Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: MadLucy    22/12/2013    5 recensioni
Sono passati ormai otto anni dalla prematura morte di re Joffrey; ora sul Trono di Spade siede Tommen Baratheon, bello quanto ignaro, manovrato con fine astuzia dall'intraprendente moglie, Margaery Tyrell. Al Nord regna Bran Stark: il suo improvviso ritorno è avvolto in una caligine di mistero, così come il sinistro e devastante potere grazie al quale ha conquistato il comando; al suo fianco c'è la moglie Meera, ma a corte tutti sanno che il re passa le notti nel letto del suo consigliere più fidato. Quando, per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia in passato, il principe barbaro Rickon Stark si sporca le mani di sangue Lannister e rapisce la principessa Myrcella, non si può più tornare indietro: è guerra. Che parte interpreteranno Sansa Stark, Yara Greyjoy e Gendry Waters in tutto questo? Tra amori conflittuali, alleanze strategiche e scandali a palazzo, i nuovi concorrenti possono schierare le pedine: e che il gioco del trono abbia inizio.
(Bran/Jojen; Rickon/Myrcella; Gendry/Arya)
Genere: Generale, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bran Stark, Myrcella Baratheon, Rickon Stark, Shireen Baratheon, Tommen Baratheon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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VI. Giallo fu il riscatto.



-Alzati.-
Pur investito dalla portata torrenziale della luce diurna, l'uomo non stropicciò il viso. Brienne di Tarth gli lanciò uno sguardo raffreddato di severità. Stringeva in una mano il lembo della tenda che aveva appena scostato violentemente e fissava spietata la figura compostamente seduta sul letto, le coperte a coprirgli le gambe, la testa appoggiata sulla spalliera.
Non è morto, pensò. Me lo devo ricordare, se ho intenzione di ottenere qualche risultato.
-Ho detto alzati.- ripetè a voce più alta. Gli occhi dell'uomo non avevano uno sguardo -o meglio, non lo volevano avere.
-Adesso smettila. Cominci ad infastidirmi.- aggiunse Brienne, che non annoverava la pazienza fra le sue qualità. La faceva arrabbiare soprattutto perchè era Jaime Lannister l'uomo che le veniva negato di incontrare. Negato da chi? Da quel pretesto paralizzante, che aveva catturato la persona ch'ella amava di più al mondo e la divorava dall'interno, larva di un maleficio dal sapore buono ed il potere annichilente.
-Alzati,- insistette Brienne, -alzati. La stai deludendo. Fino adesso non hai fatto altro che deluderla. Non ti sembra il caso di smetterla?-
Il nervo scoperto del demone venne pungolato, ed egli infatti parlò, una voce fiacca fra labbra come d'impedimento, aggredite da medicine amare.
-È morta.-
-Ti vede su questo letto e ti sputa in faccia. Lo sai quant'è forte. La disgusti.-
-È morta.-
-Si vergogna di assomigliare così tanto ad un codardo come te.-
-È morta.-
-Lei ti sta urlando nelle orecchie, ma tu non la ascolti. Perchè non la ascolti?-
La voce del demone era esaurita: era troppo pigro per rispondere di nuovo.
-Voglio che liberi Jaime, adesso. Perchè Jaime non è stupido come te. Jaime ascolta quello che lei gli sta dicendo, e vuole obbedire. Vuole farla felice. Perchè accidenti glie lo stai impedendo?-
Il demone sollevò una mano, ma persino quel gesto parve affaticarlo. Era talmente sciocco che scivolò giù sul materasso, finchè le coperte non lo sommersero.
Brienne di Tarth era davvero esasperata. Prese le lenzuola e le strappò dal letto, prese il cuscino e lo gettò a terra, con rabbia. Il demone ricadde come un corpo esanime, ed il suo sguardo vacuo parve quasi insultante agli occhi di Brienne.
-Jaime vuole prendere la spada e combattere. Ha il diritto di farlo, il dovere di farlo. Tu non sei nessuno per influenzarlo in questo modo. Tu non sei nessuno per credere di poterlo sopraffare. Jaime è troppo forte per lasciarsi piegare da te.-
Una lacrima dolorosa, dopo diversi istanti di tentennamento, rovinò dall'orlo della palpebra e cercò di comunicare un pensiero inesprimibile.
-Oh, Brienne. Non ti merito.- Fu un soffio che Brienne infranse irata.
-Tu puoi vincere, Jaime. Svegliati. Ti devi svegliare. A lei questa lacrime non serve. Vuole essere vendicata, Jaime. Il demone la ripugna e basta. Tu devi vincere, altrimenti amarti non le sarà servito a niente.-
Svegliati, Jaime, ti devi svegliare... Era da tempo che Jaime Lannister tentava di ignorare lo sguardo fisso della sua gemella, in piedi in un angolo della stanza. Egli l'aveva supplicata di portarlo via con sè, s'era trascinato fuori dal letto soltanto per raggiungere quella visione, per abbracciarle le ginocchia, si era stretto alla sua veste. Aveva singhiozzato e s'era umiliato come da bambino non avrebbe mai fatto. Aveva cercato di afferrare un disegno sciolto nell'acqua, di trovare disegni di stelle scomparse. Aveva affidato all'inutilità la sua esistenza.
Ma Cersei non voleva ascoltarlo, non voleva accogliere le sue suppliche. Lo scacciava con sgarbo, lo guardava con altri occhi e lo aveva scalciato via come un cane malato. Un'ira informe le alterava il viso. Allora Jaime non s'era più mosso ed era rimasto a subire i fendenti di quello sguardo, con la pazienza immemore delle montagne, mentre il dolore perdeva identità e diventava tutto, diventava lui stesso, diventava Cersei. Cersei non era più bella, non era più l'amore, il sogno di una vita incompiuta. Solo dolore. Dolore. E nella banalità del dolore, Jaime non necessitava di altro. Nemmeno dei ricordi. Nemmeno di Brienne. Nemmeno di Cersei. Il dolore non è un demone, è l'unica compagnia di cui posso tollerare l'esistenza. L'unica che mi troverà ovunque andrò.
Svegliati, Jaime, ti devi svegliare.
Perchè? Per cosa? Per chi? Per uccidere il bambino-lupo che nessuno è sopravvissuto per piangere? Per provare la fugace sensazione di veder compiuta una giustizia persa fra le pagine di questa storia, di aver riscosso il debito della morte di Cersei? La vita di Rickon Stark non ne avrebbe potuto pagare nemmeno un istante. Non avrebbe compensato il vuoto, non avrebbe scagliato il tempo indietro. La vita di nessuno al mondo, neanche di tutti quanti insieme potrebbe pagarla: perchè per Jaime esisteva solo lei. Non c'è più un fulcro, non c'è più un nucleo in questa esistenza d'acqua torbida. Non c'è più una meta, per cui Jaime si è fermato in mezzo al sentiero e ha permesso al dolore di raggiungerlo, di colmare quel vuoto e scavarlo ancora più in profondità. Il mondo era il suo sorriso, la sua risata, i suoi baci ed il suo amore incostante ma sincero. Il mondo non c'è più.
Il demone ti ripugna, Cersei, è così? Ma cosa ne sai, tu, del demone? Non ci devi convivere come faccio io. Tu giudichi quel che non conosci. Se fossi al posto mio, saresti forte, invece? Oh, forse ti costringeresti ad esserlo per la vendetta. Avere un pretesto per fare del male è sempre piaciuto più a te che a me. Ma questo non è un mio limite, è un tuo difetto: scopriresti, tanto sangue e tanta morte più tardi, che non è servito a niente, se non ad aggravare le colpe della tua anima e farti sentire ancora più stanca di prima.
-Vai via, Brienne, a parlare a chi ha ancora orecchie per ascoltarti.- Una constatazione, più che una richiesta.
-O da chi ha ancora un cuore per comprendere.- rimbeccò Brienne. -Triste scoprire che non l'hai amata tanto come dicevi. Nè tua sorella, nè tua figlia.-
Appena pronunciò la parola figlia, gli occhi di Jaime Lannister recuperarono uno sguardo.
-Cosa le è successo?- Confusione nella voce. Un brivido velenoso sulla pelle. Nessuno gli ha parlato di Myrcella. Nessuno glie l'ha detto.
E Brienne capisce che Jaime lo farà, che aiuterà suo figlio ad essere re, che sarà al fianco di suo fratello in questa guerra, che salverà sua figlia imprigionata nel ghiaccio d'un'altra realtà. Che d'ora in poi avrà sia orecchie per udirla, sia un cuore per comprenderla. Che Jaime vincerà, che il demone perderà ed il loro sarà un congedo a lungo termine, forse momentaneo, forse definitivo, non è dato a lei saperlo. La donna fa poi una promessa all'anima di quella donna che negli anni aveva imparato a conoscere, a Cersei Lannister, vissuta per se stessa e morta per i suoi figli: che porterà sulla sua tomba la testa mozzata di Rickon Stark, che le offrirà una libagione con sangue di lupo, tant'è vero che si chiama Brienne di Tarth.
***
Il loro era un rituale le cui leggi non erano mai state decretate e trascritte, ma solamente apprese dall'esperienza e consolidate dall'abitudine: prima di tutto s'avvertiva il rumore delle zampe di Cagnaccio sulla pietra, un picchiettio ronzante e furtivo, e poco dopo i passi pesanti e placidi di Rickon assestati come percosse ad ogni gradino, che annunciavano con tonante esuberanza il suo arrivo; poi la luce del mozzicone di candela ch'egli portava sempre con sè sbocciava timida nell'irruenza delle tenebre, che si scostavano per lasciarle posto, e l'ombra del metalupo si profilava dietro le sbarre -contro la parete, un ritaglio più buio del buio stesso- e vi insinuava il muso alla ricerca delle sue mani, per leccarle affabilmente. Ma l'indizio più caratteristico che Rickon dava di sè, prima d'apparire, era il respiro. Myrcella lo conosceva molto meglio del proprio: irregolare, fremente, vibrante, accelerato da quella continua foga impetuosa e veemente che lo possedeva in qualsiasi momento della giornata. Nell'oscurità, quella brevità sporadica e pregna d'impulsivo fervore aveva un colore, un aspetto, un peso, una consistenza per Myrcella. E la solitudine si congedava per qualche tempo, concedendole qualche ora di vita, ch'ella consumava precipitosamente aggrappandosi al suo strascico, senza sprecarne un istante.
Questo, finchè Rickon non smise di venire a trovarla.
Myrcella aveva perso la concezione del tempo, questo sì, ma comunque ella sapeva che prima o poi finiva e arrivava Rickon. Dopo quell'ultima volta ch'egli era sceso da lei, il tempo durò per sempre.
Fu un'era quella che si spalancò in quel punto della sua prigionia; un secolo, uno squarcio che si affacciava su un'altra immobile realtà, simile alla solita ma inerte, uguale a sè stessa dall'indefinito principio all'inqualificabile termine. E a Myrcella sembrava di avere passato tutta la vita e tutto il tempo prima e dopo ad aspettare, che il tempo esistesse in funzione di quell'attesa, che quell'attesa fosse il tempo: e ormai era attesa di frustrazione, e frustrazione, ed ulteriore frustrazione, si trattava di nutrire, puntellare e consolare speranze moribonde, senza più un motivo per sopravvivere in quanto tali; si trattava di stringere in un pugno e soffocare fra le lacrime ogni istante, concluso e smarrito nelle fauci del passato. E il silenzio urlava, sbraitava, chiamava, gemeva, e il silenzio era diventato troppo grande, così immenso ed inespugnabile che a Myrcella veniva da piangere. Ma non lo faceva, perchè era stanca.
