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Autore: Luss_96    23/12/2013    0 recensioni
Correva. I piedi nell'erba umida, i capelli al vento. Qella corsa non era una come le altre. Quella era stanca, entusiasta, piena di vita. Lei viveva di quella corsa che si stava realizzando. Non usava le energie della corsa per scappare ma le usava per poi avere in contro un senso di ura liberta.
Lei aveva sofferto, tanto e troppo. Aveva lottato contro forze ale quali nessuno aveva dato l'ordine di entrare nella sua giovane vita.
Continuò a correre finchè non arrivò alla stanchezza, rallentò il passo e si disteve a pancia all'aria, su quel prato morbido. Vide il cielo, com'era bello. Sentì il vento, com'era fresco. Un brivido la pervase, non aveva ancora capito che fosse e cosa avesse fatto. Era un'eroe di quella schiavitù. Ne era uscita ed ora correva. Avva lottato ed eccola in quel sogno. Se combatti qualcosa arriva...
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Otherverse | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
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Free… la parola che si ripetevano molte e molte volte nella mia mente da adolescente. Una parola che ha molti sensi e per me quei sensi erano fondamentali.
F: felicità;
R: ribellione;
E: estroversione;
Insomma ‘E’ssere liberi.



Quello spettacolo mi si ripresentò davanti, come un dejavou ebbi di nuovo un nodo allo stomaco, volevo dire la mia, parlare, urlare, ma non potevo, non ne avevo il minimo coraggio.
Ricaddi nel buio. Di nuovo, come sempre. Era il destino, quell’orribile futuro che pian piano marcava sempre di più la stanchezza dei miei occhi, l’abitudine dei miei gesti. Ogni giorno in quella casa era uguale, la mia testa non ce la faceva più, in quel momento come non mai avrei voluto essere ‘io’ ma non sarebbe stato più così.
Mi voltai in uno scatto e i miei capelli mori entrarono nei miei occhi azzurri oceano, mi provocò un forte fastidio ma non fu certo quello la ragione delle mie lacrime. Feci una corsa su per le scale, non importava il dolore alle mie gambe per uno sforzo senza senso, dovevo correre verso quell’unico posto sicuro che mi era consesso, doveva arrivare alla porta di quella camera che chiamavo ‘salvezza’.
La mia camera rispecchiava quello che ero io dentro: distrutta. Tutto era in disordine, si poteva pensare che raggiungesse i pensieri della mia mente. Sì, il casino mi governava, in tutti i modi più spregevoli e orribili che si potesse immaginare. La mia mente era un contenitore dove tutti potevano mettere una parte di loro, ma mai una parte felice e contenta. No. Nella mia testa metteva immagini orribili, deprimenti. Ma io restavo in silenzio mentre la mia mante assorbila ed assorbiva come una spugna. Ero un mezzo di sfogo, il resto non importava a quella gente, l’importante era che loro si sentissero bene. Quanto era spregevole la gente.
Mi distesi sul letto e guardai il soffitto. Di nuovo quelle immagini. Chiusi gli occhi e cercai di cacciarle dalla mia mente ma eccole, fisse come un chiodo. Dolore, amarezze, ansia, tristezza, Che cosa avevo fatto per meritarmi questo?
Lo sentii di nuovo urlare, la sua grande voce fece vibrare la casa e fece sobbalzare me. Quanto lo odiavo. Stava rendendo tutto un inferno, una storia senza lieto fine. Sentii i suoni forti, agghiaccianti. Stava di nuovo prendendo a pugni il muro, tutto il suo odio si diffondeva in quei suoni tetri. Volevo solo che se ne andasse, che i suoi sfoghi non li facesse lì, davanti ai miei occhi sciupati da tutte quelle gocce di anima che stavo perdendo. Dopo tutti quei pugni…. Pensava veramente che io non lo sentissi?
Mi sentivo in colpa per quello che era successo, per quanto stupido e ridicolo potesse essere, quella era la verità e mi sentivo talmente stupida che non lo avrei mai ammesso a nessuno. Così avevo il millesimo sentimento a farmi compagnia, solo.  Il rimorso mi distruggeva, ardeva lentamente. Un giorno mi avrebbe ucciso. Non ero stata una brava figlia? Non valevo abbastanza?
Lui era particolarmente sofferente e si capiva bene il motivo. Sua moglie era morta, ma perché fare queste scenate, sarebbe stato meglio se l’avesse amata di meno. Mia madre, la donna più bella al mondo se ne era andata in una nuvola e mi aveva lasciato sola nella vita che mi avevano destinato. Non vedevo da tempo il mondo, l’unico universo che conoscevano erano quelle quattro mura, non conoscevo altro. Era orribile, non essere libera era ancora peggiore di vedere quel muro rotto dai forti pugni.
Luss Jackson, il nome che pochi conoscevano e che nessuno ricordava. Non era un nome fantastico ma non importava più di tanto questo, nessuno mi avrebbe mai conosciuto. La mia vita era segnata nelle mura di quella casa, niente felicità, nessun amore, nessuna amicizia. Nulla che avrebbe fatto ricomparire il sorriso sulle mie labbra. Tutta la speranza se ne era andata da quel novembre di dodici anni fa.
Quel’unico ricorda che mi persisteva pesantemente la testa, l’unico ricordo che avrei voluto eliminare di quegli ultimi anni di libertà.
Mia madre era morta. Droga. Almeno così mi era stato detto da mio padre. Odiava molto quella sostanza, ma non tutti potevano morirci e allora perché mia madre si? Chi mi odiava così tanto da disegnare il mio destino così orribilmente?  Dopo tre mesi di ricovero morì. In quei tre mesi tutte le nostre speranze si erano concentrate su di lei e alle parole gelanti del medico era come se il mondo ci fosse caduto a dosso. Da quel giorno il silenzio regnò la nostra casa. Si sentivano solo i forti pugni di mio padre sul muro oramai segnato con una crepa, e i suoi urli che venivano subito dopo tutte le lacrime che gli bagnavano le guancie. Come se quell’urlo segnasse la fine della debolezza. Le lacrime erano ciò che lo rendevano insignificante. Urlare cacciava via la sua ‘inadeguatezza’. A mio parere le lacrime ti fanno forte, vero. Se non piangi, non provi sentimenti, se non provi sentimenti non sei che un corpo che si muovo solo con la concezione di materialità.
Come si poteva amare così tanto una persona da rovinare la vita di un’altra?
Con questi pensieri chiusi gli occhi. Le luci si spensero iniziarono gli incubi. Avevo paura del buio, di dormire. Avevo il terrore di spegnermi anch’io come mia madre.
Ma io ero forte, io non  mi sarei spenta. Ce l’avrei fatta.

