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Autore: _Kore    24/12/2013    1 recensioni
[Una storia di Agnes Dayle, Emily Alexandre e Lyra Winter]
Chi non conosce il mito di Persefone? In questa storia, però, non siamo nell'antica Grecia e non si parla nemmeno di Dei. In questo racconto siamo in una New York che attraversa tre epoche diverse: il 1920, il 1969 e il 2013. Persefone, poi, ha tre volti differenti: Maia, la beniamina delle serate alcoliche in barba al Proibizionismo; Merope, l'eterea pupilla estranea al mondo underground degli anni sessanta e Taigete, energica figlia pronta a guidare una grande società.
La loro esistenza, in quell'Olimpo che è stato creato da chi le ha precedute, sembra perfetta, ma basta un nulla perché il gelo dell'inverno faccia breccia in quella perenne estate. In effetti, basta un incontro: lui è Ade, che ha un unico scopo - sedurre Persefone e attrarla nel suo mondo - e tre arti differenti per realizzarlo: la pittura, la scrittura e la recitazione.
Né Ade né Persefone, però, hanno fatto i conti con la maledizione che grava sulla famiglia Core... Una maledizione antica come la famiglia, di cui l'unica traccia sono una collana di diamanti rossi e un diario.
Genere: Erotico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Storico
Capitoli:
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Buonasera e tanti auguri a tutte! Vi ricordate di noi? E delle nostre tre protagoniste? Visto che é passato più di un mese dall'ultimo aggiornamento, abbiamo pensato di fare un breve riassunto di quello che é successo nei precendenti capitoli alle nostre Persefone, così da raccogliere le fila del discorso. Buona lettura!

 

Dopo le insistenze della fidanzata, Nathanael commissiona a Gabriel Hasmal un ritratto di Maia raffigurata come Afrodite. Gabriel accetta l'incarico, ma né Maia né Nathanael possono immaginare cosa si celi dietro l'assenso di un uomo che ha smesso di dipingere da anni e che, il giorno prima di iniziare il lavoro, compra un giglio.


 

Durante la festa di fidanzamento con Duncan, Merope viene presentata dal cugino James a Julian Cuveé, uno scrittore assai chiacchierato nel suo ambiente. Pochi giorni dopo, riceve un pacchetto contenente il vinile dei Velvet Underground, sul quale trova l’invito a un appuntamento a cui, nonostante ogni dubbio, decide di presentarsi.


Nel corso della sua festa di fidanzamento, organizzata in occasione del suo ventiquattresimo compleanno, Taigete non si sente bene. Esce in giardino, per prendere una boccata d'aria, senza immaginarsi che quei pochi minuti stravolgeranno le sue certezze e, forse, il suo stesso futuro. Viene infatti avvicinata da Eugene Aderley, migliore amico del cugino Benjamin, che tutti credono morto. Questi le rivela che gli sono giunte voci che il giovane sia vivo e le proprone di partire alla sua ricerca. Dopo un'iniziale indecisione Tai, esortata dal fidanzato Alistair, decide di seguirlo in questa avventura.




 

Atto

3


1920


 

Se avesse temperato ancora quel carboncino probabilmente si sarebbe consumato prima di essere mai stato usato, ma il nervosismo lo attanagliava dalla notte precedente, tanto che solo mezza bottiglia di brandy era riuscito a farlo cedere se non al sonno, almeno ad un dormiveglia poco appagante.

 

Non era Maia il problema, nonostante gli piacesse illudersi fosse così: la ragazza, con i suoi privilegi e la sua collana di melograni era un territorio rassicurante in cui avventurarsi, ma se si fosse lasciato andare alla consapevolezza di cosa effettivamente lo turbasse, avrebbe permesso ai suoi mostri di allontanarsi un po’ e non sapeva se, poi, sarebbe stato in grado di sopravvivere a quella lontananza. Erano come un’ombra, sempre presenti, pronti a ricordargli che di sogni non si viveva, che la vita era cruda come il suono di un fucile. L’arte non aveva più spazio nella sua.

