C’era sempre stato, quel soffocante
mormorio.
Eppure, calò il silenzio quando
passò lei.
Teneva le labbra di un intenso
sanguigno schiuse, mentre il filo della sigaretta serpeggiava nell’aria; e
c’era chi, mentre spingeva quella pesante macchina da presa, o giocava con le
lucciole colorate al neon, si fermava volentieri a guardarla: anche solo per
immaginarlo, l’odor di lei pervaso da alcool e tabacco, una mistura che ti
mandava totalmente in estasi.
I hate everything about you…
[...
why do i love you?!]
Rock is
your fucked job.
Rock is your
fucked bitch.
Rock is to your
fucked life.
Un volo silenzioso di
farfalla.
E la tempesta.
La stridula chitarra si
accordò con il basso, sotto gli impulsi di quelle mani veloci e rapaci;
sfuggenti ma efficaci, come scopare una donna senza che il padre se ne accorga.
Il ritmo battuto da bacchette su una cassa di telo, il vibrante nero che diceva
la sua, interrotto dal battito di un piatto di dorato metallo. E poi, via; la
voce di lei, una voce melodiosa, armonica come una nuvola, sinuosa come un
richiamo, pura come l’aria.
Buttò la cicca a terra, benché a
metà; svoltò rapidamente a destra, per infilarsi all’interno di un bagno dal
forte olezzo di piscio e le mura scurite dal vagabondaggio di gente di ogni
tipo. Non poteva concedersi troppo tempo, troppi lussi, lo sapeva: c’era altro
sangue da sputare prima di avere la presunzione di contare qualcosa per gli
altri. Estrasse dalla tasca del jeans stretto e scolorito l’eyeliner, con mano
tremante ricalcando il tratto nero sugli occhi; c’era sempre quella sorta di
eccitazione, prima di esibirsi.
Teneva tra le lunghe
dita un microfono strano, di quelli che usano i cronisti in una partita
sportiva; eppure, diventò il messaggero delle sue parole. Parole quotidiane, da
sentire urlare per strada a qualsiasi passante, da qualsiasi sudicia o vergine
bocca, parole sanguigne, parole affilate, un tanfo di parole troppo banali. Ma,
calibrate su un mezzo cristallino, divennero nuove. Calibrate su una musica
innalzata da abili anime.
I vaffanculo che
diventavano poesia.
La porta del bagno venne sbattuta
forte, si spalancò; l’impertinente maleducato non disse nulla, non gli passò
nemmeno per la testa un gesto di scusa.
E, non gli passò per la testa che
quello fosse il bagno delle donne.
-Si va in scena tra due minuti.-
eppure, sembrava che non gliene fregasse nulla.
Si sfilò velocemente quella
canottiera nera, mostrandogli senza minimo pudore il pizzo della sua biancheria
superiore. -Ed io sono pronta.-
-Tu vieni così?-
-Qualcosa in contrario?-
Inarcò un sopracciglio. –Sembri una
puttana.-
La chioma di quel rosso
ondeggiò, seguendo la corsa della prima chitarra.
L’anello d’argento
scintillò su quella mano che danzava tra le corde dello strumento, abile ed
attento, come se tutto dipendesse da lui. Sentì sciogliersi il trucco
attorno agli occhi, ma sapeva di poter riparare di fronte alle telecamere con quello
sguardo di diamante ereditato da chissà quale sconosciuto padre. Labbra tese
per prendere piccole manciate d’aria: un equilibrio perfetto, proprio come una
corsa in moto.
Tirò le labbra, inacidita dal suo
commento.
-Ti piacerebbe, eh?- passò al
contrattacco. –Da quanto non ti fai una bella scopata?-
-Da meno tempo che tu creda.-
chiuse la porta alle sue spalle.
L’ignorò completamente, rubando con
l’indice un po’ di quel forte rossetto, per dare colore alle gote. Sentì la sua
cinta stirare il jeans al suo movimento.
Troppo vicino.
Bisbigliò ad un centimetro dal suo
orecchio.
-Ehi tu, stupida… non pensare.-
Non pensare che lì, seduto tra quei
tavoli, c’è l’uomo che può cambiarti la vita.
C’è
chi conta qualcosa, solo perché si chiama produttore; squallido doversi
sottomettere, ma necessario.
Non pensare; anche perché, nel tuo
mestiere è quello che conta.
Un sorrisetto
compiaciuto inarcò le guance truccate con tre strisce nere; le mani del
batterista duellarono con il tempo, armate di solide bacchette di legno,
esaltato da ogni minimo colpo sul piattino, come un pugno dato in faccia ad uno
stronzo.
E si, la stessa
soddisfazione.
Si pentì di non essersi
tirato indietro con una fascia quella spugna bionda che aveva in testa; i
ciuffi gli finivano direttamente negli occhi chiari, vigili della completa
armonia del pesante strumento. Però, sapeva di essere molto più figo così.
