Notte.
Ed ero un tutt'uno con la pioggia.
Ero un
tutt'uno con le lacrime, le
gocce, che cadevano dal cielo. Il mio sguardo andava oltre la volta, appannato
dal riflesso delle stelle.
Ero un tutt'uno anche con la luce dei lampioni.
Ero un tutt'uno con la strada, mentre i miei passi
risuonavano tra i palazzi. Avanti, ancora avanti, mi ripetevo.
Da una stanza, verso la mia direzione, proveniva una musica. Chissà di
chi era, quella camera. Forse di un bambino, che una mamma cercava di far
addormentare. Forse di un’anziana signora, che si godeva quelle ore,
come facevo io. Non avevo dubbi, conoscevo quella melodia. Adesso non
saprei dirvi con certezza di quale si trattasse. Ormai l’ho dimenticato.
Ma, vi sembrerà strano, quella sera ero un tutt'uno persino
con essa.
E non solo. Ero un tutt'uno con i miei vestiti, con i
cani che cercavano gli avanzi, con i bar, con gli alcolizzati, con gli storpi,
con le prostitute, con chi usciva solo la notte, perché il giorno temeva la
vita.
Ero un tutt'uno col sapore di sangue che si faceva
spazio nella mia gola.
Ero un tutt'uno con le macchine spente, finalmente
silenziose, agli angoli della via. Mi fissavano. Mi fissavano, le macchine.
Mi fissava, quel calore freddo. Io gli dissi che doveva stare
tranquillo, non preoccuparti, perché mi sento un tutt’uno anche
con te.
Mi fissava anche della gente. Tutti intorno a me.
Che cosa? Che cosa dicevano?
Non lo so più. Sembrava triste. Io, però, non lo ero. Mi sentivo
soltanto libero.
Mi sentivo leggero, per la prima e l’ultima volta.
Alcuni di voi chiamerebbero questa sensazione “nostalgia”. Ma non
c’è nulla di amaro nel mio ricordo di quella sera, solo serenità.
Non siate tristi per me, quindi, mentre leggete queste parole.
Perché ero davvero un tutt'uno con la notte, mentre morivo.