All'inizio la sua era l'arrendevolezza delle margherite i cui petali fremono al tocco del vento messaggero d'una tempesta imminente: statica, arida, stazionaria. Poi non bastò più.
Ad un certo punto, il suo corpo cominciò a deplorare l'immobilità e ad opporsi. Probabilmente fu mentre ella girovagava senza pace da una parte all'altra della cella, mentre le sue mani sanguinavano picchiando i muri e pestando le sbarre, mentre la gola spiegata cigolava all'insistenza delle sue grida, probabilmente fu allora che la sua mente marcì -contagiata da un germe, matrice e causa prima del contagio. E quel germe era il ricordo di Rickon Stark.
Aveva assediato la sua mente -no, non soltanto la sua mente. Myrcella percepiva ogni fibra di sè satura di Rickon, intrisa della sua presenza, magari per mezzo di una cicatrice o di un graffio o di un bacio che le aveva dato lì piuttosto che qui. Era ricolma di lui, sotto ogni aspetto. La sua memoria era una voragine dalle pareti ripide, nulla v'era rimasto aggrappato, tutto col tempo era stato divorato dall'oblio: soltanto lui, tenace, grandioso, onnipotente, restava. Allora cosa poteva fare, Myrcella, se non immergersi a capofitto nell'unica immagine che la sua mente riflettesse d'una vita smarrita nella cenere? La rabbia vigorosa del suo aguzzino era ciò che l'aveva mantenuta in vita -il solo sentimento ch'ella potesse masticare, contro l'apatia della solitudine. Il suo corpo stesso esisteva solamente per ricordare l'impronta d'un altro, per recarne le tracce, per indicarne il passaggio.
Come aveva potuto credere di odiarlo? Myrcella piangeva, piangeva, e non sapeva se fossero lacrime di dolore o di felicità per quella subitanea e magnifica rivelazione.
Lei non odiava Rickon. No. Non l'aveva odiato quando aveva decapitato suo nonno, quando aveva scavalcato il corpo di sua madre. Non l'aveva odiato quando l'aveva relegata in una cella, nè quando l'aveva stuprata aprendole il collo a morsi. E mai ci sarebbe riuscita. No, no, meglio ancora: non ci aveva mai provato davvero, ad odiarlo. E perchè? La soluzione era di sbalorditiva, lineare, imprescindibile evidenza. Asciutta, eppure essenziale. Perchè Rickon aveva bisogno di lei. Perchè lei aveva bisogno di Rickon. E loro, loro due, si sarebbero bastati per sempre.
Rickon non l'aveva rapita per farle del male, perchè voleva farle un torto. Assolutamente non era così! L'aveva fatto proprio perchè l'amava. Era così evidente, come aveva fatto a non capirlo subito? Ogni prova lo dimostrava. Il giovane Stark scendeva le scale per trovare conforto, per trovare carezze, per trovare il suo amore. La voleva avere sempre accanto a sè e soltanto per sè, era per questo che l'aveva rinchiusa lì, sotto, lontano dai lascivi sguardi altrui. Rickon la stava proteggendo dal mondo esterno, che era turpe, malvagio e li voleva separati.
Myrcella aveva compreso la verità tutta in una volta, in un unico istante. E quegli istanti erano diventati belli, caldi e scintillanti. E poi di nuovo orribili, man mano che il tempo scorreva e Rickon non arrivava.
Tornerà, si ripeteva Myrcella, tornerà. È certo. Certo come questo mio cuore che pulsa ancora, questo respiro che non si stanca di gonfiarmi il petto. Tornerà. Perchè io gli sono necessaria, e lui mi è necessario. E piangeva, questa necessità, strillava, implorava, come l'incavo dove un tempo v'era il cuore e, non appena era stato scardinato, il torace protestava contro quell'ingiustizia. Allora Myrcella affondava il viso in quel mantello, quel mantello che lui le aveva lasciato, d'inestimabile valore, e si detestava ogni volta che, accidentalmente, permetteva ad una lacrima d'evadere dalla ragnatela delle ciglia e di gocciolare sulla stoffa. Perchè quella cappa doveva rimanere pura, incontaminata, impregnato del suo odore, di quel sentore di cenere così lieve, che l'olfatto doveva tendersi in uno sforzo struggente per agguantare...
Quando le sue orecchie udirono, Myrcella credette che si trattasse di voci sporcate dalla sua immaginazione, ad infrangersi in mille echi nella mente bramosa d'inganni, propensa al sogno, e cercò di combattere la sabbia che l'accecava nell'instabile coscienza che ancora le rimaneva, ovvero quella condizione che le permetteva di comprendere di non essere affatto consapevole; in fondo, la ragazza pensava di non essere più in grado di distinguere un suono reale da uno immaginario.
Invece era vero. Vero, Vero. Vero. Vero il picchiettio di zampe sulla pietra, veri i passi sui gradini, vera la sensazione solleticante della lingua di Cagnaccio sulle dita. Vero il suo respiro. Vibrante, un po' accelerato, come se fosse sempre arrabbiato per uno stesso, imperscrutabile motivo.
-Lannister?- Vera la sua voce. Vera e bellissima. E quando la fanciulla lo vide il ricordo, tanto logorato dal continuo volgersi a contemplarlo, ebbe sangue e prese ossa.
Come aveva potuto non accorgersi di quanto bello fosse? Il suo volto, delineato nell'esattezza d'ogni tratto perchè bagnato dal chiarore della candela, provocò nell'interezza del suo corpo una sensazione d'appartenenza, di riconoscimento.
Myrcella s'era alzata sulle ginocchia, per poi drizzarsi in piedi e scivolare a causa dello sfinimento; allora ritentò, e un secondo prima di cadere s'aggrappò alle sbarre.
-... perchè?- bisbigliò soltanto, la voce grattata dalle troppe urla.
Il ragazzo la osservò attentamente, notando un qualche cambiamento in lei, forse nel suo sguardo o forse nel suo atteggiamento.
-Ho avuto da fare con i preparativi dell'esercito. Allenamenti, esercitazioni e robe del genere. Non che io debba renderne conto ad una prigioniera, ovvio...- concluse acido, prima di chiudersi la porta della cella alle spalle. Myrcella si appigliò dunque al suo petto, fissandolo negli occhi, e Rickon -che istintivamente la resse in piedi- si accorse di quanto magra fosse. Pesava quanto un fuscello.
-È stato terribile senza di te.- mormorò, realizzando di aver detto troppo poco, di non aver detto niente. Esistevano parole per spiegare l'eternità che s'era sgranata sotto i suoi piedi? No, dunque poteva esprimere i suoi sentimenti in un solo modo. Con un impeto inaspettato, s'allungò fino a sfiorare le labbra di Rickon e s'abbandonò ad un bacio sventato. Appena riscoprì il profumo della cenere, il contatto di quel corpo contro il suo, il mondo ricominciò a girare.
Rickon era sconcertato come se quello fosse il suo primo bacio in assoluto. La presa d'iniziativa di Myrcella l'aveva spiazzato. Come reagire? Fece quanto gli venne più istintivo, ovvero afferrò i fianchi di Myrcella e la strinse a sè. Anche se non l'avrebbe mai ammesso, aveva sofferto amaramente il fatto di non poterla andare a trovare. Tutte le tensioni della settimana ebbero sfogo in quel bacio, in quell'amore urgente che arse fra la fuliggine, e Myrcella potè prendere ancora il capo di Rickon in grembo e cullarlo e carezzarlo come aveva già fatto.
-Non ti avevo mai vista... così.- commentò Rickon, incapace di chiarire quel comportamento inusuale. Sì, Myrcella si era dimostrata di recente molto più bendisposta verso di lui, ma non gli era mai saltata con le braccia al collo, e non l'aveva mai baciato prima che lo facesse lui.
-Così innamorata, vorrai dire.- Myrcella districava i suoi capelli con le dita, beata, sfinita di gioia. Rickon le lanciò uno sguardo interrogativo.
-In che senso?!-
-Già, è proprio così.- dichiarò la fanciulla prontamente, dopo avergli rivolto un sorriso quasi trionfante. -Io ti amo. Hai capito? Ti amo.-
-Mi ami.- ripetè Rickon, una nota d'ironia scettica nella voce.
-Esatto.- sottolineò Myrcella, senza incertezza. -E anche tu mi ami. Ma non ti preoccupare, adesso: mi preoccupo io, di tutto. Adesso devi solo rilassarti e pensare a dormire e dimenticare le cose brutte. Va tutto bene. Ci sono io qui con te.- cantilenò, disegnando le linea della sua guancia. Trascorsero così le ore, in un silenzio morbido ed esplicativo, fino a che Myrcella non trovò il coraggio di parlare ancora, pur senza essere interpellata.
-Sai, quando mi accorsi che non tornavi, mi venne il dubbio che fossi partito per la guerra senza avvisarmi...- affermò, quasi imbarazzata. Sperava così anche di scoprire qualcosa in più, per esempio quando se ne sarebbero andati, e per quanto tempo.
E la risposta di Rickon non fu certo quella che si aspettava. -Impossibile, dato che tu verrai con me.-
Il giorno dopo, per la prima volta da tempo immemore, Myrcella vide altri due esseri umani; erano due servette, delle ragazzine giovani, dai capelli chiari e le mani spellate dal lavoro. Quando aprirono la cella e le si avvicinarono, con una coperta e un candeliere in mano, la prigioniera indietreggiò con ritrosia finchè non avvertì il muro premere contro la sua schiena.
-No.- boccheggiò. -Non voglio.-
Ma la loro voce era gentile e lusinghiera. -Non vogliamo farti del male. Siamo qui per ordine di lord Rickon. Lui ha detto che tu lo sapevi già, che saremmo venute...-
Myrcella ci pensò un attimo, e in effetti acchiappò un ricordo che forse coincideva con quanto loro stavano dicendo. -Quindi...-
-Ti porteremo da lui.- rispose una delle servette. Dopo qualche istante d'esitazione, con la fronte aggrottata, Myrcella avanzò e permise alle due ragazze di sostenerla fino al corridoio, pur rifiutando la coperta -mai avrebbe rinunciato alla cappa d'ermellino che Rickon le aveva lasciato. Fu terribilmente strano uscire di lì, camminare in quella galleria un tempo tanto agognata ed irraggiungibile, necessario passaggio per raggiungere la meta finale, la libertà. Ma la libertà non era la meta finale, e questo lei l'aveva capito soltanto in seguito. Il primo istinto di Myrcella fu di divincolarsi e tornare indietro, nella cella, al sicuro, dove Rickon sarebbe tornato a trovarla e sarebbero potuti stare insieme da soli, staccati dal mondo intero; però poi riflettè che, se il fatto che lei uscisse era il volere di Rickon, significava ch'era la cosa migliore da fare e bisognava obbedire senza discutere.
Salire i gradini delle scale era atrocemente difficile, in parte per l'aborrimento verso il mondo reale, in parte per l'instabilità delle sue gambe; le ragazze la sostennero pazientemente, accostando la candela agli scalini per aiutarla a non inciampare. Era assurda la maniera in cui la sua dimensione, dalla claustrofobica ristrettezza serrata nelle sue tenebre eterne, si stesse dilatando smisuratamente accogliendo tutto questo. Prima non c'era niente, e adesso stava per esserci tutto, e tutto in una volta.
Appena le scale si conclusero affacciandosi sull'arioso corridoio del castello, Myrcella avvertì i propri occhi tremare, le iridi sgranarsi cieche al cospetto della luce, poi un dolore perforante che le trafiggeva la nuca e sfibrava i nervi, come un dardo avvelenato. Emise un lungo verso animale e schermò il volto con le mani, precipitosamente, avvolgendosi in un buio confortante. Non ricordava che la luce fosse così cruda, violenta. Cattiva. Come aveva potuto anelare a qualcosa di tanto abietto?
