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Autore: Water_wolf    14/12/2013    12 recensioni
Tutti conoscono Percy Jackson e Annabeth Chase. Tutti sanno chi sono. Ma ancora nessuno sa chi sono Alex Dahl e Astrid Jensen, semidei nordici che passano l'estate a sventrare giganti al Campo Nord.
Che cos'hanno in comune questi ragazzi? Be', nulla, finché il martello di Thor viene rubato e l'ultimo luogo di avvistamento sono gli States.
Chi è stato? No, sbagliato, non Miley Cyrus. Ma sarà quando gli yankees incontreranno il sangue del nord che la nostra storia ha inizio.
Scritta a quattro mani e un koala, cosa riusciranno a combinare due autori non proprio normali?
Non so bene quando mi svegliai, quella mattina: so solo che quel giorno iniziò normale e finì nel casino. || Promemoria: non fare arrabbiare Percy Jackson.
// Percy si diede una sistemata ai capelli e domandò: «E da dove spunta un arcobaleno su cui si può camminare?» Scrollai le spalle. «L’avrà vomitato un unicorno.» «Dolcezza, questo è il Bifrost» mi apostrofò Einar. «Un unicorno non può vomitare Bifrost.»
Genere: Avventura, Comico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Annabeth Chase, Gli Dèi, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache del Nord'
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Achtung: Water_wolf è una ragazza, sesso femminile, periodo rosso ogni mese. AxXx  ( http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=218778 ) invece è un ragazzo, sesso maschile. Grazie per l'attensione :)

Volo diretto destinazione grossi problemi
 

♦Astrid♦

Se non l’avessi già messo in evidenza in precedenza, lo ripeto: i semidei sono delle esche per la sfortuna, una sorta di bistecca per un mastino affamato.
Se decidessimo di fare un gita al parco aquatico, per esempio, sarebbe quasi una probabilità scientifica che avrebbe iniziato a piovere – se non nevicare-, giusto per puntualizzare che è sempre qualcosa dall’alto e irraggiungibile a dare rogne. Perché, ovviamente, non si può prendere a pugni la sfiga.
Alex fece roteare la spada, scattando in posizione, e scrutando da lontano il wyrm. Sarah si irrigidì di fianco a me. Avrei pagato per sapere per quale assurdo caso il primo mostro che fronteggiavamo doveva essere proprio una lucertola che aveva l’intera cucina di Gordon Ramsay in bocca, oltre che il caratteraccio.
Sbuffai, irritata, sfilandomi gli orecchini a cerchio dalle orecchie.
Nessuno penserebbe mai che dietro a degli articoli di bigiotteria si nascondano due mezzelune, le armi che avevo deciso di portare a New York e che erano la mia specialità. Nella mia mente, le figuravo come la versione femminile e più aggraziata di una rozza accetta da boscaiolo.
Sarah ripose con cura i biglietti e si liberò dello zaino, dopodiché trasformò una sigaretta elettrica in una spada.
Al cenno del capo di Alex, attirammo l’attenzione del bestione su di noi.  Il wyrm voltò la testa, ci focalizzò e pattinò sul marmo lucido nella nostra direzione. Ci demmo la carica con un urlo di battaglia, prima di scagliarci contro il lucertolone.
Per una frazione di secondo, sentii unicamente il battito frenetico del mio cuore che premeva contro la cassa toracica e l’adrenalina pompare il sangue, ma un battito di ciglia dopo, il contraccolpo causato dall’impatto contro le scaglie del mostro mi sbalzò indietro. Mantenni la posizione, stringendo i denti, la sua zampa anteriore senza alcun graffio. Erano l’ostacolo maggiore, lo sapevo, ma non per questo non avvertii una scarica di rabbia.
Alex si stava dilettando con le fauci del wyrm, mentre Sarah era una furia bionda dall’altro fianco. Mi domandai cosa stessero vedendo i mortali attraverso la Foschia, forse un pulmino della scuola da cui erano scesi rapinatori mascherati da dragone cinese, come una brutta copia delle prime scene del film Batman Begins. O era Il cavaliere oscuro?
La parte razionale del mio cervello si rese conto che quelle riflessioni erano al limite della sufficienza mentale, soprattutto in una situazione del genere.
Puntai nuovamente alla zampa, allineando le mezzelune cercando di passare sotto le squame e trovare la carne morbida. Dovetti scansarmi per evitare di essere calpestata, quando il wyrm compì un brusco giro su se stesso. Il mostro sibilò di dolore, infrangendo qualche vetrina con il suo strillo, e affondò i denti in una fila di poltroncine d’aspetto.
