Sole
che sorge, vita che nasce
Il
sole stava sorgendo.
Era
incerto, pallido, quasi spento.
Ma
c’era.
Era
nato anche quel giorno e, fortunatamente,
avrebbe illuminato anche quelli a seguire.
Harry
lo osservava, unico testimone di una
nascita incantevole e antica quanto il mondo stesso.
Era
solo Harry.
Forse
Ron lo stava cercando.
Cercava
il suo migliore amico, anche solo per
avere la certezza che avrebbero potuto ridere di nuovo insieme.
Ma
Harry era solo.
Perchè
sapeva che non avrebbero riso più
tanto facilmente.
Forse
Hermione lo stava cercando.
Cercava
il suo migliore amico, anche solo per
sentirsi dire che sarebbe andato tutto per il meglio.
Ma
Harry era solo.
Perchè
sapeva che niente sarebbe stato più
come prima.
Forse
anche la signora Weasley lo stava
cercando. Cercava il ragazzo che per lei era diventato il suo ottavo
figlio, lo
cercava anche solo per accertarsi che stesse bene e che avesse tutti
gli arti
attaccati al posto giusto.
Ma
Harry era solo.
Perché
sapeva che era egli stesso a doversi
preoccupare per lei. Anche se chiedere come stava sarebbe stato
scontato,
stupido.
Era
una madre sopravvissuta al proprio
figlio: il suo cuore, ridotto a brandelli, gridava straziato.
Harry
era solo.
E
aveva intenzione di restarci.
Lui,
il prescelto, il bambino sopravvissuto,
il ragazzo che neanche due ore prima aveva sconfitto il mago oscuro
più potente
di tutti i tempi e aveva posto fine agli incubi dell’intero
mondo magico,
adesso, davanti al nuovo giorno che nasceva, si sentiva il
più vigliacco di
tutti, svuotato di tutto quel coraggio che lo aveva animato.
Era
solo Harry.
Non
riusciva ad alzare lo sguardo da quelle
macerie, non riusciva ad essere di conforto a quelle persone che lo
avevano
sempre accolto, facendolo sentire a casa.
Perché
anche se aveva vinto, Harry si sentiva
responsabile, colpevole.
In
realtà, Harry non sentiva niente.
Non
provava la gioia e l’euforia di chi esce
vincitore di uno scontro mortale e dannato.
Non
percepiva il timore e la paura che fosse
tutta un’illusione e che Voldemort fosse ancora vivo.
Non
sentiva il dolore delle sue ferite, né di
quelle che gli sfregiavano il corpo né di quelle che gli
laceravano l’anima.
No.
Harry
non sentiva niente.
Anzi,
forse una cosa la sentiva.
Una
soltanto
Un’immensa
tristezza.
Una
tristezza sconfinata, acre.
Perché
di certo Harry aveva vinto, ma per
tanti, troppi questa vittoria aveva avuto un prezzo troppo alto. Troppi
erano
gli occhi, ormai diventati vuoti e vacui, ai quali Harry chiedeva
mutamente
perdono. E lo faceva lì, osservando il sole che si
affacciava alla vita, dopo
il buio della morte.
Era
solo Harry.
Ed
era triste.
“Harry”.
No.
Forse
non era poi così solo.
O
forse sì, ma di sicuro sarebbe stato molto
più semplice sopportare la solitudine e la tristezza, se
aveva al suo fianco
quel profumo di fiori che avrebbe riconosciuto tra mille.
Quell’aroma
che tanto amava e che lo faceva
sentire come se, dopo tanto errare, avesse finalmente trovato il suo
posto nel
mondo.
Quella
fragranza che ritrovava dappertutto.
Gli
illuminava gli occhi,
si
insinuava sotto la pelle,
riempiva
le narici,
vibrava
nelle orecchie,
insaporiva
le labbra,
bruciava
tra le dita.
Quell’essenza
che gli affogava i sensi,
gli
devastava la mente
e
gli squassava il cuore.
“Ginny”.
La
ragazza, silenziosa come era arrivata,
aveva preso posto accanto a Harry.
Anche
lei ora osservava quel cerchio di fuoco
che anche quel giorno, seppur in maniera più discreta e
timida, stava venendo
alla luce, dopo una notte di doglie e di travaglio.