-Rickon? Dov'è Rickon?- gemette Myrcella, tentando di divincolarsi. Sentiva più che mai la necessità di aggrapparsi a lui, d'essere cinta dalle sue braccia, ch'erano così forti e sicure...
-Fra un po' ti ci porteremo.- rispose una delle serve gentilmente. -Ma prima dobbiamo sistemarti.-
Un tempo, una schiava che avesse avuto la sfrontatezza di darle del tu sarebbe stata frustata a morte e le sarebbe stata mozzata una mano per punizione. Ma la principessa Myrcella non era più tale, non lì al Nord, dove Bran il Metamorfo era re, Meera Reed regina e il loro figlio principe. Non aveva diritto ad alcun riconoscimento di nobiltà, una Lannister.
Myrcella non riuscì a sollevare il volto dal mantello che la avvolgeva, lasciandosi guidare quasi inerme. Quando era bambina, ad Approdo del Re, aveva sempre creduto che le schiavette che le obbedivano così deditamente lo facessero perchè le volevano bene, le erano affezionate; non ci aveva messo molto per scoprire che, nello stesso modo in cui le cucivano le vesti, le accendevano il fuoco e le preparavano manicaretti d'ogni tipo, sarebbero state altrettanto disposte a strangolarla nel suo letto, se solo fosse stato loro ordinato.
Le serve la condussero da qualche parte, senza che lei vedesse dove, finchè:
-Adesso dobbiamo toglierti il mantello.- annunciò una delle ragazze. Myrcella tentennò, ma finì per acconsentire ad abbandonare la carezza morbida del velluto dalle spalle. Giusto un secondo prima di tapparsi gli occhi, scorse indistintamente il riflesso su un vasto specchio di liquido splendore, sostenuto da due piedi di ferro battuto: le servette reggevano fra le braccia qualcosa di nero, pesto e ritorto su se stesso, ch'ella riconobbe distrattamente come il proprio corpo. Le due la spogliarono di tutto ciò che aveva indosso, con gesti abili e rapidi; Myrcella scostò le mani dal viso per aggrapparsi alle sponde della vasca da bagno, ma tenne le palpebre ostinatamente strizzate.
La sensazione del calore dell'acqua sulla carne la atterrì: una morsa implacabile, che provocava un dolore sconosciuto, frenetico, annullante. Gridò ancora, in preda a quella trappola rovente, e quasi non udì i propri lamenti. Nonostante le proteste, venne calata nella vasca e l'ustione si propagò, aggredendo l'intero tessuto della sua pelle; Myrcella credette che sarebbe morta bruciata viva.
Lì dove una volta gli artigli del dolore avevano infierito, v'era quella cosa strana che lei non riusciva ad identificare: che un tempo avrebbe chiamato benessere, ma adesso era troppo diversa per risultare piacevole. Avvertiva la crosta della sporcizia rammollirsi, sciogliersi e gocciolare via dal suo corpo, piano piano, scavando fino a riscoprire l'antico candore della pelle. Districarono i suoi capelli, ciocca per ciocca; dolci erano quelle mani sulla nuca, ma tale stucchevole sensazione di mitezza e benevolenza, tali moine inutili e smancerose, tali carezze che il destino le stava concedendo, non erano inoffensive: erano atte a demolire la sua difesa, a farle abbassare le armi, a succhiare la sua forza insieme allo sporco. Il profumo che inondava le sue narici era qualcosa di delicatissimo e soave, esotico quanto lo sarebbe stata un'essenza proveniente da Essos o da Volantis, eppure era un unguento qualsiasi, tale quale a quello con cui una volta le sue sguattere la detergevano ogni giorno. Il sapone portava via la cenere, sbrogliava il dolore fino ai muscoli, scuciva il lavoro che la prigionia aveva composto in giorni e giorni. Il freddo saliva fino al soffitto, evaporato dalla sua pelle: non più peculiarità della sua carne, non più abitudine del suo cuore. Il risultato della sua resistenza le scorreva giù dal corpo, precipitando, gorgogliando, insieme al getto d'acqua che una delle ragazze lasciava scrosciare da una brocca sul suo capo. Forse che anche quella forza così faticosamente guadagnata fuggisse celere? No, non era possibile. Nonostante la temperatura dell'acqua avesse scaldato la pelle, il buio aveva impresso le sue cicatrici in quegli occhi dolenti. Quel potere sconosciuto al quale s'era appellata per sopravvivere pulsava come acciaio nuovo, e ci avrebbe pensato il vento del Nord ad irrobustirlo.
-Abbiamo finito.- sospirò una servetta, mentre l'altra accorreva con un telo ad avvolgere il corpo di Myrcella. La fanciulla si arrischiò ad aprire gli occhi, e quel che vide le fece socchiudere le labbra dallo stupore.
Il mondo era diventato... bianco. Tutto era così chiaro e definito... ma davvero la realtà aveva sempre avuto quella limpidezza, anche prima della sua reclusione? Da sempre gli occhi potevano cogliere quei dettagli, quelle minuzie, di cui aveva dimenticato l'esistenza? Davvero i colori erano così festosamente vividi, s'affermavano con tanta prepotenza agli occhi? E davvero osservare il mondo attentamente costava così tanta energia? C'erano troppe cose che s'accalcavano e s'imponevano alla vista.
Poi Myrcella guardò allo specchio. Una fanciulla di latte v'era disegnata, diafana ed eterea come un pensiero sfuggente, e le ci volle un secondo di troppo per identificarla come se stessa. Aveva occhi troppo chiari, d'un verde pallido, ed ella si chiese se per caso l'acqua saponata non l'avesse diluito; le braccia e le gambe erano lunghe, sottili, affusolate, aggraziate come la septa aveva sempre provveduto che fossero, e luccicavano imperlate di gocce d'acqua. Solamente il viso aveva un po' di colore sulle guance, ed era quello sbagliato. Rosso carminio, dolce e tranquillo. Myrcella scoprì che senza la sua maschera di cenere si sentiva vergognosamente esposta allo sguardo del mondo. E i capelli? Non avrebbe mai creduto che i suoi capelli potessero essere così belli. Lievi volute auree ricadevano morbidamente sulle sue spalle, ed erano così scoloriti e deboli che c'erano quasi da temere che il primo soffio d'aria li strappasse via, come petali di soffione.
Non si capacitava d'essere quella; non ci capacitava d'essere ancora quella. D'essere ancora così. E per un attimo ebbe paura, perchè quella assomigliava troppo all'altra Myrcella, la Myrcella pre-Rickon, pre-prigionia, la Myrcella che chiacchierava con Margaery e rideva con Tommen. Un tempo andava piuttosto fiera del proprio aspetto, seppur senza vantarsene: adesso vedeva soltanto una bambina vulnerabile che rispondeva preoccupata al suo sguardo inquieto, sotto ciglia bionde -e non nere. Le sembrava di trovarsi di fronte una vecchia conoscenza, che riportava alla memoria tanti ricordi, ma che avrebbe preferito non incontrare di nuovo. Scoprì di non riuscire più a sorridersi, e pensò che in fin dei conti non era una gran perdita. Era un sorriso compiacente, il suo. Un sorriso come tanti.
Era quanto di più grazioso avesse mai visto. Non di più bello, di più grazioso. Graziosa come un ninnolo inservibile, un accessorio superfluo. E quelle labbra -labbra spaccate dai morsi- si piegarono in una smorfia scontenta.
-Voglio vedere Rickon.- ripetè, questa volta a voce più alta, e le serve riconobbero in quel tono tagliente l'imperio di chi è abituato a farlo dalla nascita.
-Ci sarebbe un abito per te. Non preferisci indossarlo, prima?- domandò una, un po' più in soggezione.
La ragazza annuì con un cenno annoiato. Il vestito era semplice, più da meretrice che da principessa, ma aveva il suo fascino: le sottili spalline si allargavano gradualmente, fino a dividersi nelle due bande del profondo scollo a v, la sua linea era sinuosa e la gonna ampia. Era di colore giallo, squillante come un tulipano, con una cinta e intarsi sul petto color del bronzo, e il tessuto di cui era fatto era increspato, forse organza; lo sfolgorio del vestito attraversava i suoi boccoli, facendoli sembrare di vetro. Fu mentre le serve le stavano acconciando i capelli, che la porta si spalancò in maniera così irruenta da lasciar intendere che il colpevole potesse essere solo uno.
-Me l'avete trattata bene?- latrò quella voce, che tanto disperatamente la sua mente aveva cercato di riprodurre e trasmettere all'udito. E qualcosa d'inaudito accadde dentro di lei, uno spasmo, una tensione, una fitta, e lo riconobbe più prontamente di quando non avesse riconosciuto se stessa, sicuro e limpido così com'era nella cella, unico scoglio in quel mare burrascoso. Udire la sua voce risvegliò mille istinti in lei, che poi erano due, quello d'essere protetta e quello di proteggere; contraddittori, forse, ma dualità divina di quel sentimento che prorompeva dal suo cuore come un urlo insopprimibile.
Myrcella s'alzò in piedi e la gonna ruotò a ventaglio attorno alle sue ginocchia, con destrezza. E nei lineamenti, nel ghigno, nello sguardo di Rickon ritrovò se stessa, quella parte di sè di cui tanto aveva sofferto la mancanza, tremando nuda davanti allo specchio, la fanciulla che non aveva mai pianto di fronte a lui, che aveva avuto il terribile coraggio di dirgli ti amo, senza riuscire a capire come fosse possibile. Era strano. Era tutto tremendamente strano, ma spontaneo come il sorgere del sole. Quando la videro, gli occhi di Rickon rimasero per qualche istante ammaliati dal brillio riscoperto della sua carnagione, della sua chioma. Era preziosa, la piccola Lannister, quasi s'era scordato quanto. Un regale diadema le aveva adornato il capo per tanti anni, in fondo.
E non era solo preziosa, era bella da far male: soltanto occhi duri ed implacabili come i suoi potevano reagire davanti a quell'assalto.
-Rickon...- La fanciulla si precipitò contro il suo petto, premendovi la testa in segno di rifiuto, come se potesse così cancellare la realtà non solamente dalla propria vista, ma dalla propria vita.
-Non affezionarti troppo al vestito, mi raccomando. Tanto te l'ho fatto mettere per il gusto di strapparlo e basta.-
-Riportami giù.- sussurrò Myrcella con voce fievole. -Non mi piace qui.-
Rickon la strinse a sè, e anche questo era ormai un gesto immediato, opportuno. Così era, così doveva essere. -Giù? Vuoi tornare giù?-
-Torniamo giù, io e te. Io e te, da soli. Come prima.- ripetè Myrcella, scostandogli un ciuffo dalla fronte e guardandolo negli occhi con infantile intensità.
Rickon scrollò le spalle. -Non si può. Adesso dobbiamo andare alla sala del trono, per parlare con una persona. Poi verrai a dormire nella mia stanza. Con me.- spiegò conciso.
-Parlare...- sospirò Myrcella, al pensiero di incontrare altre persone che l'avrebbero giudicata con i loro occhi indiscreti.