Mi sporsi verso Sarah, sbraitando: «La prossima volta che fai una mossa del genere, gradirei essere avvisata! Potevo diventare gomma da masticare sotto le zampe di questo qui!» ammiccai con la testa al wyrm.
«Su, non lamentarti» rispose, si abbassò e schivò un colpo di coda che le avrebbe staccato la testa, «se non lo colpisco a sorpresa, faremo in tempo a morire di tutti!»
La mandai all’Hellheim. Alex riuscì a far indietreggiare la lucertola gigante, ferendola tra il costato, anche se non molto profondamente. Io, la figlia di Hell che doveva farsi valere, non aveva ancora fatto niente, visto che rischiare la vita non contava.
Passai sotto la pancia del wyrm in scivolata, tenendo alte le mezzelune e gli squarciai la pancia per qualche centimetro, prima di rimettermi in piedi sullo stesso lato di Sarah.
Mi rivolse un’occhiata ambigua, un gesto che mi ricordò molto un figlio di Loki. Scossi la testa, autoconvincendomi che stessi delirando.
Attaccammo in contemporanea, e lei trovò una via per conficcare la spada nel corpo del wyrm poco sopra il muscolo di una zampa. Se fossi stata sua amica, o anche una conoscente, le avrei dato il cinque, ma visto che non ero nessuna delle due, mi limitai a un muto complimento. Sarah mi fissò, sorridendo compiaciuta, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima che si immobilizzasse vedendomi.
«Che c’è? Sono diventata di colpo così brutta?» domandai.
Mi resi conto solo dopo che non stava guardando me, bensì qualcosa dietro di me. Avvertii una stretta squamosa e fredda attorno alla mia caviglia, che si stava avvolgendo lungo l’intero polpaccio, bloccandomi i movimenti. Hermdor mi aveva detto più volte di stare attenta al “rinculo”, ovvero l’immediata offensiva di un mostro dopo l’essere stato attaccato con successo, e le sue lezioni mi rimbombarono nella mente quando compresi appieno la situazione.
Dritt, imprecai, prima di venire sollevata in aria.
Lo stomaco mi si attorcigliò come il gomitolo di un gatto, l’intestino si ingarbugliò con diversi organi interni e mi montò la nausea. Non avevo paura di volare, avevo paura di quello che accadeva se smettevo di farlo. Vertigini? Forse, ma meglio rimanere coi piedi per terra, c’erano già abbastanza mostri lì.
Pregai gli Dèi che mi rimettesse giù al più presto. Il wyrm sembrò esaudire la mia richiesta, perché mi scagliò come un frisbee, facendomi compiere in volo l’intero aeroporto. Immaginai quella scena da un’altra visuale che non fosse la mia – nella quale l’unico pensiero era “aaaaaaah!”-, e vidi un conduttore pubblicitario avvisare: «Mi raccomando, bambini, non fatelo a casa.»
Il dolore che mi percorse la schiena subito dopo mi tolse il respiro. Temetti di morire per asfissia, mentre annaspavo in cerca di un po’ d’aria. Tanti puntini colorati mi impedivano di vedere normalmente, esplodendo all’improvviso davanti alla mia visuale, come facevano le fitte che mi attraversavano il dorso.
Riuscii, non so nemmeno come, a mettermi a gattoni; iniziai a respirare regolarmente, riprendendomi lentamente. Attesi che le lucette smettessero di vorticarmi attorno agli occhi per guardarmi attorno: ero atterrata su un vecchio borsone di pelle usato a mo’ di valigia, che era rotolato giù dalla catena automatica del ritiro bagagli insieme a me. Dentro, però, doveva esserci un cumulo di pietre spigolose per essere così dura.
Mi rialzai, le gambe che ancora tremavano, e mi appoggiai alla base del nastro trasportatore. Un marito stava trascinando via di peso sua moglie, la quale scalciava e gridava: «Non posso abbandonarlo! Non il mio borsone di Luis Vuitton!»  
Lanciai uno sguardo alla valigia su cui ero caduta, accorgendomi che era proprio quella di cui stava parlando la donna. Be’, che dire, il mio era stato proprio un atterraggio di classe.
Recuperai gli orecchini-mezzelune, ma mi dovetti limitare a percorrere l’aeroporto a passo spedito, visto che correre mi provocava dolorose fitte alla schiena. Arrivai in prossimità del wyrm giusto in tempo per vederlo ferire Sarah con le zanne. La ragazza si sottrasse all’attacco, rifugiandosi dietro una stazione di imballaggio bagagli a pagamento, stringendosi la spalla sinistra.
«Ehi!» gridai, facendo voltare il grosso muso squamato al drago.
