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Autore: malpensandoti    22/12/2013    12 recensioni
Mi chiedo cosa ci sia di così migliore in un posto in cui non siamo insieme.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ho chiuso quella porta e sono al freddo
le chiavi del portone le ho lasciate sul tuo letto



 




 

Quando è morto mio nonno avevo cinque anni.
Ricordo molto bene quel giorno perché c’era un caldo afoso, di quelli tipici di agosto nonostante fossimo ancora a giugno.
Era una giornata strana.
Mia madre aveva gli occhi rossissimi, era domenica e avevo le ginocchia sbucciate e un taglio sulla fronte per via della caduta sulla ghiaia del parco davanti a scuola.
Mio padre era stato molto più contenuto, nessuna lacrima e nessun accenno di tristezza se non una faccia parecchio dispiaciuta.
Mia madre si era inginocchiata davanti a me, aveva atteso che io finissi il mio biscotto ai mirtilli e mi aveva detto che il nonno era andato in un posto migliore.
A quei tempi ero piccolo e mi sembrava davvero impossibile che esistesse un posto migliore di questo.
Un posto migliore di Louis che gioca con me vicino al fiume? Un posto migliore delle tabelline a scuola? Migliore dei biscotti ai mirtilli della signora Barker e migliore del mio nuovo pigiama tutto blu?
Io però avevo sorriso perché beh, lui mi sarebbe inevitabilmente mancato, ma mia madre continuava a ripetere che , il nonno sarebbe stato bene e meglio, che sarebbe stato sempre vicino a noi e a me anche se io non potevo più vederlo.
Ripensandoci, non ho mai versato lacrime.
A distanza di anni, nonostante lo splendido rapporto che avevo con mio nonno Marcus, non riesco a piangere. Mi viene la tristezza, la nostalgia e soprattutto il dispiacere nel sapere di non potergli far vedere che finalmente qualcuno si è degnato di smetterla di tagliarmi i capelli a scodella, o vederlo sugli spalti vicino a mia mamma durante il torneo di calcio della scuola, accanto a mio padre a un mio ipotetico matrimonio, vicino a nonna mentre lei legge l’ennesimo libro sotto al portico.
Un po’ mi dispiace, ma poi penso che sia passato del tempo e io ora ho diciotto anni e sicuramente me sono fatto una ragione.
Mi dispiace, ma vado avanti anche così.
Jenna è morta da sei mesi e tredici giorni.
A scuola hanno messo su tutti i muri dei volantini arancioni con il suo viso in bianco e nero, quella foto che le piaceva tanto, che ho scattato io con la sua Nikon. I professori hanno parlato di lei in almeno due lezioni a testa, la lodavano per il suo temperamento che non si è mai spento, per quelle A- che prendeva di rado, improvvisamente erano tutti diventati suoi amici.
Jenna avrebbe odiato tutto questo, a Jenna bastavano le sue sigarette al mentolo e un film di Robert Pattinson per essere contenta.
Hann0 iniziato tutti a ricordarla in mezzo ai corridoi, lei che faceva di tutto per essere quel particolare da rendere diverso l’intero universo.
Mi ricordo di quando Niall, a mensa, le aveva detto di come i suoi capelli sembrassero assurdamente quelli di Lydia Wilde e di come lei, il giorno dopo, fosse venuta a scuola con l’intera testa color lilla.
Jenna Ryan, per chi la conosceva davvero, era quel paio di jeans strappato sulle ginocchia al ballo di primavera, i mille anelli tra le mani, i braccialetti delle sue estati in Florida da suo padre, i denti appuntiti e la voce alta mentre rideva.
Jenna era quella parte di me che adesso mi manca. Sono passati sei mesi e tredici giorni e non c’è mattina che io mi ricordi di non aspettarla per cinque minuti davanti al giardino di casa sua.
E magari sentirla già da dentro, con i suoi borbottii su quanto il latte sembrasse scaduto, della sua maglietta preferita ovviamente ancora da stirare, con la voce piena di quel qualcosa che adesso non trovo più.
Jenna voleva cambiare il mondo, stravolgerlo. Metteva le puntine colorate sulla sua cartina del globo appesa alla parete e mi spiegava di quanto il Canada ci sarebbe piaciuto, di come io avrei pianto davanti alla casa di Elvis Presley, di Parigi, dei chili che avrebbe inevitabilmente preso in Italia, del sole dell’Australia e del bambino che avrebbe adottato in Congo.