Solo lei lo aveva spinto ad accettare quell’incarico, il pensiero di restituirle quel quadro, in un gesto che non l’avrebbe mai ripagata di ciò che aveva perso ma, forse, avrebbe potuto alleviare il peso.

 

Maia Core era la chiave per raggiungere quello scopo.

 

Posò finalmente il carboncino e si versò l’ennesimo bicchiere alcolico, ma lo stomaco si ribellò, ricordandogli che non aveva pranzato: in perfetto tempismo e probabilmente più consapevole di lui di quali fossero i suoi bisogni, la signora Calloway entrò con un vassoio di cibo che posò sulla tavola con molto più rumore di quanto fosse necessario.

La donna, piccola e ormai più vecchia di quanto entrambi volessero ammettere, lo guardava con occhi severi, le mani poggiate sui fianchi e il piede in movimento impaziente sotto l’ampia gonna.

 

-Dovete mangiare. E sistemare questa stanza,- aggiunse guadandosi intorno, -la signorina Core non può posare in questo stato.

-Perché no?

 

La governante non si prese neppure la briga di rispondere e iniziò rassettare quanto più poteva, lasciando però i fogli da disegno lì dov’erano, accartocciati e per terra: Gabriel li avrebbe bruciati entro la fine della giornata, ma quello era un rito che spettava a lui soltanto. Le fiamme avrebbero divorato quegli scarabocchi appena accennati, quegli abbozzi di disegni che non avrebbero mai visto la luce.

 

Erano trascorsi due anni da quando il suo bambino era rientrato dal fronte e da allora tutte le mattine la signora Calloway, prima di andare a fare la spesa, si recava in chiesa e accendeva una candela di ringraziamento: Gabriel era tornato in una notte di pioggia e non aveva parlato per oltre dieci giorni, chiudendosi in casa ed escludendo il mondo; poi, poco a poco, aveva ricominciato a vivere, ma qualcosa in lui si era spezzato in modo irreparabile e non si era stupita quando lui le aveva raccontato cosa avesse fatto né si era dispiaciuta poi molto, perché quel mondo, quella società ricca e frivola, per lui era diventato nocivo.

 

La visita dell’imprenditore, del signor Rafael, l’aveva stupita, e ancor di più l’aveva scossa sapere che Gabriel sarebbe tornato a disegnare ma, forse, che il soggetto fosse Maia Core sarebbe stato un bene: entrambi erano due sopravvissuti. Entrambi erano bambole rotte che nessuno, nonostante l’apparente perfezione, sarebbe mai riuscito ad aggiustare.

 

***

 

Gli uffici della Demeter erano il suo angolo di mondo, l’unico luogo che avesse mai chiamato casa sin da quanto non era che una bambina: i suoi genitori avevano tentato di farle comprendere che sale da thè e ville eleganti erano un luogo più consono ad una rampolla dell’alta società, ma si erano dovuti arrendere in fretta davanti all’evidente predisposizione della giovane figlia per quella che, in fondo, un giorno sarebbe divenuto il suo impero.

 

Potnia Core aveva votato la propria vita, anima e corpo, all’azienda di famiglia, incurante di qualsiasi chiacchiera e con un carattere forte e intimidatorio quanto bastava perché, dopo le iniziali perplessità, New York accettasse quella donna che lavorava come un uomo.

 

Quelle stanze parlavano di lei più di quanto qualsiasi villa di famiglia avrebbe mai potuto fare, con l’arredamento elegante e il profumo di gladioli a saturare l’aria: due comodi divani con stampe a fiori formavano una L davanti al camino, con un tavolo risalente al 1700 tra di loro; candelabri d’argento e specchi illuminavano l’atmosfera, ma l’intera stanza era dominata dalla scrivania in mogano su cui la donna lavorava.