Alex fu rapido a cogliere l’occasione al volo e sfruttare una delle zampe anteriori per salirgli in groppa, risalire di corsa la spina dorsale e piantargli lo spadone nel collo, in un punto dove avrebbero dovuto unirsi due vertebre. Assomigliò a un gladiatore romano che poneva fine alla vita del suo avversario, dopo il famoso pollice verso dell’imperatore.
Il wyrm spalancò le fauci, mostrando una gola color rosso sangue rappreso senza fondo, ed emise un prolungato verso lugubre, che mi costrinse a tapparmi le orecchie con le mani. Sgroppò violentemente, rischiando di disarcionare Alex come un destriero riottoso; il moro si aggrappò con tutte le sue forze all’elsa dalla spada, stando però attento a ferirsi sbattendoci contro la fronte.
Il lucertolone arrotolò la coda, accasciandosi come gelato sciolto al suolo, e si disintegrò in una miriade di fiocchi di neve finissimi. Era così che finivano i mostri quando li uccidevi, in una nuvola di neve artificiale, e sarebbero ritornati sulla Terra tra qualche tempo, dopo essersi riformati.
Mi accorsi di aver trattenuto il fiato, così inspirai grata l’ossigeno. Alex si riavviò i capelli, riportando l’arma a un innocuo coltellino svizzero.
«Tutto okay, Astrid?» domandò, quando lo raggiunsi.
Avrei voluto rispondergli che sì, stavo bene, ma non ero sicura che fosse esattamente così. Feci una smorfia, evitando di rispondere.
«Non sono io quella a cui devi fare questa domanda» replicai, infilandomi un orecchino.
Lui annuì. Non riuscii a decifrare le sue emozioni guardandolo, gli occhi erano più nuvolosi del solito.
Un gemito ci spronò ad andare a verificare le condizioni di Sarah. Era appoggiata con la schiena a una macchina di imballaggio, aveva il viso cosparso di goccioline di sudore e i capelli scarmigliati. Non sembrava tanto preoccupata per il taglio, non profondo, infertole dal wyrm, tanto più pareva che stesse bruciando dall’interno.
Scoccai un’occhiata ad Alex, altrettanto perplesso, la fronte corrugata che formava un lieve solco tra le sopracciglia.
I capelli di Sarah cambiarono improvvisamente colore, diventando più scuri, di un color piume di corvo. Si accorciarono.
Mi sfuggì un’esclamazione di sorpresa. Non avevo idea del perché le stesse accadendo tutto ciò, il morso di un wyrm non provocava effetti del genere.
Quando le spalle di Sarah si allargarono e le morbide curve da giovane donna scomparvero, lasciandola piatta e incredibilmente più maschile, temetti avrebbe mutato forma fino a diventare un bebé e poi scomparire nel nulla, come accadeva in alcuni film di fantascienza.
Alex, invece, la prese per la maglia e sputò: «Non sei Sarah. Questa è magia delle rune.»
Sì, questa spiegazione aveva decisamente più senso, dopotutto, Odino è il dio della sapienza, i figli dovrebbero ereditarne almeno un po’. Non sapevo né come riconoscere né come esercitare la magia, quasi nessuno dio conosceva l’arte delle rune. Ma anche così, non ci voleva una laurea in ingegneria nucleare per capire che un semidio del Campo l’avesse utilizzata per prendere le sembianze di Sarah e far parte dell’impresa.
Alex sollevò il ragazzo per i vestiti, che man mano ritornava al suo aspetto originario, attenuando le smorfie che gli attraversavano il volto. Quando il processo si completò, fui in grado di riconoscerlo. Lisci capelli neri che formavano un ciuffo davanti agli occhi, color nocciola, che avevano un guizzo astuto.
«…Einar…» mormorai, incredula.
Il figlio di Loki, presente alla progettazione dell’impresa, alzò il capo e fissò Alex, che lo teneva ancora stretto.
«Dov’è Sarah?» ringhiò quest’ultimo.
Era un particolare a cui non avevo pensato. Una figlia di Eir del suo calibro non era un’avversaria da nulla, Einar doveva averla raggirata in qualche maniera contorta e abbandonata in un posto protetto chissà dove, in modo che nessuno potesse trovarla e sospettare alcunché.
«Al sicuro nel bagno della sua stanza, tranquillo. Legata e imbavagliata, certo, ma pur sempre al sicuro» rispose, pacato, come se la questione non lo sfiorasse minimamente. Oppure era un artista nel non mostrare la paura.