-Persino a Bran uscirà sangue dal naso quando vedrà quella scollatura.- sghignazzò il ragazzo; quando Myrcella arrossì, aggiunse: -Avanti, era quello che volevi che ti dicessi, no? Che stai bene. E infatti stai benissimo, non c'è bisogno che te lo ribadisca, perchè lo sai. Però ti preferisco di gran lunga senza.-
La fanciulla rise e lanciò una veloce occhiata alle schiave, quasi a verificare la loro reazione. -Ma Rickon, cosa dici...-
Rickon la trasse ancora contro il proprio corpo, cingendo i suoi fianchi, finchè non aderirono quasi completamente. -Non fare la santarellina, adesso, tu!-
Un momento più tardi, le loro risate erano confuse l'una nell'altra. Allora Myrcella si accorse che qualcosa era davvero cambiato in lei, rispetto a prima: si accorse delle proprie cicatrici. Lunghi sfregi a percorrerle i fianchi, a deturparle la schiena, a decorarle le braccia come tatuaggi color del sangue, e che -Myrcella lo sapeva- scendevano anche più in basso, arrampicati sull'interno delle cosce. E il suo collo non più intatto, non più immacolato, ma violato dai denti di un lupo. Queste non le aveva, la Myrcella di prima, puntualizzò trionfante. I suoi erano timori infondati. A prescindere dall'apparenza, dall'aspetto, in quel petto v'era la Myrcella di Rickon. L'acqua bollente non l'aveva lavata via.
Si presero poco meno d'un istante per realizzare cosa stesse succedendo, cosa si fosse sviluppato fra loro, e poi il giovane Stark le porse la mano, a lei, una Lannister. -Andiamo?-
Myrcella l'afferrò fiduciosa. Un nuovo entusiasmo irrompeva nel suo sguardo. -Andiamo.-
Mentre si perdevano nei corridoi labirintici di Grande Inverno, assorti in un silenzio quasi trasognato, una voce li arpionò fermi dov'erano:
-Cosa ci fa lei qui?-
Dall'altra parte del corridoio Osha li fissava, indugiando sulla mano che Rickon aveva serrato al braccio di Myrcella e poi sulla prigioniera stessa, luminosa, calma, serena. Sul vestito nuovo che sostituiva gli stracci, sull'incarnato candido riemerso dalle croste di sangue e cenere. E ancora su quella mano.
Rickon le fece un cenno di saluto sbrigativo. -Siamo di fretta, andiamo da Bran. Devo dirgli che Myrcella viene in guerra con me.-
-Myrcella.- ripetè aspramente Osha, quasi con disprezzo, scoccandogli un'occhiata caustica. -Una volta era l'abominio biondo, e adesso è diventata Myrcella.-
Per qualche secondo, Rickon non rispose e parve quasi preso in contropiede, rendendosi conto di quel dettaglio -che tanto dettaglio non era- soltanto dopo che glie lo era stato fatto notare. Fortunatamente, un'altra persona giunse a salvarlo da tale imbarazzo.
-E così, tu sei Myrcella.-
La giovane Lannister si voltò, meravigliata. Non aveva mai avuto modo di conoscere personalmente quella che aveva sempre ritenuto -e continuava a ritenere- sua cugina, Shireen Baratheon, ma ovviamente aveva sentito parlare di lei e del suo aspetto. L'impatto fu sconvolgente: quello che gli occhi delicati della principessa Myrcella videro fu pelle guasta, squamosa, rattrappita, uno scempio irrimediabile che rendeva il suo viso mostruoso ed il suo sorriso un triste, grottesco scherzo del destino; ma fu con lo sguardo inscalfibile della prigioniera che la valutò, e non percepì altro che un'anima vittoriosa -che da quel destino infausto non s'era lasciata schiacciare.
Shireen avanzava con un'andatura quasi saltellante, e ad ogni passo le lunghe maniche a losanga dell'abito rosa salmone danzavano, in armonia con i gesti vivaci delle mani. I capelli mulinavano dietro le spalle, lisci e fini come una pioggia primaverile che l'alba baciava di rosso, di giallo, e trattenuti dietro la nuca da un cerchietto intarsiato -non cercava di nascondere quelle scaglie, la cui evidenza sarebbe rimasta lo stesso ineccepibile, ed anzi ancora più imbarazzante. La sua era una strana eleganza, ed il suo era un sorriso offuscato -come una flautata menzogna a cui, nonostante la disperante volontà di farlo, non si riusciva a credere mai del tutto. Shireen si fermò soltanto quando fu ad un passo da Myrcella, e il suo sorriso si fece ancora più largo.
-Mi avevano detto ch'eri bella, ma non immaginavo così tanto. Sei davvero stupenda!- considerò deliziata, un luccichio d'ammirazione nello sguardo, mentre le prendeva delicatamente una mano, la sollevava in alto e la invitava a fare una piroetta su se stessa. Myrcella sorrise incerta. -Molte grazie...-
A quel punto intervenne Rickon. -Stupenda,- concordò, sciogliendo le mani intrecciate delle due fanciulle ed impossessandosi nuovamente di quella della giovane Lannister, -ma non condivisibile.- concluse con un ghigno, mentre la attirava a sè. Il sorriso di Shireen non s'affievolì: piuttosto guardò il ragazzo con un'espressione eloquente, quasi gongolasse che ti avevo detto?
-Oh, non erano queste le mie intenzioni. Non mi permetterei mai.- lo rassicurò briosamente. -Soltanto, sono lieta d'incontrarla qui con te. Temevo che l'avresti tenuta là sotto per sempre. Perdonate la mia maleducazione. Ad ogni modo, io sono Shireen...-
-... principessa Shireen.- precisò Myrcella. -A questo mondo, bisogna avere ben chiaro il proprio posto.-
Si voltò speranzosa a cercare la reazione di Rickon con lo sguardo, sorseggiando l'approvazione come nettare, e si strinse sollecita al suo fianco -per mostrarglielo, guarda dov'è, il mio posto.
Forse fu allora che iniziò il cammino di Rickon verso quel perdono senza assoluzione, perchè in fondo doveva essere egli stesso a concedersi il permesso di farlo.
Quando si girò verso il corridoio in cerca di Osha, però, soltanto il vuoto rispose ai suoi occhi turbati.
***
Alayne Stone non aveva onerosi impegni durante la giornata, per cui avrebbe potuto benissimo prendersela comoda al mattino ed alzarsi tardi, però l'ora che le era più congeniale per alzarsi, vestirsi e passeggiare per Nido dell'Aquila era proprio l'alba. Probabilmente era una vecchia abitudine ereditata da Sansa, alla quale venivano imposti, per svegliarsi e compiere le consuete occupazioni mattutine, orari rigidi come il clima del Nord; ad ogni modo alle sei il sonno aveva già abbandonato le sue palpebre, e lei poteva alzarsi in punta di piedi, lavarsi nel catino in camera con brocche d'acqua calda preparate per lei dalle serve, posizionarsi davanti all'armadio per scegliere uno fra i suoi abiti di pacata, leziosa sobrietà, pettinare di buona lena e con metodo la lunga chioma del colore delle foglie autunnali, acconciarla in morbide trecce allentate e languide, ed infine uscire, sempre senza fare il minimo rumore sulla piastrelle di pietra, fresca e leggiadra come un'ombra.
Quel mattino le sue intenzioni erano le stesse. Appena pronta, voleva andare a controllare che le fosse stata recapitata la lettera con gli aggiornamenti circa l'esercito di re Tommen e ragionare sul da farsi; però a quanto pare il fruscio che produsse scostando le coperte fu un po' più rumoroso del solito, o forse era il suo sposo a dormire un sonno più leggero. Robin contrasse le palpebre e le sue sopracciglia scattarono ad incontrarsi, poi schiuse le labbra e mugugnò.
-Alayne...-
La moglie sorrise. -Sono qui, mio signore. Come ti senti quest'oggi?-
-Non lo so.- brontolò il ragazzo. Dormiva sempre a pancia in su, spesso senza vestiti, perchè la sera si lamentava di avere caldo; poi durante la notte gli veniva freddo, quindi si stringeva addosso le lenzuola. -Rimani con me, Alayne. Passiamo la giornata qui.-
Alayne ridacchiò. -Qui? Ma ci sono delle cose da fare...-
-Al diavolo le cose da fare! Sono il lord qui dentro, oppure no?- Tese il braccio, agguantò la sua sposa e la spinse di nuovo giù, sul materasso, accanto a lui. Poi, con un sospiro voluttuoso, si appoggiò al suo petto e riabbassò le palpebre. -È talmente bello stare con te. Molto meglio che parlare con quell'ammasso di idioti. A proposito, volevo parlarti di... di un certo argomento.- concluse titubante, slacciandole i primi bottoni della camicia da notte. Le guance di Alayne s'imporporarono appena.
-Dimmi pure, Pettirosso.-
-Tuo padre ti ha mai detto cose strane? Oppure ha espresso propositi balzani nei tuoi confronti?- domandò Robin, con grande sorpresa della moglie.
-Non capisco.- ammise. -Cosa intendi per strani e balzani?-
Robin rinunciò ai giri di parole. -Ha mai abusato di te?- chiese con calma piatta, mentre i suoi polpastrelli proseguivano ad armeggiare con i bottoni.
Alayne scoppiò a ridere incredula. -Che cosa? No, certo che no. Cosa te lo fa pensare?-
Petyr Baelish era decisamente un uomo troppo intelligente e raffinato per fare certe cose, e lei... lei non era più una ragazzina indifesa ed inerme. Non era più un uccelletto canterino. Che Robin avesse intuito l'attrazione che Ditocorto provava nei confronti di sua moglie?
-Le tette.- ribattè Robin. -Ti guarda di continuo le tette. Probabilmente lo fa così spudoratamente perchè pensa che io sia un cretino e non me ne accorga, ma ne ne accorgo eccome. Ogni volta che lo fa, mi viene una gran voglia di staccargli gli occhi.- borbottò, infilando una mano nella sua camicia da notte.
Alayne sorrise fra sè, simulando scetticismo. -Ti devi essere sbagliato, per forza... Mio padre è una persona perbene, non lo si può mettere in dubbio. D'altronde aveva sposato tua madre.-
Si era accorta delle attenzioni di lord Baelish dopo circa un anno di convivenza a Nido dell'Aquila. Era innegabile che provasse qualcosa nei suoi confronti, probabilmente per via della somiglianza con Catelyn: era un po' inquietante, anche un po' triste, però non poteva fare a meno di esserne lusingata. La timidezza la lasciava a Sansa Stark, quella ragazzina sempre pudica e vergognosa. Alayne era una donna, ed in quanto tale la corte degli uomini, così come la loro lussuria facile, non la spaventava più.
-Anche tu mi dai del cretino, allora?- s'offese Robin, lanciandole un'occhiata indispettita. -Non erano certo occhiate fraintendibili. Mi stupisco che non te ne sia accorta tu stessa... Però tu sei mia, solo mia, e nessuno ti deve guardare, a parte me. Ormai non sei più di tuo padre. Non ne ha il diritto.-
Dopo quel petulante ribadimento, il lord di Nido dell'Aquila cominciò a percorrere maliziosamente l'indice lungo la linea dei suoi seni.
-Sì,- sussurrò Alayne, docilmente, socchiudendo gli occhi al suo tocco, -mio signore.-
Robin sorrise, con aria d'approvazione. I suoi occhi castani ammiccarono d'un lucore umido. -Ti tengo quassù nascosta, al sicuro, eppure mi chiedono lo stesso di te. Come ieri...-
Alayne cercò di rimanere lucida abbastanza per porre la domanda che in quel momento le stava a cuore, anche se suo marito le stava strofinando un capezzolo tra le dita.
