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Autore: _blueebird    22/12/2013    6 recensioni
Ci vogliono pochi minuti per leggerla e altrettanti per innamorarti di loro.
Camille, una sedicenne che lotta tutti i giorni per rimanere a galla in una società di pregiudizi, ingiustizie e in continua lotta con la sua timidezza e con i suoi problemi, si innamora. Tra i banchi di scuola, tra gli amici veri e le cattiverie, troverà l'amore che la porterà a crescere, a soffrire e a combattere i suoi demoni.
Una storia che vi prenderà e che vi scalderà il cuore.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Coloro che amano, non potranno dire di averlo fatto davvero se non hanno prima sofferto. Così come chi prende il veleno a piccole dosi, piano piano ne diventa immune, così il dolore se assunto periodicamente, ti abitua ad odiare la vita, la tua intera e futile esistenza. Ma non puoi scappare, non puoi rifugiarti nei sogni sperando che tutto possa scorrerti davanti senza scalfirti. Noi siamo come le rocce nei torrenti. Corrosi dalla potenza dell’acqua ci levighiamo. Ogni lacrima, ogni sospiro, ogni stretta al cuore è un piccolo tassello della nostra preparazione al dolore. E poi tutto cambia. Basta un istante, una persona, un momento e tutto il dolore che hai provato viene ripagato.
Come la neve sulla lava bollente, come la pioggia nelle giornate afose, come la guarigione dopo la malattia, ricominci a vivere.
 
 
 
 
 
Picchiettavo rumorosamente le unghie scrostate di smalto sul plexiglass della pensilina alla fermata dell’autobus. Ero riuscita a sfoderare un discreto discorsetto, un misto fra olandese e inglese, con il quale mi procurai, in un piccola edicola malmessa, un biglietto dell’autobus diretto in centro.
Non facevo altro che mordermi  le labbra come se me le volessi strappare, come se fossero superflue; due oggetti inutili, come l’appendice. Il biglietto dell’autobus si era un poco deformato, inumidito dal sudore sulle mani.
Ma dove diavolo era quel fottuto autobus?
I sospiri si fecero sempre più frequenti e profondi.
D’un tratto, da dietro una curva sbucò un lungo tram color arancione slavato, le ruote grosse che sollevavano piccole goccioline d’acqua piovana ad ogni pozzanghera e un grosso cartellone pubblicitario su tutta la fiancata: una mamma che sorrideva alla propria bambina dalle treccine biondo scuro e dai denti divaricati di chi ha appena perso i denti da latte.
Mamma.
Mi venne in mente lei e quando ci accoccolavamo sul divano di casa mentre fuori pioveva, io avvolta dalla coperta a pois a leggere libri polverosi, lei a macchinare sul portatile sorseggiando caffè bollente. Poi lei mi faceva il solletico ai piedi senza che me ne accorgessi e io le stampavo baci rumorosi sulle guance.
Mi venne così una gran nostalgia di casa e mi convinsi sempre di più che la decisione che avevo preso non era poi così sbagliata.
L’unica persona che aveva sbagliato era lui. Quell’uomo.
Non riuscivo nemmeno più a considerarlo un padre, un parente. Il suo nome avrebbe solo dovuto essere posto in un dimenticatoio buio e sudicio, in una parte recondita e inesplorata del mio cervello e lasciato li ad ammuffire.  
Salii sull’autobus che sbuffò, facendo un fischio lungo e ovattato nel momento in cui si fermò davanti a me.
Era abbastanza pieno. Tutti i posti a sedere erano occupati e qualche persona era in piedi attaccata alle maniglie che penzolavano dall’alto. Mi feci spazio tra le persone e mi allungai ad obliterare il biglietto nell’apposito macchinario, che lo risputò fuori dopo averlo marchiato. Afferrai una maniglia e sospirai. Mi sembrava di aver trattenuto il fiato fino a quel momento.
Quando l’autobus si mosse e mi parve di essere un poco più vicina al mio obiettivo.
 