Alex incombeva su di lui cupo, con l’aria di un boia pronto a porre fine alla vita del condannato. Era comprensibile, dopotutto, un membro della sua Orda di cui era responsabile, che doveva far parte dell’impresa, non era lì ed Einar era riuscito a farla sotto il naso a tutti quanti. Come potevamo pretendere di ritrovare il martello di Thor e il ladro, se nemmeno ci accorgevamo di essere stati ingannati?
Gli lasciò andare la maglietta, si allontanò di mezzo passo, come riflettendo, e immediatamente dopo gli tirò un pugno dritto al volto.
Einar cadde a terra, lasciandosi sfuggire un unico lamento per via della spalla ferita. Io emisi un singulto di sorpresa.
«Non mi piace il tuo senso dell’umorismo, figlio di Loki» disse Alex, lugubre.
Einar si portò una mano al labbro spaccato, che perdeva sangue, e replicò: «A me il tuo.»
Si ritrovò una lama puntata alla gola.
«Hai attaccato, legato e imbavagliato il terzo componente di quest’impresa, ostacolandoci e mettendoci a rischio tutti quanti. Perché non provi a darmi tre buone ragioni per non ucciderti qui, adesso?»
Gli premette la punta della spada sul collo, rendendogli impossibile deglutire senza tagliarsi. Qualcosa scattò in me. Mi feci avanti, con l’intenzione di frappormi tra i due. Se avesse provato a colpirlo, sarei riuscita ad allontanare la lama con un calcio prima che fosse troppo tardi.
«Spostati» intimò Alex, scandendo ogni sillaba.
«Non puoi ammazzarlo» esordii, lasciando che le parole mi entrassero da un orecchio e mi uscissero dall’altro.
«È un ordine» rincarò, e gli occhi mostravano così tanta furia che mi sembrò di rivedere un uragano abbattersi contro una casa. Ma non avevo intenzione di essere risucchiata, così puntai i piedi, opponendomi alla sua autorità.
«Sai quello che ha fatto!» scattò. «Non puoi tollerarlo né appoggiarlo!»
«Senti» iniziai, «tutto sommato, ci ha aiutato a uccidere il wyrm. Poi, ci sarà un motivo se le imprese vanno compiute in tre, giusto? Non abbiamo tempo di tornare al Campo, trovare Sarah eccetera eccetera, perché questo aeroporto è nel panico e da qui non partirà un solo aereo, dopo tutto questo casino.»
Mi interruppi, feci un respiro profondo, dato che avevo fatto quel discorso con foga, e voltai un attimo lo sguardo verso destra. Vidi cinque divise blu scuro con scarponi neri militari e un’inconfondibile scritta a grossi caratteri sul davanti della giacca.
«E la polizia mortale è ancora capace di scambiare una spada con un fucile, quindi, dovremmo muoverci a trovare un aereo che parta immediatamente!» esortai, ammiccando agli uomini vestiti di scuro.
Alex guardò in quella direzione, imprecò tra i denti e spese un lungo, interminabile minuto a considerare cosa fare. Alla fine, fece ritornare l’arma in un coltellino svizzero e grugnì: «Sistemeremo la questione quando saremo in volo.»
Einar si alzò e disse: «Recuperate gli zaini, so come trovare un volo.»
Non diede tempo a nessuno di metabolizzare le sue parole e di contrastarle, scomparendo nella massa di gente che non sapeva più che fare. Alex mi scoccò un’occhiata che avrebbe congelato un vulcano attivo, prima di dirigersi a passo veloce verso i nostri bagagli.
Sospirai di sollievo, mettendo su uno spallaccio. Dritt, imprecai, quando la schiena protestò con una fitta di dolore.
Poco dopo ci scontrammo con Einar, che ci fece cenno di seguirlo. Ci condusse attraverso la folla, sorpassammo un gate ed entrammo dentro una porticina piuttosto nascosta grazie al pass di una hostess. Oltrepassato un corridoio illuminato da lampade che emettevano una strana luce verdognola, uscimmo da una seconda porta, questa volta più spessa, e fummo fuori, dove gli aerei sostavano per i rifornimenti. Einar non badò ai grandi colossi del cielo, camminando invece verso uno più piccolo, aereodinamico e senza le insegne di alcuna compagnia. Un uomo vestito elegantemente ci notò, scese una scaletta in metallo collegata all’aereo e ci venne incontro.
Fece per dire qualcosa, ma Einar lo fermò, lo fissò intensamente negli occhi per qualche secondo e scandì: «Cambio di programma. Siamo noi gli impresari che devono volare a New York. Avvisa i piloti.»