 

Sul camino, due foto facevano bella mostra di sé e la vedevano neo sposa in una e madre felice la seconda: due dettagli, nel più ampio disegno della sua esistenza, che aveva plasmato e costruito a proprio piacimento.

 Olivier era stata la scelta di suo padre e, alla fine, si era rivelata più buona di quanto si fosse aspettata. Se Parigi valeva bene una messa, una moglie che non si sarebbe fatta da parte era un prezzo accettabile per entrare a far parte di una delle più potenti famiglie d’America, e così Olivier Mirthus aveva accettato di buon grado di dividere il controllo della società con l’erede dei Core.

 

Quanto a Maia, Potnia non aveva mai avuto un istinto materno molto spiccato: dicevano che una maledizione gravasse sulla sua famiglia, ma lei aveva fin troppo senso pratico per prestare ascolto alle dicerie popolari e quando il figlio che aveva portato in grembo si era rivelato l’ennesima femmina di famiglia, la donna aveva rifiutato di accanirsi come i suoi predecessori nella disperata e inutile ricerca del maschio, con l’unico risultato di dare i natali a fin troppe figlie, ed era tornata a dirigere la società consapevole che, un giorno, avrebbero trovato il marito adatto per Maia.

 

La figlia era diversa da lei, non si era mai mostrata interessata all’impresa familiare, preferendo la vita mondana e sociale ai doveri d’ufficio, ma se il destino non le aveva donato un figlio maschio, aveva fatto sì, però, che Nathanael Rafael incrociasse la loro strada: lei e Olivier l’avevano cresciuto come loro erede e tale era diventato, perfetto complemento della loro giovane e vanesia figlia, perché laddove l’uno si sarebbe occupato di mandare avanti la società, l’altra si sarebbe occupata dell’immagine pubblica della Demeter.


-Signora Core, sua figlia è qui.

 

Martha, la segretaria, non si era mai rassegnata a chiamarla signora Myrthus, limitandosi a sostituire il signorina dopo il matrimonio e, come lei, quasi tutti i dipendenti della Demeter; Potnia ne era lieta, perché non avrebbe mai voluto rinunciare al proprio nome.

 

-Falla entrare e portaci del thè, per favore.

 

Era sempre strano vedere sua figlia lì, ma quel giorno l’aveva esplicitamente convocata e la stava attendendo. Maia entrò distribuendo sorrisi a chiunque incontrasse e tutti, come al solito, la guardavano ammirati, perché non importava quanto poco lei si curasse della società per renderla comunque la più amata tra tutti i Core.

 

Il ricordo di quel profumo di limone li avrebbe perseguitati per giorni.

 

-Madre, buongiorno.

 

Non la baciò, consapevole di quanto la madre fosse poco incline alle effusioni, e si accomodò su un divano, in attesa della lista di istruzioni e rimproveri che era certa sarebbe arrivata.

 

Al suo collo brillava la collana di melograno e Potnia non riuscì ad ignorare la fitta di gelosia nel vederla addosso ad un’altra persona, poco importava che fosse sua figlia e che avesse sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato: quella era la sua collana, lo sarebbe sempre stata.

 

-Tua nonna reclama la tua presenza al thè con la Società delle Rose Rosse domani pomeriggio: deve raccogliere fondi per finanziare la costruzione di un ospedale femminile non so dove,- aggiunse con un gesto noncurante della mano, restia come sempre a seguire le vicende sociali della suocera, - E vuole tutte le nipoti attorno a sé.

 

Maia annuì, felice di poter rivedere Nadia Myrthus, che era sempre stata la sua nonna preferita: americana fin nel midollo e fiera di esserlo, la donna aveva partecipato attivamente alla vita sociale e politica del paese, soprattutto per quanto riguardava l’emancipazione femminile, e non aveva lesinato il proprio aiuto durante la guerra, rendendo la propria casa, con grande costernazione di Potnia, un rifugio per le vedove di guerra. Apprezzava poco la nuora e il figlio, ma adorava la sua Maia.