Harry
era triste.
Ma
la osservava.
Era
placida, tranquilla. Il suo corpo era
quieto. Niente a che vedere con qualche ora prima, quando le sue membra
si
tendevano come corde di violino, sempre all’erta, pronte a
percepire ogni
rumore, ogni segnale. Pronte allo scontro.
I
capelli le ricadevano disordinati sulle
spalle come rame liquido e riflettevano, come specchio, i colori
dell’alba.
Gli occhi erano
cerchiati e arrossati
dalle lacrime che aveva versato e sicuramente trattenuto.
Erano
occhi limpidi, limpidi e tristi.
No.
Decisamente
Harry non era solo
Perché
anche Ginny era triste.
Ma
Harry era certo di non aver mai visto
niente di più bello in vita sua.
Era
un pensiero sciocco, irrazionale.
Ma
il ragazzo sperava che quella tristezza,
se divisa in due, potesse essere affrontata.
Pensare
di dimenticarla era impossibile.
Ma
combatterla era fattibile.
In
fondo, Harry era appena uscito vivo, anche
se per un soffio, proprio da una dura battaglia.
E
adesso sentiva di doverne già intraprendere
un’altra.
Questa
volta al fianco della donna che amava.
Questa
volta al fianco di Ginny.
A
questo punto, senza averlo pianificato, senza
alcuna strategia premeditata, agì.
Compì
la prima mossa.
“Ginny…
Mi…”
“Non
dirlo Harry, ti prego…”
Ginny
lo spiazzò con la sua di mossa e Harry
la guardò cercando una spiegazione che non tardò
ad arrivare.
“Non
ha senso, Harry…”
Il
giovane sgranò gli occhi, spiazzato.
Possibile
che avesse capito?
Zittì
i suoi pensieri quando la ragazza, con
voce lieve come vento d’estate ma ferma come gelo
d’inverno, riprese a parlare.
“Non
ha senso, Harry, colpevolizzarsi per
qualcosa di cui non si è colpevoli. Non ha senso dire mi
dispiace quando
l’unica colpa che si ha è quella di averci difesi,
di averci salvati”
“Non
tutti, però…” la interruppe Harry.
Ginny
lo guardò con lo stesso sguardo di una
madre che spiega al figlio che esiste il dolore, che esiste il male,
che esiste
la morte.
“No…
Non tutti, è vero. Ma ti ripeto: non ha
senso pensare che quello che si è fatto non è
stato abbastanza. Ha senso solo
pensare che quello che si è fatto è stato
comunque il massimo”.
Harry
non riusciva a capacitarsi di come, in
un corpo tanto piccolo, dimorasse una dolcezza tanto disarmante, una
forza
tanto potente.
Le
prese una mano fra le sue, in un gesto
delicato ma saldo al tempo stesso.
Il
sole era ormai sorto.
Per
loro due, insieme, una nuova vita stava
nascendo.
E
mentre la vedeva contrarre il viso in una
strana smorfia che, forse, voleva assomigliare ad un sorriso, ma che la
tristezza aveva deformato in pianto, allora, in quel momento, davanti
al giorno
nascente, Harry capì di amarla.
Capì
di amarla infinitamente.
Senza
condizioni.
Senza
freni.
Capì
che non avrebbe mai smesso.
Capì
che l’avrebbe amata per la sua bellezza.
Per
la sua dolcezza.
Per
la sua forza.
Per
la sua tristezza.
Quando,
disperato, abbracciò la ragazza ed
entrambi diedero sfogo a quelle lacrime amare e silenti, sigillo della
loro
tristezza, Harry la sentì aggrapparsi al suo petto, come il
naufrago che si
appiglia allo scoglio, mentre Ginny, con voce stavolta leggermente
tremante,
gli sussurrava piano.
“Non
dirmi mai che ti dispiace, Harry. Perché
tu non hai colpa. Sono parole, solo parole. Fa male, ora più
che mai. Ma il
tempo allevierà il dolore e sanerà le ferite; per
ora possiamo solo lasciarci andare
in balìa di questa tristezza. Non possiamo fare altro.
Vorrei
stringerti forte, dirti che non è niente. Posso solo
ripeterti ancora: sono
solo parole”.