L’uomo annuì, le pupille dilatate, e si avviò con passo scoordinato su per la scala. Salimmo anche noi, e finalmente capii il perché di quella scelta: era un aeroplano privato, perfetto per un volo diretto e tranquillo. Einar parlò con tutto il personale di bordo, composto da hostess in completi più provocanti di quello che dovrebbero essere e due addetti uomini. Era un figlio di Loki, il dio degli inganni, dei raggiri, non c’era da stupirsi se il moro potesse piegare la volontà della gente almeno in parte.
Alex stava riponendo gli zaini negli appositi spazi sopra la  testa, borbottando parole incomprensibili, così gli passai il mio. Avrei voluto rincuorarlo, dirgli che sarebbe andato tutto a finire bene e che non ci sarebbe stato bisogno di sporcarsi le mani, ma non credo sarebbe servito a qualcosa. “Ehi, Alex, non ti preoccupare: Sarah è nel bagno della sua stanza, prima o poi qualcuno la troverà.
Poi, né Einar né lei sono miei amici, per cui non mi cambia assolutamente niente, l’importante è che ci schiodiamo da qui” non sembravano le parole adatte.
Una hostess bionda con le trecce venne da noi e annunciò, spezzando la catena dei miei pensieri: «La partenza è prevista tra pochissimi minuti, i signori passeggeri sono pregati di accomodarsi e allacciare le cinture di sicurezza.»
Girò i tacchi e se ne andò. Puntai un sedile lontano dal finestrino, sprofondando nella poltroncina di pelle beige. Davanti a me ce n’erano altre due, mentre una era affianco e dava sul finestrino, e innanzi avevo un tavolino di legno che si poteva ripiegare su se stesso fino a diventare una divisione di venti centimetri. In totale, di postazioni del genere, se ne si potevano contare sei. Alex mi si sedette davanti.
L’aereo si mosse. Il mio stomaco si attorcigliò, formando un nodo stretto e doloroso. Armeggiai con la cintura, tentando invano di agganciarla nella giusta maniera. Pensai al momento in cui ci saremmo staccati dal suolo, quando saremmo stati sospesi nelle nuvole, in completa balia degli elementi, e sentii montare la nausea. Alex mi prese le mani e fece combaciare i due pezzi che componevano la cintura.
Ora ero legata a quel sedile e, se per caso ci fossimo schiantati nell’Oceano Atlantico, non sarei mai riuscita a sganciarmi e liberarmi e sarei affondata per il suo peso. Avvertii sulla pelle tante piccole bocche, pesci che si nutrivano della pelle fredda del mio cadavere. Sempre che uno squalo bianco non mi avesse ingoiata intera, o fossi stata investita da un branco di barracuda, oppure inghiottita da un’orca assassina o anche…
«Stai tremando.»
Sobbalzai, riemergendo dal gorgo spaventoso dei miei pensieri.
«No, non è vero» protestai.
Alex alzò un sopracciglio, non spese nemmeno una parola per indicare le miei mani che, nonostante fossero strette ai braccioli, erano scosse dai brividi. Le ritrassi, nascondendole sotto le ascelle, incrociando le braccia.
Non volevo che qualcuno vedesse quanto fosse forte la mia paura di volare o le mie vertigini, nessuno doveva avere fatti che potessero indicarmi come debole o insulsa. Nessuno doveva pensare a me come un cucciolo di beagle sotto la pioggia, provare dispiacere o pena per me. Alex aprì la bocca per dire qualcosa, ma un improvviso strappo lo zittì.
Avvertii nel profondo delle ossa quella sensazione, che mi strinse le budella. Le farfalle che avevo nello stomaco battevano le ali così forte che avrebbero potuto squarciarlo e invadere l’interno. L’aereo continuò a salire, finché la gravità che mi schiacciava le spalle contro il sedile si stabilizzò, e il mezzo fu ben bilanciato. Comparve la stessa hostess bionda, che ci avvisò che potevamo slacciarci le cinture, se volevamo.
Sentii l’impellente bisogno di vomitare. Mi liberai da quella costrizione, spinsi via la donna e corsi verso la lucina verde, posta dopo tutti i sedili, che indicava il bagno libero.
Mi chiusi dentro, soffocai un conato, e feci giusto in tempo a chinarmi per rigettare nel water la colazione. Quando il mio stomaco fu completamente vuoto, mi sciacquai la bocca con l’acqua, che scendeva in un piccolo getto da un lavandino in miniatura, e mi lasciai ricadere per terra, stremata. Le gambe non avrebbero retto il mio peso, né avevo voglia di barcollare fino al mio posto e rischiare di fare avanti-indietro per tutto il viaggio.
Più di sei, lunghissime, intere, ore di sessanta minuti in viaggio. Mi sporsi verso il wc e vomitai ancora. No, sarei rimasta in bagno finché quell’incubo non sarebbe finito.
