poteva essere definita.
Avrebbe voluto avere una casa. Una con una camera tutta sua. Una camera accogliente. Con le pareti in cemento e non in cartongesso. Con l'aria che sapeva di shampoo, cioccolata calda e vita.
Non di disinfettante e alcool puro. Lì dentro erano così ossessionati dal pulito. Era una cosa maniacale.
Gli unici momenti in cui poteva dire di essere sicuro di esistere, di vivere, erano quelli che passava nell'ospedale psichiatrico.
Dio, quanto parlava la gente lì dentro! Non se ne stavano zitti un attimo, era un continuo esprimersi, buttar fuori parole e urla. Sentiva l’aria carica di vita quando entrava lì. L’avrebbe respirata per sempre, fosse stato per lui, ma le sue visite la maggior parte delle volte non duravano più di qualche ora.
Pensò che se fosse stato pazzo sarebbe stato meglio. Per lui e per la sua vita. Certo, sarebbe stato considerato anormale, anche più di un cieco, e non avrebbe avuto modo di uscirne. Ma non si sarebbe sentito morto dentro.
Jess in realtà non aveva idea di cosa si provasse a non essere normale, a non avere tutte le rotelle a posto. Quel poco che aveva visto l’aveva convinto che fosse meraviglioso, che le persone in quello stato si sentissero libere di esprimersi e potessero fare ciò che volevano, e questa era una più che ovvia dimostrazione del fatto che il ragazzo fosse tremendamente ingenuo.
Chiuse gli occhi. Sapeva che non sarebbe cambiato molto, ma chiudere gli occhi rappresenta la scelta di non vedere, di isolarsi.
Non l’obbligo da parte di qualcuno, o qualcosa, per meglio dire.
Chiuse gli occhi e si stese sull’erba bagnata.
Era fresca. Che buon odore aveva.
   
 
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