Aprii gli occhi, stanchi dalla notte che passavo insonnie. I pensieri mi governavano, presupposti, desideri, speranze. Vedevo il muro bianco su di me. Bianco, grigio e nero. Tutto monotono, tutto così straziante. Avrei voluto correre per un prato a piedi scalzi. Sentire l’erba umida sotto i piedi, guardare in alto e non vedere il bianco, ma il cielo azzurro, le nuvole come un pezzettino di zucchero filato, Il prato, gli alberi, ogni cosa di un colore diverso. Che spettacolo.
Non mi era permesso essere libera. Questa era il motivo per qui tutte quelle gioie erano teorie e non pratiche. Desideravo viaggiare, forse perché non potevo e quindi questo desiderio che un po’ tutti hanno in me aveva maggiore effetto.
Avrei voluto stancarmi di una corsa e non di scappare da mio padre, avrei semplicemente voluto essere me stessa per una volta. Forse sono io che chiedo troppo, sono io con troppi piani impossibili per la testa. O forse sono io che aspettavo giorno per giorno per vedere il cancello aprirsi e ritrovarmi davanti uno spettacolo che oramai non ricordavo più come fosse. La Londra era cambiata, ne ero certa ed ero certa che un giorno l’avrei vista e sarei rimasta a bocca aperta.
Quante delusioni hanno i sognatori. Va oltre il confine della realtà, ma sognare era l’unica cosa che mi era rimasta e viverla era bellissimo. La gente che pensa sia infantile andare oltre le realtà non sa che lei sia l’unica felicità che mi posso permettere.
Scesi pigramente dal letto, ricominciare da capo ogni cosa, di nuovo le delusioni di nuovo tutto quel casino. Odiavo svegliarmi il giorno, ridover' combattere contro quelle forze che mi stavano letteralmente massacrando. Combattere per arrivare alla notte, e pensare alle cose che avrei potuto fare. Un’altra delusione. Tutto deludeva ma tutto questo era obbligatorio. Soffrire mi era stato imposto da un destino crudele, ma viverlo era una missione che la mia testardaggine mi aveva assegnato. Andare avanti giorno per giorno, un passo dopo l’altro, mi faceva stancare. Eppure sarei potuto scappare, uccidermi con le mie stesse mani, ma non lo facevo. Combattevo. Non mi arrendevo, ma soffrivo, nessuno può immaginare quanto. Mi uccideva la mia monotonia, tutto mi uccideva. Di me sarebbe restato un accumulo di polvere, inutile. Soffrivo per cosa? Per ritrovarmi di nuovo lì, in piedi, con lo sguardo rivolto verso la finestra ad immaginare una libertà chiusa da una chiave immaginaria.
Scesi in punta di piedi giù per le scale, nessuno doveva sentirmi o vedermi. Arrivai in cucina, non c’era nessuno, nell’aria si respirava il forte profumo di menta e vaniglia. Uno dei profumi che utilizzavano le domestiche. Mi sedetti sulla sedia vicino al tavolo, la colazione come ogni giorno era già lì. Pronta.
Mentre mangiavo in tranquillità, dei passi rimbombarono nell’aria. Tutto un tratto la casa non odorava più di vaniglia e menta, assieme a quei passi una puzza di profumo er uomo. Rabbrividì. Tutta la tranquillità sparì con quel cambiamento d’aria. Era lui. Il mio incubo che si trasformava in realtà. Risuonò un gelido “Buongiorno” la sua voce cupa con quella sfumatura di malinconia. Di nuovo rabbrividì. Si sedette davanti a me, il suo sguardo che penetrava nei miei occhi. Voleva una risposta. Mi schiarii un po’ la voce e risposi, cercando di nascondere tutta l’aura che molto probabilmente lui leggeva nei miei occhi chiari. Un altro “Buongiorno” si udì nell’aria. Questa volta il mio. Neutro, per fortuna i miei sentimenti non entrarono in queste parole. Ritornai al mio latte.
Nell’aria c’erano tensione, paura, ansia. Da qui ogni volta partiva la mia giornata, quella che temevo, che scacciavo sempre. Ma riecco ogni volta. L’inizio.
 
 




 
  
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