Che si uccidessero pure l’un l’altro, Alex e Einar, l’unica cosa che avrei potuto fare sarebbe rigettare bile sulla maglietta di entrambi. Appoggiai la testa al muro, chiusi gli occhi e pregai gli dèi che l’aero non precipitasse.
 
 
I semidei sognano, come tutte le persone senza genitori divini, con l’unica eccezione che i loro sogni assomigliano di più a degli incubi. La maggior parte, rivive attacchi da orde intere di mostri; alcuni incontrano i loro genitori; una minoranza, riesce a mettersi in contatto con persone in altri luoghi del pianeta.
Così, quando aprii gli occhi su una grotta scura, dopo essermi addormentata inconsciamente nel bagno a misura d’uomo di un aereo, quella fu la prima spiegazione che mi saltò alla mente.
La mia schiena era appoggiata a una stalagmite resa viscida dall’umidità. Mi misi in piedi, stando attenta a non sbattere la testa contro il soffitto, e tossii per via della polvere. Mi strofinai le mani sui jeans per riscaldarle, sentendo i peli delle braccia rizzarsi per la temperatura bassa. Non vedevo a un palmo dal mio naso, l’unico suono presente era l’irritante ticchettio dell’acqua che gocciolava dalle stalattiti.
Controllando il terreno davanti a me, mettendo un piede davanti all’altro, mi allontanai dal luogo in cui avevo aperto gli occhi. Avevo una vaga idea di dove fossi e speravo di non avere ragione, perciò rinchiusi l’ipotesi in un angolino della mente. Le gocce d’acqua mi ricordavano il ticchettio delle lancette di un orologio, un costante rimandare al detto “ricordati che devi morire”.
Più camminavo, più sentivo una parte di me riconoscere quella grotta. All’improvviso, udii il sibilo di una lama sfilata dal suo fodero. Mi immobilizzai, cercando di capire da che direzione provenisse. Rumore di passi alla mia destra. Tastai il terreno, aggirai una stalagmite e colsi il luccichio dell’arma. Trattenendo il respiro, mi accucciai e mi sfilai gli orecchini, trasformandoli nelle mezzelune.
Aspettai di sentire ancora un suono che mi indicasse dov’era ora l’altra persona. Mi alzai, scivolando nell’ombra e la raggiunsi di soppiatto. In quel momento, essere la figlia di una dea che viveva nell’oscurità mi stava tornando utile. Arrivai così vicino allo sconosciuto che potei sentirlo respirare. Mi alzai in punta di piedi, visto che ero più bassa, e gli incrociai le mezzelune lì dove c’era la gola. Lo sentii irrigidirsi.
«Non muoverti» intimai. «Posa la spada a terra, lentamente
«Astrid, sono Alex. Sei nel mio sogno, quindi non so se mi puoi ascoltare» mormorò.
Ritirai le mezzelune, gli toccai la schiena e lo feci voltare verso di me. Vedevo a stento i lineamenti del suo viso.
«No, tu sei nel mio sogno» obiettai, sottovoce.
Sentii della roccia sbriciolarsi alla mia sinistra, mi girai di scatto e lanciai una mezzaluna in quella direzione. Si udì un tonfo sordo quando colpì una roccia. Dritt.
«Non avete pensato che siamo tutti nel sogno dell’altro?» domandò un’altra voce.
Roteai gli occhi.
«La prossima volta che compari in questo modo ti trafiggo, Einar.»
«Non sei abbastanza brava per centrarmi, dolcezza» rise, avvicinandosi.
Fui tentata di scagliargli contro anche l’altra mezzaluna.
«Rimpiango che il wyrm non ti abbia ucciso» brontolai.
«Anche io» borbottò Alex.
«Bene» disse, a solo qualche centimetro di distanza, «posso confermare con certezza che questo è un sogno condiviso, siamo nei nostri corpi e ragioniamo come sempre, non c’è pericolo che qualcuno si trasformi in un mostro senza preavviso. Avete idea di dove siamo? Non sono mai stato qui in uno dei miei incubi.»
«No, ma non mi piace per niente» rispose Alex.
Deglutii, ma fu come mandare giù una manciata di sabbia.
«Io sì» intervenni, la voce ridotta a un sussurro. «Non è la prima volta che raggiungo l’Hellheim in sogno.»
I due ragazzi incassarono la risposta. L’Hellheim, sotto il controllo di Hell, mia madre, è il regno più basso e infero di tutti gli altri: se non si capita in una delle molte cavità sotterranee, fuori è una landa gelata sferzata dai venti e battuta delle piogge, dove si aggirano i morti, soprattutto quelli che si sono macchiati di colpe particolarmente gravi in vita.