Il soffocato sottofondo del motore che andava su di giri poco prima che l’autista cambiasse marcia, faceva da cornice a quello che sembrava un viaggio eterno. Le persone sembravano stanche, quasi collose, rimanevano in piedi a fatica, dondolando e schiacciate dal loro stesso sonno. Le borse sotto gli occhi di una signora che mi guardava poco interessata, sembravano tirarla verso il basso, aggrappandosi con forza alla pelle per trascinarla giù. I loro volti anonimi, silenziosi e quasi soffocanti parevano non avere anima, gli occhi vuoti e roteanti, le braccia a penzoloni.
Così il silenzio divenne l’unica cosa che riconobbi in quell’olanda ostile e malinconica; probabilmente quelle erano solo persone normali in un normale autobus di linea, in una normale cittadina del nord Europa. Ma non per me. Non per me.
Appoggiai la fronte all’avambraccio sospeso e sbuffai ancora. Pesante, opprimente, stancante.
Le case dall’altra parte della strada scappavano da me nella loro immobilità, gli alberi ai lati dei marciapiedi si sradicavano, trascinati via da un vento immaginario, sgambettavano via come scarafaggi impauriti.
“Scusi, quanto ci vuole per arrivare in centro?” Chiesti ad un ragazzo sulla trentina, che mi parve il più sveglio di tutti. “Ci vorrà un’ altra mezz’ora buona.” Abbozzò lui, facendomi un sorriso di cortesia.
Accennai un grazie con il capo e tornai a fissare un punto nel vuoto, sicuramente più interessante della donna con le borse sotto gli occhi.
 
Un paio di tortore tubarono in mezzo alla strada quasi sbigottite dopo aver visto l’autobus allontanarsi. Lo studiarono immobili fino a che non scomparve tra il traffico. Poi si alzarono in volo.
 
 
Le porte automatiche dell’autobus si aprirono a fisarmonica e la gente cominciò a scendere frettolosa giù dal bus. Ricevetti qualche spallata e una poco gradita disapprovazione in olandese. Così capii che dovevo scendere anche io.
La giornata, fuori dal veicolo era calda e ventosa, una leggera brezza di fiori e sale inondava l’aria di un profumo selvatico e sprezzante e le vaporose nuvole di panna montata si intersecavano nel  cielo di un blu intenso e corposo. Scavalcai la recinzione di acciaio che divideva la fermata da un’area pedonale e ciclabile e dopo qualche metro, mi appoggiai di spalle al muro di una casetta bianca che faceva angolo ad una viuzza stretta, ciottolata di pietre rosso fuoco. Un palo a strisce bianche e nere mi nascondeva bene dagli occhi indiscreti dei ciclisti.
Estrassi il telefono e cercai velocemente le mie coordinate. La via nella quale mi trovavo si chiamava Biltstraat e si trovava a circa 2 chilometri dalla stazione. Probabilmente se l’avessi percorsa interamente e mi fossi diretta ad Amsterdam, sarei arrivata là per l’ora di pranzo e avrei dovuto aspettare molto tempo prima di incontrare mia madre che sarebbe arrivata verso sera inoltrata. E questo aumentava le probabilità di essere scoperta da mio padre. D’altro canto, anche rimanere a Utrecht non avrebbe aiutato poiché di sicuro, i suoi collaboratori, avrebbero messo a soqquadro la città pur di trovare la figlia del loro capo.
Così presi una decisione, avrei cercato un bel negozio di cappelli, una sciarpa, un paio di occhiali spessi ed economici e una viuzza da percorrere a piedi con calma.
Salvai la cartina e dell’itinerario principale tra i preferiti e infilai il telefono in tasca. Proprio sulla sinistra rispetto alla strada principale c’era una via piccola e stretta, un meraviglioso palazzo in mattoni rossi con delle piccole guglie dello stesso colore e dall’altra parte un giardino verdeggiante, ben curato, dove agganciate alla staccionata che lo dividevano dal marciapiede, c’erano un gruppo di biciclette variopinte.  Osservai che non ci fosse nessuno, né a destra né a sinistra e mi immisi nella stradina.
 
Se non fosse stato per le circostanze, mi sarei di sicuro fermata molto di più in quel posto.
Sembrava un paesaggio da cartolina: bellissimi giardini floridi e ben curati, file di alberi magnifici, dalle foglie dalle più disparate tonalità di verde, muovevano le loro fronde squassate delicatamente dal vento e piccoli mattoncini grigi posti a lisca di pesce scorrevano senza fine davanti a me.
La via stretta aveva parcheggiate da ambo i lati delle file di auto con la targa arancione e le case, accostate l’una all’altra, erano fatte tutte di mattoni rossi, rifiniture bianche e le porte e le finestre erano uno sgargiante color verde scuro. E le biciclette. Le miriadi di biciclette olandesi ammassate quasi l’una sopra l’altra, si schiacciavano contro i muri come se dovessero far passare giganti invisibili.
Dopo qualche minuto però quella stradina che mi sembrava così dolce e accogliente, cominciò a diventare stranamente opprimente e claustrofobica. Era monotonamente tutta uguale, fino a quando qualche casa passò dal rosso al bianco e gli alberi mutarono in cespugli di fiori.
Uscii boccheggiante dalla via come se l’ossigeno fosse andato via via scarseggiando e mi ritrovai di colpo una via più grande, tempestata di negozi dalle insegne colorate e da decine di macchine e biciclette che si inseguivano a vicenda.
Estrassi il telefono e dopo aver osservato la cartina, girai a destra.
 