-... ie... ieri? Non mi... non mi hai detto nulla, mio Pettirosso...-
Lui non parve molto interessato alla questione e tagliò corto. -Un artista, abbastanza famoso nella Valle, chiedeva di poterti fare un ritratto. Un ritratto! Che sfrontatezza! E non un ritratto che rimanesse qui, a decorare il nostro salone, ma da portare giù, a mostrarlo a tutti... La tua bellezza andrebbe celebrata, sono d'accordo, ma sono troppo geloso di te per permetterlo. Ho fatto bene a mandarlo via, vero?- Sollevò lo sguardo fino ad incontrare quello di Alayne, che si affrettò ad annuire.
-Ma ce... certo, mio signore...-
Intanto ragionava fra sè: le pareva strano che un artista qualunque venisse così dal nulla a chiedere di poterla ritrarre. Di solito i pittori bisogna ingaggiarli. Che ci fosse dietro lo zampino di qualcuno? Beh, il pericolo era stato comunque scampato, per fortuna. Finchè Robin avesse rifiutato di far dipingere il volto di sua moglie, nessuno, fra le poche persone che l'avevano vista o conosciuta in quell'altra vita, poteva ricondurre la misteriosa lady Protettrice della Valle alla fuggitiva figlia di Eddard Stark. Però era angosciante l'idea che qualcuno potesse interessarsi a svelare la sua identità... In tal caso, cosa sarebbe potuto succedere?
-Dicono che la guerra è incominciata. Che i preparativi sono conclusi e gli eserciti stanno per scontrarsi.- commentò Robin, pigramente. -Quelle donnine scalognate sono lì, a rischiare che i loro figli e mariti non tornino a casa e che i loro villaggi vengano rasi al suolo dal nemico, a patire la fame, e tu sei qui con me in questo grande castello, e avremo un bel bambino che si chiamerà Artys Arryn, come il Cavaliere Alato. Siamo fortunati ad averci l'uno per l'altra, vero Alayne?-
La ragazza sorrise, intenerita da quelle parole. -Naturalmente, amore mio.-
Sentirsi chiamare amore mio doveva piacergli davvero molto, perchè affondò le dita nei suoi capelli e la baciò con impeto. Alayne, mentre lo circondava con le braccia, si chiese quanto si sarebbe infastidito Baelish a vederli, in quel momento, ed una strana eccitazione la pervase. Povero il mio piccolo maritino inconsapevole, pensò -e non poteva immaginare che Robin, alla luce delle nuove considerazioni, cominciava effettivamente a sospettare che le origini di Alayne non fossero quelle che gli erano state riferite.
E non poteva immaginare nemmeno che quel rifiuto del ritratto, che a suo parere era stato la sua salvezza, l'aveva calata in un nuovo tunnel di guai.
***
-Questa è la parte più diverte dell'architettare strategie contro il nemico.- Tyrion Lannister giocherellò lieto con un calice di vino. -Valuti il suo esercito, e scopri che potrebbe essere più numeroso del tuo. Indaghi le sue capacità, e scopri che è un metamorfo dallo sguardo assassino. Sbirci nel suo letto... e per lui è finita.-
Aveva sempre saputo che la prima debolezza di un uomo è quella della sua carne, ma non avrebbe mai immaginato che anche gli Stark potessero essere soggiogati dalle grazie della concupiscenza. Gli Stark, che adempiono sempre al loro dovere con lo stesso zelo con cui pregano i loro dèi senza dolcezza. Ma avrebbe dovuto aspettarselo: tutto era cambiato, tutti erano cambiati. Nella luce obliqua di quel pomeriggio nervoso, era ancora più vero. Era stata Shae a rivelargli quello che nelle bettole si raccontava del Re Metamorfo, e gli era stato sufficiente approfondire un po' la questione per avere un chiaro quadro della situazione. Tyrion non aveva mai imparato dall'esempio di Tywin Lannister: se il padre al posto suo si sarebbe concentrato su schemi bellici e previsioni lungimiranti quanto inutili, il Folletto preferiva studiare l'avversario ed indagare i suoi punti deboli, smontando l'epicità della sua figura pezzo per pezzo.
-A quanto pare, il nostro tenero re del Nord si fa il cognato che, guarda un po', si dice abbia doti profetiche. Sono piuttosto scettico al riguardo, certo, però se esistono loschi individui che uccidono con la forza della mente, esisteranno anche gli indovini. In tal caso sarà necessario scoprire quanto efficaci siano, questi poteri, perchè se arrivasse a prevedere le nostre mosse saremmo nei guai fino al collo. Intanto, ciò che conta è screditare Stark e rovinarlo agli occhi del popolo, magari levandogli anche qualche alfiere qua e là, il che non sarebbe affatto male...-
Tommen Baratheon si agitò scomodamente sullo scranno che gli era riservato nel Concilio Ristretto, tormentando con le dita il lungo orlo d'una manica di seta cruda. Lo sapevano i Sette Dèi, quanto odiasse rimanere confinato in quelle mura muffose a parlare di efferati omicidi e brogli strategici, circondato da vecchi avidi e menti calcolatrici. Una strana gravità buia s'opponeva al suo buonumore, come se la sola decisione di andare alla guerra volesse invecchiarlo, comprimerlo al suolo, violarlo, privandolo d'una verginità morale che aveva mantenuto fino a quel momento. Ma a lui non interessavano per nulla i dissapori e i complotti, voleva soltanto riavere indietro Myrcella: pensando ad un'eventuale vendetta, era l'acuta stizza verso Rickon Stark a punzecchiarlo, perchè contro Bran Stark non aveva nulla; anzi, ricordava bene quando all'epoca il piccolo Stark aveva avuto quel brutto incidente, quanta pena egli aveva provato per quel bambino inchiodato a letto, avvolto fra le lenzuola come in un sudario. Ridatemi mia sorella e vi lascerò in pace, avrebbe voluto urlare Tommen, a voce così alta da farsi udire dall'altra parte dei Sette Regni; la sua era forse vigliaccheria? Non era la paura per la sorte che l'attendeva a frenarlo, quanto l'idea di stare trascinando la propria famiglia in una faida dalla quale era appena uscita, vincitrice ma zoppicante, di danzare invocando la pioggia non appena s'intravede il sole all'orizzonte. Aveva già vissuto una guerra, sebbene dietro paraventi d'oro, e ricordava cosa significa per il popolo: tasse ingenti, quindi miseria, quindi fame e morte. Famiglie decimate, donne obbligate a prostituirsi, frotte di orfani che si contorcevano per i crampi allo stomaco. Non era a queste condizione che voleva regnare, Tommen.
-Non capisco cosa possa importarci, zio,- ammise infine, quasi tristemente, -e cosa possa importare a tutti gli altri.-
Tyrion incise gli occhi limpidi di suo nipote, e si chiese quanti morti avrebbe dovuto seppellire per scoprire che cos'è l'odio. Non capiva, il giovane Tommen: il problema era proprio questo. Non concepiva l'iniquità perchè non si era mai trovato nella situazione di doverla assoldare per i propri servigi, sfruttare per i propri fini, generare per al propria salvezza. Se il popolo non si era accorto che a sedere sul Trono di Spade era un grazioso soprammobile di porcellana, era soltanto per merito di Tyrion. Ma chi potrebbe mai riconoscere i meriti di un nano deforme?
Mi detesterà. Devo traviare una delle poche persone disposte a volermi bene, e per di più indurla a detestarmi con tutte le sue forze, perchè l'ho derubata d'un sogno.
-Lo sai come si definisce l'operazione che ho intenzione di mettere in atto? Detrazione, e ha uno scopo ben preciso, che è quello di persuadere la folla a disconoscerlo come sovrano. Come possono gli uomini del Nord farsi guidare da un piccolo frocetto rachitico? Come si può ritenerlo degno del suo trono? Come si può ascoltare le sue proteste, accogliere la sua rivolta? Queste sono le domande con cui verrà assillato il popolo dei Sette Regni, da adesso in poi. Vedremo con quanta baldanza irromperà ai tornei e sguinzaglierà il suo fratellino mangiauomini, dopo che nessuno potrà schierarsi dalla sua parte senza beccarsi l'accusa di portarselo a letto.- concluse, inarcando un sopracciglio.
-Non sono d'accordo. Mi sembra una cattiveria inutile.- confessò Tommen, a disagio. -Lo so, è strano che Stark preferisca un maschio a sua moglie... ma cosa c'entra? Ciò non significa per forza di cose sia inferiore agli altri. Io, poi, non mi sento in diritto di dir nulla a nessuno...-
Tyrion dovette trattenersi dallo sbuffargli sonoramente in faccia. Quel ragazzino non aveva la più pallida idea di cosa fosse non solo l'astuzia opportunistica, ma persino la dignità reale, la fierezza della corona. Dovette prendere un bel respiro, prima di iniziare il discorso con tono pacato e conciliante.
-Caro nipote, sono assolutamente d'accordo con te. Non è in base a chi ci portiamo a letto che viene determinato il nostro valore. Però tu non devi pensare più di tanto al contenuto della missiva, quanto al destinatario. Il popolo è ignorante, tradizionalista, restio ad accettare la diversità, limitato nelle sue anguste convinzioni plebee, e soprattutto suggestionabile. Si lascia influenzare da qualsiasi cosa un regnante affermi: è irrilevante ciò che tu pensi di te stesso, perchè il popolo ha già una precisa opinione, cioè che, oltre a vantare tutti quei graziosi riccioletti dorati, hai sangue di re nelle vene e per questo hai sempre ragione, a prescindere dal messaggio che comunichi. Se tu screditerai apertamente la sua condotta amorale e perversa, di conseguenza tutti saranno portati a screditarla a loro volta, o almeno a prendere in considerazione la faccenda. Insistendo su questo punto riusciremo sicuramente ad ottenere dei risultati, anche perchè tutti sanno che non si tratta di calunnie ma della pura verità.- Non appena notò l'espressione confusa di Tommen, niente affatto confortato da quelle parole, Tyrion sbattè i palmi delle mani con un tonfo su tavolo, per dare enfasi a ciò che stava per dire, con voce spazientita. -È fondamentale che tu capisca questo: l'obiettivo non è rispettare la sensibilità di Bran e comportarsi onestamente, non è spargere petali di pace e solidarietà e dichiarare ciò ch'è giusto. Non siamo bravi bambini che giocano insieme. Brandon Stark non vuole fare soltanto un po' di rumore, abbattere qualche soldatino a cui erigere un monumento, per poter essere dimenticato senza troppi rimpianti. Vuole scaraventarti giù dal trono, stuprare tua moglie, sbrindellare tuo figlio e annegare nel sangue la tua stirpe. Davvero pensi che sarebbe proponibile ignorarlo, dargli un contentino, firmare un accordo e spedirlo a casa?! Ormai è troppo tardi per la diplomazia! L'unica cosa che puoi fare è difenderti attaccando, perchè è questo che fanno i re. Bisogna vincere a qualsiasi costo, Tommen, annientarlo in qualunque modo. Calunniarlo senza riguardi. Spargeremo la voce che si fotte anche il fratello cannibale, se servirà a distruggerlo.- Pur essendo quasi senza fiato, per ultimo Tyrion fece leva su ciò che sapeva stargli più a cuore. -Insomma, vuoi che Myrcella venga liberata, sì o no?-
Vide l'espressione angosciata di Tommen e i suoi sospetti si avverarono: quelle proteste erano alibi qualunque. Era alle fauci dello spettro della guerra che il giovane re si stava negando. In fondo, era ben determinato a non farselo strappare così, quel sogno. Quando egli parlò ancora, la sua voce era diversa: pallida, sfibrata.