-Di che cazzo parli?- lo fissava
attraverso lo specchio.
-Non mi dire che non sei nervosa
per l’esibizione di stasera.-
Assottigliò lo sguardo marcato dal
trucco: troppo arguto.
-Cazzate… andrà tutto bene.-
Si avvicinò anche lui allo
specchio, risistemandosi i ciuffi corvini di una chioma lasciata crescere apparentemente
senza farci troppo caso.
-Ti fai bello per le tue future
fans?-
-Non ingelosirti troppo, piccola.-
solito sorriso da stronzo.
Con uno scatto girò la testa; la cenere di quella
sigaretta cadde sul pavimento, senza sconsacrare il basso con cui comunicava la
sua voce. Era bello, occhi e capelli neri, sapeva di esserlo; e sapeva che gli
sarebbe bastato poco per far impazzire qualsiasi donna. Dunque, lasciava
decidere al caso i suoi movimenti, mentre si concentrava nel rendere più chiaro
ed assordante possibile il messaggio criptato tra quelle corde tese.
E fumava una sigaretta: in fondo, quel che
faceva era la solita routine.
La catena tintinnò accanto alla
gamba, mentre legava i capelli d’oro in una coda; odiava venir
trattata come se non contasse un cazzo. Amara verità, si: ma ‘fanculo… quando
sfonderà nel mondo reale sarà lei a trattarli tutti così.
-Meglio che non provochi, Uchiha.-
La custodia di uno strumento a
corda la fissava malamente dal fondo del pavimento, quasi rimprovero per averla
poggiata su quel sudiciume; si sbrigò a raccoglierla, forse pensando ad una
qualche scusa per quell’atto profano.
-Tutti noi dipendiamo dalla tua voce: ma, per stasera, dimenticalo.-
Fu quel che le disse, osservando
dallo specchio la sua schiena.
La coda di capelli
dorati frustò l’aria, e quel corpo da modella riprese a seguire la musica,
semi-nascosta da una crudele chitarra; sorrise, tornando a giocare con il
pubblico, ad ammiccare, nella corsa di quella sua voce che, d’un fiato, teneva
il ritmo in pugno, vincendo, dominando, costringendo la sua folla a provare
quei sentimenti che lei voleva che provassero, emozionandoli ma, se solo avesse
voluto, avrebbe potuto farli incazzare ed innervosire. Lei controllava tutti.
L’angelo vestito da puttana.
Rise. Rise, pensando che fosse un
uomo fantastico.
-La fai troppo facile, tu.-
-Perfetto.- si girò verso di lei.
–Allora, quando saliamo sul palco, quel cazzo di microfono me lo prendo io.-
Era forse una sfida, quella folle
proposta di mandare a puttane forse l’unica occasione che avranno nella vita
per sfondare?!
Ma rise di nuovo.
–Così ci assicuriamo due calci in culo che ci
sbattano fuori da qui.-
Una fiammella di un
accendino si illuminò in prima fila, tra quelle tribune; piccolo sibilo,
accompagnato da un soffio. Il fumo si disperse nel vitreo vapore della
saturazione di quel palco, mentre la bocca che accolse la sigaretta fece largo
ad un sorriso.
-Ora ho capito, perché
hai puntato su di loro…- anche le labbra rosse di quella donna accanto a lui
seguirono la sua smorfia. –E pensare che, fino a qualche mese fa, ti avrei dato
del pazzo!-
Allungò una mano sullo
schienale della sua sedia, poggiandosi alla sua spalla; l’attrasse a sé. –Pura
energia, combinata a sensualità ed un po’ di rischio.-
-Hai ancora occhio, per
chi ha talento.-
-Ma qui non si tratta di
semplice talento: una bella voce e saper muovere bene le mani sugli strumenti.
E’ proprio l’atteggiamento che mi piace: questi ragazzi cazzeggiano sul palco,
divertendosi anche di più del pubblico che ascolta la loro musica.-
-Non è lavoro,
dunque.-
-Io do loro la
possibilità di divertirsi, loro a me di mantenere più che salda la mia
reputazione.- allungò l’occhio sulla generosa scollatura del vestitino rosso
della compagna, che si aggiustò la chioma corvina.
-Ottimo lavoro,
Kakashi.-
-Beh, credo che con te sarebbe lo
stesso.-
Aggrottò le sopracciglia.
-Stronzo.-
-Lo so. D’altronde, non l’hai
dedicata a me, quella canzone?-
-Quale canzone?-
Si girò, trovandosi in due passi a
cingerle il passaggio.
-Quella del nostro debutto. Il
nostro passaporto per il successo.-
E si arrivò al climax.
Quando devi cantare fino
allo stremo delle tue corde vocali.
Quando devi muovere le
corde tanto da far sanguinare le dita.
Quando devi picchiare
sulla grancassa quanto basta per stordirti.
Ed accontenterai le
orecchie del pubblico.
Perché il rock è
spingere fino al penultimo respiro; ma conserva l’ultimo, perché morire è da
cojoni.