«Okay, puoi farci da guida?» mi chiese Alex, spezzando il silenzio.
«A differenza di Hell, io non vivo qui né conosco il suo regno come le mie tasche» replicai immediatamente, velenosa.
«Ma è pur sempre tua madre e tu sei comunque sua figlia» continuò.
Mi morsi l’interno della guancia.
«Già, è quello che dovrebbero capire tutti: sono stata solo generata da lei, ma non sono lei» ribattei.
Bloccai l’obiezione con un gesto perentorio della mano, e dissi in fretta: «Posso provarci.»
Non avendo nessuna meta – l’Hellheim  non è rinomato per le sue spettacolari attrazioni turistiche-, mi affidai all’istinto, o al caso, come nei miei sogni. Mi misi una mano in tasca e mi punsi le dita con l’estremità dell’orecchino.
Ogni volta che perdevo l’arma, dopo poco tempo me la ritrovavo nella giacca nella sua forma cammuffata. Per permettere ad Alex ed Einar di seguirmi e non perdersi – anche se è impossibile perdersi se non si ha la più pallida idea di dove andare-, mi misi a canticchiare Welcome to the jungle, dei Guns ‘n Roses.
Sarà stato per la canzone che adoravo o per il silenzio del gruppo, ma fu come dimenticarmi di me stessa e seguire un percorso che avevo impresso nella carne, e alla fine la luce di alcune fiaccole illuminarono una grande conca, una grotta nella grotta. Si vedevano due figure, avvolte in mantelli scuri, che confabulavano.
Smisi di cantare. Feci segno ad Alex di riporre la spada e di chinarsi. Mi passò davanti, prendendo la testa del gruppo, e lo seguimmo dietro una scultura di stalagmiti. Eravamo troppo lontani perché potessimo sentire il loro discorso.
Con le schiene appoggiate alla roccia, protetti dall’oscurità, Einar sussurrò con un filo di voce: «Adesso ci farebbe comodo il tuo trucchetto con le ombre che hai usato per entrare nel tempio di Thor, dolcezza.»
«Non chiamarmi “dolcezza”» sibilai.
Alex sbuffò, tirò una gomitata nello stomaco a Einar e mormorò, perentorio: «Fallo.»
Strisciai in mezzo ai due ragazzi, li presi per mano e controllai che la luce non li colpisse. Chiusi gli occhi, inspirai ed espirai, e un attimo dopo eravamo nascosti dietro un pilastro di roccia, abbastanza vicini per udire le parole delle due figure.
«…sono stati piuttosto bravi a ucciderlo» commentò una, più bassa dell’altra di un paio di spanne.
«Pfff, era un innocuo cucciolo di wyrm, non sarebbe stato divertente vederli schiacciati così presto» disse l’altra.
Cucciolo?, pensai tra me e me.
«Certamente. Ci sarà tempo per vederli affrontare qualcosa di più grosso» convenne la prima figura.
«Già. Quel figlio di Loki ha messo zizzania,  basterà poco che inizino a litigare tra di loro.»
«Intanto ad Asgard-» sghignazzò la più bassa, ma si interruppe all’improvviso.
Fece cenno alla più alta di guardare qualcosa, anzi, qualcuno. Noi. Com’era possibile? Era impossibile che potessero vederci. Prima che potessero fare alcunché, la visione divenne più sfocata, e il sogno si disgregò.
 
 
Mi sveglia nel bagno di soprassalto. Mi passai una mano tra i capelli, calmando i battiti del cuore, sciolsi la coda alta che avevo portato fino a quel momento e mi massaggiai la cute. Sperai di aver dormito abbastanza a lungo da essere arrivata a New York, ma dubitavo. Mi misi in piedi, presi un bel respiro e uscii dal bagno. Non potevo rimanere lì rinchiusa come una suora in clausura, dovevo farmi forza e accettare il fatto che stessi volando.
Dopotutto, l’aereo sembrava quasi fermo, non doveva essere così dura stare seduta su un sedile e non sentirsi male per qualche ora. Percorsi i vari gruppi di poltroncine fino a trovare quella su cui mi ero precedentemente seduta.
Mi ritrovai gli occhi di Alex puntati addosso, mentre Einar stava ancora dormendo, stravaccato su due sedili. Feci finta di nulla, aprendo il cofano dove avevamo riposto gli zaini e prendendo il mio iPod, prima di sedermi. Mi infilai le cuffie nelle orecchie, ma Alex tossicchiò, portando l’attenzione su di lui.