-Fra poco avrò un figlio, zio Tyrion. Per lui e Margaery voglio la pace, non la guerra. Voglio essere felice con loro e basta. È chiedere davvero troppo?-
Supplicante era quello sguardo, e Tyrion s'apprestò a piegarlo sotto la calma crudele della sua pronta risposta.
-No, non è chiedere troppo, in effetti.- asserì meditabondo, annuendo fra sè, quasi che valutasse seriamente la situazione per la prima volta. -Se sei un fabbro, un falegname, beninteso. Per un re?- Gli occhi di Tyrion calarono come una scure sul viso sconsolato di Tommen, con inesorabile lentezza. -Per un re, è chiedere l'impossibile.-
Nel frattempo, nelle proprie stanze, Margaery Tyrell attendeva un responso. Coricata sul vermiglio letto a baldacchino dove quello stesso erede era stato concepito, osservava con visibile inquietudine ogni movimento eseguito dalle mani della levatrice, che l'avrebbe assistita quando avrebbe dato alla luce suo figlio; la donna le palpava garbatamente il ventre, cercando d'indovinare con le dita la forma del piccolo.
-Vi riposate a sufficienza?- domandò infine.
-Ovvio.- rispose la regina, sentendosi quasi insultata dal fatto che potesse essere insinuato il contrario.
-Mangiate abbastanza?-
-Ma certamente. E anche con grande varietà.-
-Mi sembra che sia tutto regolare, mia signora.- decretò infine la levatrice, perplessa. Margaery battè le ciglia, contrariata.
-Come può essere tutto regolare? Provo dei dolori particolarmente forti, quando scalcia, che mi tolgono il respiro, a volte mi fanno urlare. E lo fa così rapidamente... in successione, senza fermarsi. È un dolore anomalo, che non avevo mai provato durante il resto della gravidanza. Eppure non ho perdite di sangue, nulla che lasci presagire una... complicazione.-
-Tutto va come deve andare.- la rassicurò la donna, con un sorriso. -È naturale che, a così breve distanza dal parto, il bambino si agiti come mai prima. I dolori che avvertite sono soltanto un buon auspicio, indicano che è forte. Sta assumendo la posizione più opportuna per venire al mondo. Rilassatevi, Maestà: tutta quest'ansia non può che danneggiarvi.-
Nonostante le consolanti parole, Margaery s'accorse che c'era qualcosa che non convinceva del tutto la levatrice.
-Non posso provvedere in nessun modo?- insistette.
-Muovervi il meno possibile e prendere qualche decotto per rilassarvi, sono le uniche raccomandazioni che mi sento di rivolgervi.-
Detto questo, la donna l'aveva lasciata sola con le sue ancelle. Margaery si alzò faticosamente in piedi, puntando di riflesso una mano sulla schiena per stabilire l'equilibrio, l'altra con precauzione sulla cima del ventre alto e sodo, a colmare l'abito marrone, impreziosito da arabeschi in oro.
-Voglio che mi vengano confezionati almeno due vestiti più larghi: questi sono già diventati troppo scomodi. Preparatemi un infuso di tiglio, biancospino e lavanda, come ieri, e... un bagno caldo.- decise sospirando. Aveva dovuto fare gli onori di casa e partecipare ad un banchetto, quella mattina, sforzo che si era rivelato fin troppo spossante per lei. Ma non avrebbe potuto mancare: una brava giocatrice non abbandona mai l'attenzione dalla scacchiera, specialmente quando sa che si presenterà l'occasione di tramare qualche sviluppo. Il suo bambino non glie l'aveva perdonato, però. Un giorno capirai, pensò Margaery, dando un buffetto affettuoso alla pancia, e sarai tu a partecipare a questo gioco al posto mio.
Prima che le serve potessero correre per obbedire agli ordini,
-Maestà, lord Varys chiede d'essere ricevuto da voi. Siete in condizione di farlo?- domandò una ragazza.
Margaery chiuse gli occhi e si massaggiò velocemente le tempie. Assolutamente no, che non ne era in condizione, ma sapeva bene che rifiutando avrebbe perso l'occasione d'un colloquio molto interessante. -Fallo entrare, Millicent.-
Il Maestro dei Sussurri fu annunciato come al solito dal sospiro delle sue babucce di seta sul pavimento di marmo.
-Permesso. Salve, Maestà: siete sicura che la mia visita non vi abbia importunata?-
-Come potrebbe?- si limitò a sorridere Margaery, con un ampio cenno della mano. -Siediti, ti prego. Voi sapete cosa dovete fare.- si rivolse poi alle ancelle, che uscirono in gran fretta.
Quando rimasero soli, Varys intrecciò le dita sotto i vasti orli ricamati della tunica; il suo viso liscio aveva un'espressione bonaria, serafica, appena un po' ironica.
-Come sta il nostro tanto sospirato erede? In città non si parla d'altro che della sua nascita. Si mormora che per festeggiarla verrà indetto il banchetto più sontuoso a memoria d'uomo, che verrà dimenticato lo stato di guerra e la difficoltà economica, che non si baderà a spese. Ormai la guerra è alle porte della città e di ciascuna delle nostre case.-
-Così pare, mio buon Varys. Non si può più fare finta di non vedere cosa sta accadendo. Ci hanno trascinati sul patibolo d'un conflitto inevitabile. Ora che il nostro buon sovrano vuole partire, poi, le preoccupazioni aumentano giorno per giorno. - commentò Margaery, mostrando in volto una costernazione che non provava. -Comunque l'erede gode d'ottima salute, e ben presto tutti potranno ammirare il banchetto con i loro occhi. Non sarà un banale ricevimento per aristocratici: la festa dev'essere tale per tutti gli abitanti di Approdo del Re, e ugualmente il banchetto.-
-Nessuno dubita della vostra innata generosità, Maestà. Nonostante il riposo a cui siete costretta per via del vostro stato, però, non mi sembra che abbiate cessato d'ordire nuove trame per questo nostro tribolato regno. O mi sbaglio?- Varys la rivolse quel suo sguardo di caustica, carezzevole, benevola beffardaggine. -Certi uccellini mi hanno riferito che avete inviato una lettera, di recente, ad Alto Giardino... a vostro fratello Garlan, magari?-
Margaery esaminò l'ameno sorriso di Varys, imprecando mentalmente. Come accidenti aveva fatto a saperlo? Quell'eunuco a volte la esasperava sul serio. Come sempre, nascose impeccabilmente il proprio allarmato sconcerto dietro una maschera di sogghignante tranquillità: l'importante non è avere perennemente la situazione sotto controllo, ma far credere agli altri di averla, così le aveva insegnato sua nonna Olenna.
-Sono stata a dir poco sciocca a credere di poterti tenere nascosto qualcosa.- replicò con voce leggera e divertita. -Ebbene sì, Garlan ci farà questa sorpresa. Ci verrà a trovare e mi starà accanto, durante l'assenza di mio marito... È stato un bel gesto da parte sua.-
Varys scosse la testa, con un'espressione quasi intristita. -Mia cara regina, non temete per la vita di vostro figlio? Come tutti i giochi a cui giocate, questo è pericoloso, ed in particolar modo. Potreste essere accusata di cospirazione, di tradimento, potreste essere addirittura ripudiata. Credete forse che non desterà sospetti l'arrivo di un esercito proveniente da Alto Giardino che non partirà con re Tommen, ma si stabilirà ad Approdo del Re?-
-L'esercito ci serve, obiettivamente. Sì, sono necessarie tutte le truppe a disposizione per questa guerra, non lo metto in dubbio, però anche la capitale va protetta. La sede del potere dev'essere premunita adeguatamente. La venuta di mio fratello verrà interpretata come un servizio a favore del re.- argomentò Margaery, inquieta, ed entrambe le sue mani corsero a cullare il ventre prominente. -Il mio bambino starà benissimo. Non permetterò che gli accada alcunchè, soprattutto non per colpa mia. Sono sua madre. È crudele da parte tua credere che farei qualcosa per metterlo in pericolo.-
Sarebbe stato un insediamento graduale, subdolo. Prima uno dei loro uomini sarebbe diventato Capo delle Guardie, poi un cugino Maestro del Conio, un altro Maestro della Flotta, e infine Garlan Mano del re. Le loro intenzioni non sarebbero state comprese, se non troppo tardi: alla Fortezza Rossa non sarebbe rimasto un solo Lannister.
-Non era assolutamente mia intenzione offendervi.- ribattè Varys, condiscendente, con un sorriso affabile. -Il mio voleva essere un avvertimento. Mi stavo accertando che voi sappiate quel che state facendo, ma a quanto pare vi ho sottovalutata, perchè come sempre è così. Mi sta a cuore la vostra salvezza, mia regina. Sarebbe un vero peccato se mandaste in fumo tutto quanto per l'ambizione della vostra famiglia.-
Margaery incontrò suo marito alcune ore dopo. Tommen aveva gli occhi cerchiati di nero e le pupille arrossate, un bambino costretto a sostenere sulle spalle tutta la consapevolezza mancata negli anni in una volta, aggrappato ai brandelli di una scenografia bucata, attraverso la quale la realtà si faceva largo come un mostro da sotto il letto.
-Quando?- domandò la regina.
-Fra tre giorni. Mi dispiace.-
-Lo so.-
Secondo il volere di Tyrion, che ritenne ovviamente indispensabile seguire il nipote, Margaery sarebbe stata regina reggente durante la loro assenza, affiancata però -così che la poverina non si stanchi troppo- da Podrick Payne, come sostituto ufficiale della Mano del Re, in assoluto una delle persone di cui Tyrion si fidava di più. Certo, non è provvisto di quella furbizia malevola che permette di avere il potere qui dentro, ma proprio perchè non l'ha so che mi posso fidare. Salutando il Folletto, Margaery gli rivolse un meraviglioso sorriso: d'altronde, a Margaery Tyrell non serviva che il proprio sorriso per odiare. Me lo rigiro come un calzino, il tuo amichetto, bisbigliavano le sue labbra incurvate.
E tre giorni dopo, un elmo dorato calato sul volto per non mostrare gli occhi colmi di lacrime, rallentato dall'urna delle ceneri del suo paradiso bruciato, Tommen Lannister venne inghiottito da quel mondo vorace che, là fuori, non aspettava altro che di poterlo divorare.
***
Rickon osservò per bene i volti di tutti i presenti, quello corrucciato ed altero di Selyse Florent, quello truce ed adombrato di Stannis Baratheon, quello guardingo e compassato di Jojen Reed e quello aggrottato ed impensierito di Meera, fino a soffermarsi su suo fratello.
Fece un passo in avanti. -Sposerò Shireen Baratheon.- scandì a voce alta e chiara.
Gli occhi di Bran sussultarono e la sua espressione rimase sospesa in uno stupore immobile. -Siano ringraziati gli dèi...-
-... ma non prima del nostro ritorno dalla guerra.- Rickon completò la frase, quasi compiaciuto all'idea di strappare dalle mani di Bran una falsa speranza.
Il re del Nord subito s'afflosciò sotto il peso di quell'ultima affermazione. -C'era da aspettarselo. Ho cantato vittoria troppo presto.- deplorò sè stesso con una smorfia di disapprovazione.
Stannis Baratheon scattò, impermalito, avanzando di qualche passo. -Gli accordi non erano questi!- sbottò d'un fiato.
-Gli accordi li stabilisce chi ha l'esercito, quindi, se non ti sta bene, ti conviene rivolgerti a quell'altro re disposto ad allearsi con te, offrirti un milione di uomini e piazzarti sul Trono di Spade...- Rickon assunse un'ironica espressione di sorpresa, come rammentasse qualcosa all'improvviso. -Oh, aspetta, non esiste.-
-Gli accordi li stabilisce chi ha l'esercito,- ripetè Bran, digrignando i denti, -e l'esercito ce l'ho io, non tu.-
Rickon s'irrigidì e battè un piede sul marmo del pavimento con impazienza. -Quindi stiamo parlando del mio matrimonio, e non dovrei avere nemmeno voce in capitolo?! Che cosa vi costa accettare l'unica condizione che chiedo?- s'esasperò.