Gli immancabili palazzi rossi e bianchi ospitavano deliziosi negozi dalle vetrine invitanti e il mio stomaco non poté non fiutare uno splendido bar dal quale usciva un intenso aroma di caffè e paste, ogni volta che un cliente entrava o usciva. Mi piantai davanti alla caffetteria, come un cane a digiuno e mi convinsi che una buona mente non poteva lavorare a stomaco vuoto.
Una voce stridula e crudele mi urlò nelle orecchie “Ma che diavolo fai! Questo non è un viaggio di piacere!”.
L’altra me si acquattò abbassando la codina scodinzolante e osò farfugliare “Ma-ma-ma io ho fame!” I suoi occhi parvero smuovere di compassione la me più rigida “E poi compriamo qualche cosa anche per pranzo, magari un panino, così lo mangiano dopo e non perdiamo tempo in un altro negozio. Eh? Eh?”
La me più severa incrociò le mani al petto e chiudendo gli occhi e piegando un poco le sopracciglia annuì un paio di volte.
Tornai a scodinzolare ed entrai nel bar.  
L’interno era di un meraviglioso color crema e avorio (per fortuna non più rosso). I divanetti e le poltrone molto eleganti e principeschi alla mia destra, erano foderati di un tessuto a righe gialle e bianche, i quali a gruppetti di due o tre, circondavano un tavolino in radica lucidissimo con i piedi intagliati a mano. Il pensile del bancone di marmo color panna era appoggiato su una struttura composta di tasselli di vetro che mi ricordarono la Madre Natura di Francesco. Rabbrividii.
“Dimmi.” Disse il ragazzo moro con la barba dietro al bancone. “Due panini. Uno da portare via.” Dissi in inglese. Annuì e mi condusse vicino alla vetrina per sceglierli.
Dopo aver pagato, mi sedetti su un divanetto e cominciai a mangiare con gran voracità. Con l’altro panino ne avrei avuto a sufficienza per il pranzo? Ne dubitavo.
Mi resi conto in quel momento che non avevo ancora sentito mia madre. Lei non sapeva che sarei andata da lei ad Amsterdam e che papà sapeva tutto.
Estrassi il telefono e digitai:
 
Papà sa che stai arrivando, l’ho sentito mentre lo diceva al telefono. Voleva  anticipare la partenza così sono scappata. Non preoccuparti, questa sera sarò in aeroporto ad Amsterdam. Ti voglio bene.
 
Quando lo inviai mi si strinse il cuore. Le lacrime facevano capolino e un groppo alla gola mi bloccò il respiro. La strada era ancora lunga, non potevo fermarmi.
 
Comprai nel primo negozio di vestiti che vidi un paio di occhiali da sole economici, un foulard a fiori, un berrettino lilla e degli elastici per capelli. Mi feci una treccia, mi infilai il berrettino e gli occhiali e mi arrotolai il foulard intorno al collo. Il mio riflesso sulla vetrina mostrava davvero un'altra persona.
Mi confusi così tra le persone, tra il profumo del panino nella borsa e tra i palazzi rossi. Ero un’olandese qualunque.
 
Sorrisi con un pizzico di malizia, tra il collo alto del giubbino. 




*Angolo dell'autore*
Buonasera. O buongiorno. Insomma Salve.
Dopo aver passato tutta l'estate e una parte dell'autunno a meditare, sono tornata a scrivere la mia storia. O la conclusione almeno. Perchè non posso scrivere un altra storia se prima non concludo questa, sarebbe da cafoni. E Camille merita un finale. 
Mi dispiace davvero se vi ho fatto aspettare e se molti di voi ormai si saranno dimenticati della mia storia, ma non fa nulla. E' giusto che qualche persona, se un giorno vorrà leggerla, possa farlo nella sua interezza. E poi lo devo a me stessa, perchè non si più cominciare una nuova parte della propria vita se prima non ne si chiude un altra. Almeno io la penso così ;)

Prima di salutarvi e di dirvi che ho intenzione di scrivere più spesso, voglio sottolineare che le zone che ho descritto sono assolutamente REALI. Per quanto Google maps possa aiutare. 
Bacini.
_Sel_

  
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