Difficilmente avrebbe potuto immaginare una donna più diversa dalla nonna Core, che aveva trascorso i suoi settantanove anni di vita rintanata in casa a causa di continue emicranie e crisi di nervi: le tre gravidanze avevano provato la sua già debole salute e si era spenta senza troppo clamore quando Maia aveva undici anni. La ricordava appena.

 

-Stasera ricordati che siamo invitati da quegli orribili Rivera e fra due giorni sarà il compleanno della signora Rafael,- continuò sfogliando l’agenda, -Vuoi pensare tu al regalo o incarico qualcun altro?

 

-Ci penso io,- rispose facendo sentire per la prima volta la sua voce, per poi rimanere in attesa di quello che sapeva essere il punto più importante della lista materna, benché ovviamente si sarebbe impegnata a non farlo apparire tale.

 

-Vorrei sapere perché hai dovuto scegliere proprio Hasmal. Non è opportuno, è un ostracizzato, nessuno vuole avere a che fare con lui.

 

-Nessuno tranne me, allora. Mi piacciono i suoi lavori, mi piace la sua arte. Nathanael è d’accordo.

 

Potnia alzò un sopracciglio, evitando di farle notare che il fidanzato difficilmente non avrebbe assecondato i suoi capricci.

 

-Non approvo, ma se proprio non puoi evitarlo…

 

Maia non rispose, consapevole di aver vinto: sua madre stava solo lamentandosi, odiando che la figlia avesse preso l’ennesima decisione senza consultarla, ma non le avrebbe imposto alcunché. Si alzò e la salutò con un sorriso, ma l’attenzione di Potnia era già stata assorbita dal lavoro e non la udì neppure uscire.

 

***

 

Afrodite.

 

Pretenzioso.

 

Gabriel non poteva negare la bellezza di Maia, ma trovava farsi raffigurare come la dea della bellezza leggermente di cattivo gusto, ma dopotutto quelle giovani ricche erano abituate ad avere qualsiasi cosa desiderassero.

 

Arrivò in leggero ma prevedibile ritardo, con un libro antico tra le mani che sembrava starle molto a cuore; salutò con affetto la signora Calloway, benché la vedesse per la prima volta, e poi si rivolse a lui, affatto intimorita dai suoi modi bruschi.

 

-Sono così felice che abbiate accettato: adoro le vostre opere, non saprei neppure trovare le parole per descrivere quanta gioia mi trasmettano.

 

Commenti vuoti, frivoli, che Gabriel aveva udito centinaia di volte prima della guerra.

 

-Oggi farò solo alcuni schizzi, signorina Core, e da domani inizierò il ritratto.

 

Il sorriso di lei si incrinò appena, davanti a quello scarso entusiasmo, ma si riprese immediatamente.

 

-Va bene, dove volete che mi metta?

 

-Alla luce, lì, vicino alla finestra. Di profilo per favore.

 

Maia lo assecondò subito e Gabriel si ritrovò davanti a quel foglio bianco, in attesa di essere riempito, che lo terrorizzava. Giacché lei non avrebbe potuto vederlo, finse semplicemente di disegnare qualcosa, sperando che la loquacità della ragazza lo portasse, alla fine, a scoprire la verità sul quadro.

 

L’aveva lasciata parlare di arte, delle mostre che aveva curato e degli artisti di cui era stata madrina, ma mai un accenno all’unica opera di Hasmal che avesse visto, l’unico quadro di cui lui si curasse.

 

-Sembra antico quel libro,- commentò dopo un po’.

 

-Lo è, risale al 1500 ed è il diario di una mia antenata.

 

Donne e diari, un connubio che nessun uomo avrebbe mai compreso.

 

-E cosa racconta?

 

 Non che lo interessasse davvero, ma aveva bisogno di farla sentire a proprio agio.

 

-Si è appena fidanzata, deve sposarsi, ma ha incontrato un altro uomo che le piace molto.

 

Vicende amorose e banali, ma dopotutto se era davvero un’antenata dei Core, perché la cosa avrebbe dovuto stupirlo?