-Il matrimonio fra te e Shireen mi dimostrerà che mi posso fidare a scendere in campo dalla vostra parte.- tagliò corto Stannis, sferzante. -E non sono disposto ad accettare nessuna condizione su questo punto.-
-Anche se la cerimonia verrà celebrata al termine della guerra, sarà la stessa cosa.- insistette Rickon. -Adesso Shireen rimarrà a Grande Inverno come ospite, e le nostre famiglie saranno lo stesso legate dal vincolo del fidanzamento. Uno Stark non infrangerà mai le leggi dell'ospitalità. Per chi diamine ci avete preso, per i Frey?!-
Stannis Baratheon ridusse gli occhi a due fessure. La sua espressione era imperscrutabile; impossibile ipotizzare cosa pensasse a proposito.
-Allora ti rivolgo la stessa domanda. In che modo dovrebbe fare differenza, per te, sposare mia figlia adesso o dopo la guerra?- domandò freddamente.
Rickon parve già aver pensato all'eventualità di tale richiesta e ad una replica appropriata. -Innanzitutto, sarebbe un matrimonio organizzato alla bell'e meglio, in tutta fretta, e non ci sarebbe nemmeno il tempo per festeggiare come si deve, così come non ce ne sarebbe per adempiere ai nostri doveri coniugali. Come si può brindare e fare bisboccia, all'idea che il giorno dopo partiremo per una guerra? È di pessimo gusto. Il principe di Grande Inverno e la regina dei Sette Regni meritano qualcosa di meglio che uno stringato ricevimento imbandito in preda alla malinconia generale, non credete?-
Lo sguardo di Rickon si fermava su Selyse, perchè egli la sapeva la più riluttante da questo punto di vista. Essendo la madre della sposa, avrebbe naturalmente desiderato per la sua unica figlia un matrimonio straordinario, in pompa magna, carico di fasto e lusso, e avrebbe desiderato progettarlo con calma e dovizia di particolari, curarlo sotto ogni aspetto, invitare lord e lady da tutti e sette i regni, e soprattutto avrebbe voluto che per Shireen fosse il giorno più bello della sua vita, non un ansioso rituale recitato a voce bassa e frenetica, l'ombra della guerra a sibilare il suo fiato gelido sulla nuca degli invitati, essa stessa ospite e commensale. E quale madre avrebbe sopportato l'idea che la figlia venisse sposata, sverginata e abbandonata per mesi, nella peggior ipotesi per anni?
Rickon rincarò la dose, con un sorriso subdolo. -Non sarebbe inoltre significativo se il matrimonio fosse celebrato nella Fortezza Rossa, anzichè in questo vecchio maniero pieno di spifferi, dimenticato dagli dèi, per dimostrare al popolo che la vera dinastia dei Baratheon ha conquistato il trono e che il palazzo di Approdo del Re è la sua casa? Per farsi acclamare ed osannare dalla folla? Per bene augurare quest'unione e coloro che vi regneranno dopo di noi?-
Selyse Florent era incantata dall'immagine che le parole del ragazzo stavano proiettando nella sua mente. La Fortezza Rossa, grande, magistrale, e Shireen che ne percorreva la navata, con quel vestito dorato indosso e la cappa con ricamato il cervo dei Baratheon sulle spalle...
Evidentemente, Stannis aveva inteso il gioco del giovane Stark; stava contraendo la mascella in una maniera tale, da evidenziare il fatto che tutti quei trastulli non l'avevano smosso di un centimetro dalle sue convinzioni. Anche Bran dal suo scranno pareva piuttosto scettico.
-Bene, e adesso abbi il coraggio di dire con la stessa sfacciataggine qual è il vero motivo per cui vuoi sposarti dopo invece che adesso.- ribattè, lo sguardo torvo. Lo sapeva benissimo, lui, qual era. Rickon accolse la sfida e sorrise.
-Se proprio ci tieni. Fatela entrare.- ordinò, voltandosi verso le guardie schierate davanti alla porta. Quando le due ante si socchiusero, la sagoma di Myrcella si stagliò sulla soglia e la fanciulla procedette nel salone riecheggiante. Pur essendo visibilmente debilitata dalla prigionia, il forme del suo corpo colmavano il vestito giallo come avrebbero dovuto fare, e c'era qualcosa di morbido nella sua figura sinuosa, nella linea dei fianchi e persino nella distensione del viso. Camminava come in stato d'incoscienza ed il suo sguardo s'orientava fisso su un'unica persona, senza degnare della minima attenzione tutti gli altri. La sua presenza lì sembrò a tal punto inverosimile da paralizzare i presenti, come un'apparizione spettrale. Il vento del Nord rese ghiaccio i loro respiri.
-Come hai potuto portare al nostro cospetto questa sgualdrina?- strillò Selyse, indispettita, evitando bellamente di guardare Myrcella e rivolgendosi furibonda a Rickon.
-Non è una sgualdrina qualsiasi.- replicò lui, beffardo. -È la mia sgualdrina. Mia e mia soltanto. È stata con me e nessun altro, in fin dei conti. E il motivo per cui sposerò Shireen dopo la guerra è che per tutta la durata della campagna militare voglio sbattermi la qui presente a piacimento, senza che mi rompano le scatole.-
Per quanto riguarda Myrcella, quando fu stretta al fianco di Rickon, sfiorò appena con gli occhi verdi la corte ed affondò il viso contro il mantello di lui, con un lamento sottile, senza dir nulla nè dar segno d'ascoltare quel che si stava dicendo.
Bran inclinò pesantemente il capo sulla spalla destra. -Significa che hai intenzione di portartela dietro?-
Le labbra denudarono il bagliore rossastro dei canini triangolari. -Certamente.-
Il re del Nord tacque. Non gli sembrava una grande idea, perchè sarebbe stato per Tommen un ulteriore incentivo ad attaccare i loro accampamenti, però discutendone con Rickon avrebbe ottenuto il solo risultato di farlo arrabbiare ancora di più. La fanciulla notò lo sguardo di Bran scivolare sulla sua pelle, contando le cicatrici: erano forse abbastanza? Sempre troppo poche, fu il verdetto ch'ella lesse in quello sguardo, scuro come sangue asciutto.
Stannis non battè ciglio, ignorando il rossore furioso che investì il viso della moglie. -E quando la guerra sarà vinta e dovrai sposarti, che ne sarà di lei?-
-La sacrificherò agli dèi sulla pira funebre di suo fratello e suo nipote e suo zio e suo padre.- rispose Rickon, senza alcuna esitazione, con un sorriso così godurioso ch'era evidente quanto fosse fiero della propria idea; la fanciulla non reagì nemmeno, piccola ed immobile, accasciata sulla spalla del suo aguzzino come se avesse perso i sensi.
Senza riuscire a trattenersi ulteriormente, la regina Selyse s'alzò in piedi con uno scatto nervoso. Si rivolse a Stannis, con un'ostilità difficoltosamente controllata perchè infiammabile.
-Mio signore, non ho nessuna intenzione di dare nostra figlia in pasto a questo barbaro del Nord che si accoppia con i Lannister. Non permetterò che condividano il talamo dopo che lui ha toccato quella... quella... cosa.- Una smorfia altezzosa le arricciò le labbra in maniera sgradevole e la donna sputò quell'ultima parola come una bestemmia. -Ho sentito dire in giro che, dopo aver ammazzato le persone, il futuro re di Westeros le divora intere... con le viscere, l'intestino e tutto.- Selyse indicò Rickon con l'indice e lo guardò con occhi spalancati dall'iracondia. -Osi forse negarlo?- lo incalzò stridula, graffiante. Il ragazzo sorrise saldo, come se vi potesse cogliere un umorismo agli altri sconosciuto.
-Lo nego. Di solito, quando le mangio, sono ancora vive.-
Bran contrasse le labbra. Se questo era il tuo intento, Rickon, bel tentativo. Ma non servirà a nulla.
-Basta così!- proruppe infatti Stannis, un lampo d'irritazione ad intaccare la freddezza dello sguardo. -Selyse, non tollero d'udire una parola di più su questo argomento. Shireen lo sposerà, barbaro o non barbaro. Lo sposerà...- La frase rimase sospesa nell'aria, come se l'incertezza la trattenesse ancora con dita fragili.
-A qualsiasi condizione?- s'incaponì Rickon, con un sorriso soddisfatto.
-Rickon, andiamo via.- irruppe all'improvviso Myrcella, con voce acuta, scuotendo la testa premuta al petto del ragazzo. Nella sala calò un silenzio scontroso.
Stannis fissò il principe di Grande Inverno con i suoi impietosi, distaccati occhi marroni. -Quel che mi stai costringendo a rammentarti è che non è certo che tu sopravviva, Stark. Anche per questo, sarebbe auspicabile che sposassi Shireen ora.-
Rickon liberò una risata sfrontata, agguantando Myrcella. Mentre procedeva verso la porta, le parole esplodevano stridendo dalle sue labbra come frammenti affilati.
-In tal caso il matrimonio sarebbe l'ultimo dei tuoi pensieri. Perchè se io non sopravvivrò, allora nessuno in questa stanza avrà speranza di farlo.-
Appena le ante si richiusero alle loro spalle, Myrcella tirò un sospiro di sollievo. Quel rumore in sottofondo era così fastidioso, le incuteva un timore viscerale, come se quel ronzio incombesse per ghermirla e strapparla dal suo rifugio. Voleva silenzio, lei, il silenzio esatto del suo isolamento senza eccezioni; voleva che soltanto la voce roca di Rickon sfiorasse il suo collo, indistinguibile dalla carezza delle sue zanne, e voleva che il buio richiudesse il loro piccolo mondo segreto che nessuno poteva violare.
-Dì un po', non sei contenta, che ritroverai tutti i tuoi familiari su una pira?- ironizzò Rickon. Le unghie nella sua carne affondavano con bonaria vivacità, senza risentimento, come se stesse punendo un piccolo animale domestico. Voleva che si spaventasse, almeno un po'.
-L'inverno prende ma non restituisce.- Il sorriso di Myrcella, una promessa insonnolita dal buio, era sicuro come il sole d'un mondo eletto. Gli artigli del lupo rasparono con l'avidità ingorda della sua rabbia senza lenimento, quella stizza sogghignante che esplodeva negli occhi con la follia dei cicloni. La morsa del predatore, meno di un monito, un'esibizione ingloriosa.
-Attenta, Lannister. È un dio volubile, quello a cui ti stai votando.- La sua voce, strascicata d'irrisoria minaccia, era un'altra lama a toccarle la gola piano, piano, io posso ucciderti quando voglio. La fanciulla non capì se l'aguzzino si stesse riferendo alla buona sorte, al presente, all'infatuazione, al proprio umore o a se stesso, ma di certo quelle parole erano vere.
Da allora, Myrcella Lannister potè scordarsi la cella. Dormiva nell'ampio letto del principe di Grande Inverno, i loro corpi intrecciati l'uno all'altro fino a risultare indistinguibili, dove il rosso ferino affluiva nel biondo argenteo, le cicatrici s'incontravano in un unico dolore senza nome; le giornate avevano la farneticante ebbrezza del ludibrio e la consistenza di caduchi fiori, sfogliate con impeto, sprecate con noia, e la loro follia, mascherata con il nome di cupidigia, stava nel rotolare sempre più in basso, ridere sempre più forte per sovrastare il fragore delle armi. La loro scelleratezza osava senza sosta, e ogni giorno c'era seta da sbranare, gioielli da indossare, vino rosso di Dorne a fiottare nella gola e sul mento e sul materasso, ad innaffiare la carne, dissolutezza grassa ed opulenta dal sapore del Sud fra quelle mura, a racchiudere sempre lo stesso violento profumo di essenze oleose e gemiti soffocati.