I hate…
everything about you.
Why... do
i... love you?!
You, hate...
everything about me.
Why... do you
love me?!?
Lei gridava.
Lui sanguinava dalle mani.
Ma erano solo loro.
La voce cristallina che divenne un impeto coinvolto
come in un orgasmo, mentre si lasciava andare alle note dello strumento che
teneva tra le mani, l’urlo della sua anima.
E lo stridore del basso, che avrebbe dovuto guidare
il ritmo, che voleva tornare ad essere il primo in corsa, sbattendole in faccia
la verità di quelle parole che suonava.
Era chiaro, sotto gli occhi di tutti.
Quelle parole erano per loro.
-… quella canzone?- schioccò
la lingua sul palato. –Non farti troppe illusioni, bello.-
-Ti prego, Yamanaka… ormai ti
conosco: non mi dire che è dedicata a qualcuno dei tuoi stupidi ex, perché non
ci crede nessuno.-
Gli orecchini a croce tintinnarono.
–Perché non sono abbastanza stronzi come te?-
-Sei tu stessa a dirlo.-
-E se fosse frutto d’un ispirazione
che non c’entra nulla con la realtà? Sai, Uchiha… ti senti troppo importante.-
Non c’erano molte parole da dire… e
lui diede la tipica risposta di uno stronzo.
Un sogno di labbra calde ed
avvolgenti, un peperoncino che risveglia i sensi.
E poi… e poi, il fremito sotto
l’epidermide che scava in te, pulsando nelle vene, spingendo le mani a non
fermarsi lì, ad esplorare ogni parte del corpo,
a graffiare, stringere, avvolgere.
Quella… la tipica risposta di uno
stronzo.
Le labbra le facevano male,
parecchio. Pulsavano gonfie, mentre lui se le leccava, come in cerca di quel
che, rapace, aveva rubato.
No, non si era ribellata: e non
c’erano scuse per questo.
Non avrebbe più potuto dire nulla,
basta.
Basta cazzate, basta mentire.
-Muoviti: quei due cojoni ci
aspettano.-
Quel suo atteggiamento la faceva
incazzare ed impazzire: trattare gli altri come se non contassero una sega; ma,
appunto, preferendo i cojoni ai bravi ragazzi.
-Tu…- lo bloccò con la voce, mentre
si appoggiava alla porta del bagno. -… adesso sei in debito con me, sai?-
Si girò.
-Ne riparleremo dopo l’esibizione,
a casa mia.- solito sorriso da stronzo.
Graffiò con le unghie il muro.
-Regalaci un sogno stasera, Ino.- ed
era un ordine.
Estrasse l’accendino, poggiando la
sigaretta tra le labbra; poi, richiuse la porta alle sue spalle.
Ultimo colpo di grancassa.
Secondo volo silenzioso di quella farfalla.
E l’inferno dell’eccitazione del pubblico.
I quattro ragazzi alzarono il capo, aprendo gli occhi
di fronte a loro: e si goderono quell’amore, quell’energia che veniva
restituita loro dopo quello spettacolo di fiamme, sentendosi magari anche un
po’ migliori rispetto agli altri sbruffoncelli come loro.
Il biondo alla batteria si alzò, iniziando a battere
le mani.
-Ottimo lavoro, Uchiha-chan.-
Non fissava Sasuke.
Ma Ino.
E la sua fedina d’oro all’anulare sinistro.
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Ho usato due livelli di narrazione stavolta; intendo
dire due storie. La prima, quello principale, dell’esibizione della band, i
quali membri, li avrete riconosciuti (se non è stato così, vi chiarisco le
idee) erano Naruto, Gaara, Sasuke ed Ino; i primi due li ho scelti senza un
motivo specifico, diciamo che mi sembravano perfetti. E lì, proprio come avrete
capito dalla conversazione tra Kakashi e Kurenai (ovvio, la sua
accompagnatrice), sono già famosi. La seconda, quella delle “origini”, parla di
una situazione avvenuta nel primo concerto, nel quale dovevano “convincere” il
produttore, Kakashi, di essere una band degna di questo nome.
Come avrete capito la canzone del gruppo è “I hate
everything about you” dei Three Days Grace ( mi ero ripromessa di farci un
qualcosina sopra).
Per quanto riguarda Sasuke ed Ino, ho ripreso due
momenti della loro storia: l’inizio ed il culmine (si capisce nel finale, no?).
Era un esperimento che volevo fare, provare a parlare di due storie in una sola:
ci ho aggiunto la KakaKure al posto della solita NaruSaku, ma solo perché questa
coppia mi mancava da un po’. Ovvia l’ispirazione derivata dall’anime di Nana.
Solito ringraziamento va a chi leggerà questa shot; e
vi esorto a commentarmi, anche due parole, fanno sempre piacere!
Dedicata alla mia beta Mimi, che per stavolta non
adempirà al suo compito XD
La vostra Rael