 

-E si trovano in America?

 

-Oh no, a Londra. Sembra che lei sia preoccupata per alcune questioni religiose, per una certa principessa Maria.

 

Liquidò la politica con un gesto della mano, più interessata alle avventure sentimentali, e Gabriel poté solo intuire che, data l’epoca, la principessa in questione era la tristemente famosa Maria la Sanguinaria; probabilmente suo padre o il fratello, entrambi protestanti, dipendeva da quale fosse esattamente l’anno in cui si trovavano, stava per morire e stava emergendo la questione spinosa della successione al trono.[1]

 

Non che importasse, comunque.

 

-Anche voi siete fidanzata da poco. Quando vi sposerete?

 

-Il prossimo 31 dicembre. Non lo trovate romantico?

 

Senza staccare lo sguardo dal foglio, Gabriel evitò dar voce ai suoi pensieri, ripiegando su una domanda più neutra.

 

-E poi?

 

-E poi?

 

La perplessità nella voce di Maia lo costrinse ad alzare lo sguardo. -Sì... e poi. Cambierà qualcosa, no?

 

-Certamente!- gli rispose sorridente, -Sarò una donna maritata, potrò entrare in locali che ora mi sono preclusi, ricevere e fare visite senza uno chaperone, indossare colori che non siano bianco e toni pastello, che mi sbattono tremendamente...

 

Eppure, rifletté Gabriel, il bianco, con il suo candore ingenuo, era il colore che più le si adattava.

 

-Essere maritata conta così tanto per voi?

 

Maia rifletté un istante, prima di rispondere. –Non sarò più solo la figlia dei miei genitori, ma diventerò soprattutto la moglie di Nathanael. È un grande cambiamento per me.

 

-E Maia? Esiste, oltre alla signorina Core o alla signora Rafael?

 

La domanda era sorta spontanea, prima di poter riflettere davvero su quale pensiero avesse formulato. Perché lo interessava? Perché lo sorprendeva? Conosceva bene la vita di quelle donne ricche ed era perfettamente conscio di come non fossero altro che un’appendice degli uomini, prima il padre e poi il marito. Singolarmente, loro semplicemente non esistevano. Eppure quella che a primo impatto gli era sembrata solo una bambina viziata aveva mostrato una sensibilità artistica rara e lo deludeva il pensiero che, alla fine, fosse esattamente come le altre.

 

-Certo che esiste. Si possono essere tante cose, nella vita, signor Hasmal, interpretare molti ruoli.

 

-Non si è veramente se stessi finché non si sceglie quale ruolo interpretare, signorina Core, e finora le maschere che avete portato o porterete sono state scelte da altri: siete stata una figlia modello, sposerete un uomo scelto da altri e magari continuerete a vivere nella casa di famiglia.

 

-Certo che vivremo nella dimora dei Core, come adesso. 

 

Il tono, da deciso che era stato, si era incrinato, divenendo quasi petulante. Un copione imparato male, un vestito troppo stretto.

 

-Molto intimo...

 

Era stato solo un borbottio, ma nel silenzio dell'appartamento Maia lo udì perfettamente.

 

-Non trovo opportuno conversare con un estraneo circa la mia vita coniugale, signor Hasmal. Potremo parlare del tempo,- aggiunse, improvvisamente gelida,- oppure tacere.

 

Le avrebbe lasciato credere di avere l'ultima parola, dopotutto aveva raggiunto il proprio scopo: conoscere Maia Core, scoprire le sue debolezze. Non dubitava che quelle parole avessero attecchito nella sua mente, per quanto frivola e superficiale fosse.

 

Dopo un’ora e senza che il carboncino avesse effettivamente toccato la tela, Gabriel riprese la parola; se lei si fosse chiusa in se stessa non sarebbe mai riuscito a scoprire l’ubicazione del quadro e non avrebbe sopportato un altro fallimento. Non mentre il ricordo di quella notte maledetta ancora lo ossessionava fino a togliergli il sonno.