Myrcella la prigioniera passava le ore come una regina, ad attenderlo ed accoglierlo, lieta della propria insignificante utilità, colma d'un iniquo senso del dovere, purchè quelle lenzuola rimanessero calde del sudore dell'empia comunione dei loro corpi. Rickon a volte era disposto a dedicarle intere giornate, a volte poco più di un'ora: però sempre, inevitabilmente, un'espressione vinta e rancorosa nei lineamenti distorti dal desiderio a mascherare quel dubbio, finiva per ritrovarsi in camera a cercare quella ragazza di latte spanta sul materasso di piume e precipitare rovinosamente fra le sue braccia, in impaziente attesa di un piacere che avrebbe potuto avere da altre, in un altro modo, ma che non era più capace di godere se non con lei, così.
Per la prima volta dopo tanto tempo, Myrcella non avvertiva una lastra di ghiaccio o frammenti di vetro sotto le dita dei piedi.
Il giorno della partenza li sorprese ancora abbracciati, nell'alba di quelle mattine ch'erano proiezioni di notti insonni. I preparativi furono frettolosi, quasi che uno stordimento generale avvincesse tutti i protagonisti. Myrcella sapeva che in futuro avrebbe rimpianto il comodo lusso di quelle giornate vissute in stato d'incoscienza, e se ne convinse quasi dolorosamente quando il vento del Nord la schiaffeggiò con rabbia alle porte del castello.
La fanciulla rabbrividì intimorita sotto il mantello che avvolgeva anche Rickon, il viso premuto contro il calore martellante nel suo petto, l'udito concentrato sul ritmo dei suoi respiri, il gorgoglio del suo sangue, risparmiandosi la troppo cruenta vista della cattiveria di quell'asettico mondo in bianco e nero, dove l'abnegazione dell'esistenza si affacciava su un crepaccio che aveva l'ammutolente peculiarità dell'assoluto. Rickon Stark, stante e silenzioso come l'ombra d'una malinconia che non gli apparteneva, fissava senza pietà, con occhi cupi, la casa che stava abbandonando per la seconda volta. Era diverso dal solito. Osha lo scrutava sospettosa; era dall'altra parte dello schieramento, quello che s'era radunato fuori dalle mura per salutare i soldati.
-Questa è la tua guerra, non la mia,- aveva spiegato a Rickon senza scomporsi. Eppure in quel momento, i grumi d'acqua gelida impigliati nei capelli come una canizie precoce, non avrebbe chiesto altro che guidarlo e sorvegliarlo come aveva fatto per tanto tempo.
-Vi guardo e vedo soltanto disgrazie.- La sua voce cadde fra loro, piatta come una ghigliottina.
Rickon serrò i denti. -Non è come credi. Ho tutto sotto controllo, non preoccuparti.-
Ho tutto sotto controllo. Questa l'ho già sentita, pensò Osha con un triste sorriso. -Buona fortuna, dunque.-
-Grazie.- Il ragazzo rimase lì, incerto se fare l'eroe o concedersi pochi istanti di tregua dalle proprie aspettative; la donna scelse per lui, scompigliandogli rapidamente la chioma incolta.
-Non serve che ti saluti come si deve,- chiarì bruscamente, -perchè tanto tornerai presto.-
Rickon sorrise, rispondendo alla flebile richiesta di quegli occhi abissali che conosceva così bene. -Puoi scommetterci.-
E Osha capì perchè Rickon si portava appresso la giovane Lannister. Lei gli aveva carezzato i capelli, lo aveva rassicurato, gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene. Aveva incoraggiato, vezzeggiato, accolto a braccia aperte la fragilità, imponendosi la sua stabilità interiore come una missione. Aveva fatto ciò che Catelyn Stark non aveva più avuto occasione di fare, ciò di cui Osha non sarebbe mai stata capace. Rickon, riconoscendo una specie di figura materna in lei, si sentiva accudito, protetto. Amato, in quella maniera sollecita, premurosa e tipicamente femminile, in quella maniera così terribilmente esplicita e calorosa, con cui l'introversa scontrosità di Osha non poteva competere. Così terribilmente differente e discordante con la sua indole. Così terribilmente necessaria. Myrcella Lannister credeva di poter addomesticare un lupo. Meritava perlomeno un sorriso di compassione, ma la fanciulla era perduta in quel mantello e nessun avvertimento ormai l'avrebbe raggiunta.
Intanto, Shireen prendeva le mani guantate del padre fra le sue. -Mi raccomando, stai attento a te. Non mi sposerò, se non ci sarai tu ad accompagnarmi all'altare.-
Le rughe attorno agli occhi di lui si contrassero, viso di padre invecchiato: ogni anno che passa grava come cento sulle spalle di un re, e quei tentativi avevano lasciato un loro segno su quel volto incorruttibile, in quegli occhi duri che -proprio come quelli della figlia- sapevano sognare, anche se non lo davano a vedere. Non era più preoccupato all'idea di lasciare Shireen in balia della neve; ormai lei chiamava casa quel mondo di ghiaccio scabro e creste affilate.
La neve sdrucciolava nel vento. Le dune bianche e farinose sfavillavano come materia di favola, cozzando e spintonandosi con l'oscurità, in un paesaggio d'immobile ostilità.
Meera Reed sospirò piano e una nuvola di vapore, sospinta dal suo fiato, soffiò aggraziata, valicando l'impedimento del collo di pelliccia del mantello, aggrappandosi alla crudeltà impassibile del vento -in equilibrio soltanto per pochi attimi, il tempo di disfarsi nel buio netto del cielo.
-Ti ho messo nei bagagli le erbe, sai, quelle che devi masticare dopo aver avuto le visioni, per far passare la nausea. Pensavo che ne avrai bisogno, molto probabilmente.- Voce senza calore, senza distacco. Le pareva quasi stupido stare lì, in piedi, di fronte a quell'impudica verità, ad interpretare un ruolo che le avevano cucito addosso, suo malgrado. 
Jojen la fissò con così tanta intensità, che la sorella non potè fare a meno di scorgervi dentro un'infanzia di piccole gioie e grandi avventure, l'origine d'un amore struggente che l'aveva più volte indotta a desiderare il dolore per sè, pur di risparmiarlo a quell'esile creatura; eppure non era mai stato debole, Jojen Reed. Era forte anche in quel momento, davanti a lei, a sventrare la sua anima senza giudicare quanto vi scorgeva, senza alcun rimorso. Vicino, eppure già troppo lontano.
-Grazie.- rispose solennemente, in tono talmente pregnante che non poteva starsi riferendo soltanto alle erbe.
Meera inarcò le sopracciglia e le aggrottò di nuovo, rapidamente. -Non c'è di che.-
Era a disagio. Avrebbe voluto sferrargli un pugno, spaccargli il naso, cadere fra le sue braccia. Se era lei quella che meritava delle scuse, perchè si sentiva tremendamente in torto? Il loro arrivederci non avrebbe dovuto essere così apatico, scialbo, ufficiale. Così.
Fu allora che il fratello si chinò su di lei e la baciò sulla fronte, con quella sua caratteristica delicatezza, e il contatto delle sue labbra sulla pelle fu come quello della rugiada sui polpastrelli.
-Prenditi cura di lui.- Un sussurro. Si odiò per averlo detto: ma, se non l'avesse fatto, si sarebbe odiata per non averne avuto il coraggio.
-Prenditi cura di te.- fu la replica. Meno di un ordine, più di una speranza. Un vaticinio.
Poi venne il momento di salutare lui. Brandon Stark, a cavallo di uno stallone nero, le rivolgeva uno sguardo indecifrabile.
-Mio padre salutò mia madre esattamente qui, prima di partire per il Sud.- rivelò infine, a voce asciutta. -Di lui tornarono indietro soltanto le ossa.-
-Gli dèi non vogliono mai ascoltare le stesse storie, mio signore.- Non era mai esistita affermazione più falsa, Meera stessa ne aveva avuto la prova; ma in quella corrente artica suonò esatta.
Bran si soffermò per qualche istante sul piccolo capo impellicciato del suo erede, in braccio alla nutrice. -Tornerò prima che diventi in grado di pronunciare il mio nome.-
Potrebbe già aver imparato a farlo, che tanto tu non te ne saresti accorto. -Come dite, Maestà.-
Si guardarono un'ultima volta, stanchi, sopraffatti, quasi sconfitti da quel destino che, dopo tanti anni di fedele amicizia, li voleva separare. La primavera non era mai sembrata così lontana.
Il loro ultimo bacio fu una formula, una convenzione, arido come un campo sterile; per un solo istante, la moglie lo trattenne contro le sue labbra, come se bastasse questo per impedirgli di staccarsi dal calore della sua bocca, per andare incontro all'inverno in una bufera di sangue, in una mattanza ineluttabile. Per salvarlo.
La regina innamorata che saluta il suo re dalle porte del maniero sventolando un fazzoletto, gli occhi umidi di lacrime, il cuore rigonfio di speranza. Meera tese un sorriso amaro, infranto, ma nell'aria cinica di quel lungo inverno la sua storia non faceva più ridere.
La carovana cominciò la sua lenta marcia, i tonfi ovattati degli zoccoli dei cavalli nella neve croccante, le urla dei soldati deviate e raccolte da quel vento di spada, le perfide risate delle stelle nella notte livida; giunto nei pressi dei primi alberi Bran Stark si voltò, per vedere il rango dei castellani ben disposto ed allineato, Shireen la principessa di pietra, Osha la bruta e Meera la regina del Nord ad attendere ferme ed inscalfibili nel freddo, imprimersi quell'immagine nella mente come se dovesse dirle addio. Bran percepì un sussulto nel petto, seguito da una valle di secchezza nella gola: Meera Reed se n'era già andata, il buco della sua assenza come la falla fatale d'una fortificazione, e la sua dignità stracciata svolazzava nel vento dietro di lei, come un tetro monito, un rimprovero sottile, giunto troppo tardi, troppo forte. Nel momento sbagliato.



































Note dell'Autrice: Sesto capitolo! Credo sia un po' più lungo del solito. Spero vi sia piaciuto. ^-^ È comparsa Brienne, che ha resuscitato Jaime! Siete contenti? So che ha molti fan, sia lei che la coppia Jaime/Brienne.
Dunque, per Sansa le cose stanno per mettersi male. Chi mai starà indagando su di lei? A Myrcella è accaduto qualcosa di sbalorditivo. È impazzita. Per chi trovasse troppo strano quel che le è successo, digiti su Google sindrome di Stoccolma. Ha qualcosa a che vedere con questo, anche se ogni mente umana è unica e reagisce in modo differente.
Ormai gli eserciti sono partiti. Cosa accadrà alle Torri Gemelle? Qual è il piano di Bran? E Margaery riuscirà a mettere in atto il suo?
Tutto questo nel prossimo capitolo, miei cari lettori. Mi raccomando, se avete qualche domanda o qualche commento da fare, non esitate! Sono molto curiosa di sapere le vostre opinioni!
Lucy
ps: Ebbene sì, Robin fa il pervertito. o.o
  
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