«Hai fatto anche tu il sogno condiviso.»
Non era una domanda, però annuii ugualmente. «Sì.»
«Gli o le incappucciati parlavano di noi, hanno sottolineato la presenza di Einar.»
«Lo so.»
«Ci stanno spiando in qualche modo.»
«Lo so.»
«Potrebbero essere loro ad aver rubato Mjiolnir.»
«Lo so.»
«Forse è Hell ad aver organizzato tutto.»
«Lo so.»
«E smettila di dire “lo so”!» sbottò, battendo un pugno sul tavolino. «È snervante!»
Stavo per dire “lo so”, ma mi trattenni. Sospirai.
«Non so se c’è mia madre dietro tutto questo, non so se le due figure erano al suo servizio. Potrebbe essere stato Loki, e non dirmi che non ne sarebbe capace. Far ricadere la colpa su Hell, eliminare Thor e farla franca in un sol colpo? Oppure ritrovare magicamente il martello per ottenere qualche riconoscimento da parte di Odino? Se pensiamo più in grande, si potrebbero contare centinaia di mostri abbastanza intelligenti per progettare un furto del genere. Se ti preoccupa il fatto che, al momento di togliere di mezzo la minaccia, e questa minaccia si trattasse di mia madre, sappi che non avrò alcun ripensamento. Non c’è niente tra di noi se non corrispondenze nel DNA.»
Alex si lasciò sprofondare nella poltrona di pelle. «Indagheremo a fondo quando saremo arrivati. Ho ucciso un wyrm, adesso mi piacerebbe riposare.»
Annuii. Accessi l’iPod e feci partire la riproduzione casuale dei brani, sperando che la musica mi avrebbe distratto per la restante durata del viaggio.
Tre ore dopo, la hostess bionda ci avvisò che tra poco saremmo atterrati e ci chiese di allacciare le cinture.
Se tutto andava bene, non ci saremo schiantati al suolo. Quando le ruote del carrello toccarono terra, fui presa così di sorpresa che avrei strillato, se fossi stata sola.
Seguendo le indicazioni degli addetti, recuperammo i bagagli e entrammo nell’enorme struttura del JFK Airport. Poliziotti controllarono i nostri biglietti, documenti, carta d’imbarco, zaini ed Einar tolse loro ogni dubbio su una mancata partenza del nostro aereo originario. Quando portammo a termine tutte quelle estenuanti procedure di sicurezza, potemmo finalmente respirare l’aria.
Ossigeno americano marcato New York, distretto di Brooklyn.
Ci allontanammo a piedi, verso la navetta che ci avrebbe portato all’hotel in cui avremmo alloggiato, e fu allora che un grosso scossone fece tremare il terreno. Voltai la testa, seguita a ruota da Alex ed Einar.
Un imponente gigante di ghiaccio era caduto a terra, creando un buco nell’asfalto, ed era circondato da un gruppetto di ragazze armate di archi e pugnali.
Fissai gli occhi su quella che sembrava il capo: indossava vestiti argentati, reggeva uno scudo tondo che raffigurava una raccapricciante testa di donna circondata da serpi, e sembrava parecchio agguerrita. Scansò una manata del gigante e si fermò per riprendere fiato.
Portava i capelli corti, neri come l’ossidiana, e gli occhi blu elettrico erano talmente magnetici che erano impossibile da non notare. Tutto ciò aveva un’unica spiegazione: semidee.

 
koala's space.
Con un po' di ritardo rispetto alla tabella di marcia, ecco qui il quarto capitolo de "Sangue del Nord".
Colpa mia, che sono stata uccisa dalla scuola +-+ Odio le verifiche di fine quadrimestre .-.
Si iniziano a scoprire un po' cose interessanti ed è arrivato l'atteso incontro tra i due campi. Più o meno. Il vero e proprio incontro spetta ad AxXx, nel prossimo capitolo.
Già :)

Per quanto riguarda il mio personaggio, Astrid, scopriamo sostanzialmente tre cose su di lei: 1) che soffre di vertigini e ha paura di volare, perché le persone non sono perfette e ognuno ha la sua fobia 2) che a Natale regalerebbe una bomba a sua madre e che non vuole essere come lei 3) che le piacciono i Guns 'n Roses. E se non avete mai ascoltato Welcome to the jungle, fatelo subito, adesso, immediatamente!
Speriamo che vi sia piaciuto, se voleste dircelo con una recensione ci renderesti felici.
Vi regalo un muffin al cioccolaot blu di Sally Jackson se lo fate hahah
Oppure eucalipto *si lecca i baffi* Comunque, alla prossima!

 
  
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