 

-Il signor Rafael mi ha detto che desiderate essere ritratta come Afrodite.

 

-Esattamente,- rispose, di nuovo sorridente.

 

-La nascita dalla spuma del mare potrebbe essere un’idea adatta?

 

Non comprese le ragioni del turbamento, ma lo colse immediatamente in quegli occhi chiari e sempre limpidi che, in quel momento, si erano velati di un’ombra cupa e dolorosa. Gabriel era un artista, un osservatore per indole e natura. E Gabriel conosceva il dolore.

 

-Preferirei di no. Un paesaggio bucolico credo sia adatto.

 

Tentava di sorridere serena, eppure quella proposta l’aveva scossa. Il pittore aveva creduto che solo un taglio di capelli fatto male o un vestito troppo stretto potessero turbarla, ma quell’ombra nei suoi occhi cantava un dolore diverso. Più antico.

Familiare.

 

-Non volevo turbarvi.

 

-Affatto. Cosa ve lo fa pensare?

 

Era tornata ad essere frivola e superficiale, ad indossare la maschera di perfezione, ma quell’attimo era bastato perché lui scorgesse qualcosa che, forse, lo aveva scosso più di quanto non avesse scosso lei.

 

-Io per oggi ho finito,- commentò dopo un istante, nascondendo i fogli bianchi. –Vi aspetto domattina.

 

-Certamente. Grazie ancora per aver accettato.

 

Gabriel annuì appena, poi prese il giglio e gliene fece dono.

 

Quella purezza, quella perfezione. Far crollare quella maschera sarebbe stato il suo unico scopo.

 

Chi sei, Maia Core?

 

***

 

Tutto era stato decorato di bianco e rosso, nella villa dei Rivera. Di origine spagnola, ma trapiantati negli Stati Uniti da ormai tre generazioni, i Rivera possedevano dodici ristoranti di lusso, di cui cinque nella sola New York, e da tempo la R bianca in campo rosso, accompagnata dai frutti del corbezzolo, rappresentava una certezza per chiunque desiderasse organizzare eventi o, semplicemente, andare a cena e mangiare prelibatezze servite in un luogo raffinato ed elegante.

 

Certo, che tutto fosse di quei due colori persino nella villa aveva destato alcune perplessità negli invitati.

 

Maia non aveva mai frequentato molto i Rivera, ma dopotutto la figlia femmina, Aurelia Maria, era una creatura di sedici anni intimorita che viveva all’ombra del fratello maggiore, con i vestiti castigati di moda decadi prima e priva di qualsiasi hobby o pensiero personale.

 

Antonio, invece, era un vanesio dongiovanni, cresciuto nella certezza che tutto gli fosse dovuto solo in quanto erede dell’impero Rivera e non aveva mai lavorato in vita sua. Lui e Nathanael, così diversi, benché di estrazione pressoché simile, si sopportavano appena.

 

Quella sera i nomi più in vista di New York e alcuni membri dell’Ambasciata spagnola erano invitati a festeggiare il suo matrimonio con l’ennesima bambola dell’alta società che gli uomini Rivera avrebbero potuto manovrare a proprio piacimento.

 

D’altronde, quelle nozze erano il trionfo della signora Myers, moglie di un commerciante di stoffe di Boston e amante di Antonio Rivera senior da oltre dieci anni, con buona pace della signora Ruth, che sopportava stoicamente il tradimento pubblico del marito rifugiandosi nell’organizzazione di associazioni benefiche.

 

Maia non comprendeva quei rapporti: era cresciuta circondata da donne forti, come sua nonna Nadia o Abbie, e soprattutto come sua madre che, nonostante le diversità, le aveva sempre insegnato come farsi rispettare, soprattutto dagli uomini. Olivier rispettava Potnia e Nathanael rispettava Maia. Quell’America non era l’Inghilterra vittoriana e le donne, nonostante le disparità, erano forti e determinate, con un ruolo nella società che non era di mero abbellimento: come la signora Rivera sopportasse la presenza di un’amante ufficiale era al di là della comprensione di molti.