Jenna è morta, nel senso più vero del termine. Capito?, morta. Lei è morta e io mi ritrovo con le mani vuote di chi ha costruito troppo su fondamenta che non esistono.
Mi ritrovo davanti a casa sua tutte le cazzo di mattine, a guardare un portone che non si è mai aperto, o tra i corridoi della scuola senza vedere i suoi capelli neri, in classe con il suo banco vuoto su cui nessuno si è ancora seduto nonostante sia in ultima fila. Mi ritrovo con l’iPod pieno di canzoni che mi ha fatto conoscere lei senza il suo sorriso compiaciuto del “Visto? Lo sapevo che ti sarebbe piaciuta”.
Sono passati sei mesi e tredici giorni e io stanotte ho calcolato che in sei mesi e tredici giorni potevamo prendere l’aereo e finire in Québec per almeno dieci giorni, poi andare a Memphis a vedere la casa di Elvis e io avrei potuto piangere per un’altra settima buona prima della Torre Eiffel e i tre chili di pizza e gelato dell’Italia. E il bambino del Congo probabilmente lo avremmo potuto chiamare Ocean o Edie e comunque ci sarebbe stato tempo anche per l’Australia e forse anche per la Cina.
Solo che poi mi sono guardato le mani e mi sono detto che forse non ne vale più la pena. Perché, diciamocelo, che senso ha cambiare e scoprire un mondo se Jenna è in un posto migliore? Se lei non esce da casa sua alla mattina, se non mi passa i compiti di inglese che faceva sempre e se non mi mostra più i suoi disegni? Che senso ha essere solo me e non noi?
Osservo i muri della scuola ormai spogli della sua faccia, i professori che ricominciano a fare i test e mi chiedo come facciano ad andare avanti pur sapendo che lei non c’è più. Non lo sentono, questo freddo cane? Le mani vuote, il respiro più pesante alle due di notte e le lacrime sotto la doccia? Non tremano anche loro come faccio io?
Guardo Louis ricominciare a ridere con Niall e mi chiedo se anche loro si mordino le dita per non urlare nel cuore della notte, se Zayn Malik abbia ripreso a fumare in cortile anche senza Jenna. Mi chiedo se loro siano andati avanti e soprattutto se mai ci riuscirò anche io.
E, soprattutto, mi domando cosa ci possa essere in quel cazzo di posto in cui è Jenna da renderlo migliore. Migliore delle feste del sabato sera a cui partecipavamo solo per bere gratis, migliore delle nostre chiacchierate sotto al porticato di casa sua, migliore delle nostre litigate, prima Australia e poi Giappone, lei che scuoteva la testa convinta e diceva che il Giappone andava visitato solo dopo l’India. Migliore di me che provo a baciarla mentre fingo di essere ubriaco, migliore del fatto che un po’ l’amavo e che porca troia la amo ancora.
Mi chiedo cosa ci sia di così migliore in un posto in cui non siamo insieme.
E la cosa che più mi fa incazzare, quella così distruttiva da farmi scoppiare a piangere come un bambino, è il fatto che io, Jenna, non la trovo da nessuna parte. Non è vero che lei resterà sempre con me, non è vero che saremo sempre  insieme perché cazzo, io sono qui e qui lei non c’è.
Guardo casa sua, la sua penna che si è scordata sulla mia scrivania, il suo banco, le sue foto e la sua lapide incisa da una stupida frase cattolica e lei comunque non c’è.
Non la sento, non smetto di tramare, ho le mani vuote, lei non è qui.
E mi viene da piangere nel cuore della notte perché se solo tu mi avessi dato più tempo ti avrei baciato senza la scusa dell’alcool mille altre volte ancora. Se solo tu mi avessi lasciato altro tempo, io probabilmente sarei stato più coraggioso e a quest’ora sarei andato avanti.
Invece tu non ci sei, fa un freddo cane e io ho le mani vuote.
E altro che Canada, Australia e Congo, l’unico posto che ho sempre voluto visitare erano i tuoi baci e le tue dita.
Se solo tu mi avessi dato altro tempo io a quest’ora ti avrei potuto amare anche di più di quanto stia facendo adesso.
Se solo tu mi avessi aspettato un po’ di più.

 
                                                                                       
 
  
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