 

Nessuno degli invitati era davvero felice di essere lì, ma nessuno sarebbe potuto mancare senza causare un’offesa che li avrebbe privati delle delizie dei ristoranti Rivera, ragion per cui i centocinquanta invitati avevano indossato la solita maschera di elegante cortesia e si erano complimentati per il fidanzamento.

 

Mike Core detestava l’idea di essere stato incastrato a presenziare, benché gli fosse toccata in sorte una dama migliore di quella che si sarebbe potuto aspettare.

 

-Seriamente, bimba, mi ricordi perché mi sono lasciato convincere?

 

Maia sorrise al ragazzo che, con loro cugino George Ward, la stava scortando alla festa: con Nathanael trattenuto in ufficio, a loro era toccato il compito di scortare la prediletta di casa.

 

-Non avevi scelta, mio caro, e poi non avresti mai potuto abbandonarmi.

 

-Vi penserò mentre, tra un’ora, sarò su un taxi diretto dalla mia adorabile mogliettina bisognosa di cure.

 

Mike fulminò George con lo sguardo.-Onestamente, cugino, considerando lo stuolo di governanti che avete assunto non vedo come tu possa essere d’aiuto.

 

La signora Ward proveniva da una ricca famiglia di banchieri bostoniani: aveva incontrato George ad Harvard, dove l’uno stava studiando medicina e l’altra archeologia e si erano innamorati immediatamente. La madre di George aveva provato in ogni modo a distogliere il figlio, non ritenendola di famiglia abbastanza elevata, ma aveva miseramente fallito; si erano sposati il maggio precedente e lei aspettava un bambino.

 

-Sposati e metti incinta tua moglie, Mike, e anche tu avrai le scuse adatte a fuggire.

 

-Siete tremendi, tutti e due! Georgie, credi che tua moglie sia interessata a presenziare con me ad un evento organizzato da mia nonna?

 

Il giovane scoppiò a ridere, ma si zittì immediatamente quando alcuni Rivera lo guardarono indispettiti. –Credo di sì, tesoro, sai che tutti adoriamo Nadia almeno quanto Abbie. A essere onesto, credo che la famiglia migliore la sorte l’abbia destinata a te.

 

-Sì, se si escludono le Core,- rispose Maia, e i cugini le fecero immediatamente eco. Le loro madri non erano donne facili con cui trattare, ma nonostante tutto loro cugini erano sempre stati molto legati, forse proprio perché cresciuti nell’esasperata decantata importanza del loro lignaggio.

 

Quella sera, però, quella frase assumeva sulle labbra della ragazza un sapore diverso; per tutta la vita non si era mai interrogata sulla sua vita, prendendone semplicemente atto. La sua famiglia si aspettava che fosse educata ed elegante e che si dedicasse alle frivole attività femminili e lei aveva sempre soddisfatto le aspettative, concedendosi solo la scelta delle attività di beneficienza di cui occuparsi e diventando una novella mecenate per molti artisti.

 

Le parole di Gabriel, però, avevano instillato in lei il tarlo del dubbio.

 

Non si è veramente se stessi finché non si sceglie quale ruolo interpretare.


Sciocchezze. Maia sapeva perfettamente chi fosse: l’erede dei Core, la fidanzata di Nathanael.

 

Eppure, non aveva avuto il coraggio di dirlo al pittore, limitandosi a tacere indispettita, non tanto per le domande in sé, quanto per l’imbarazzo che esse le avevano causato: tutte le sue qualità includevano una relazione con qualcun altro, ma fino a quel momento non l’aveva davvero capito.

 

-Voglio ballare.

 

Molte coppie avevano raggiunto i neo-sposi al centro della pista, mentre la maggior parte delle persone si erano avvicinate, seppur con qualche perplessità, a quel barbaro buffet in piedi, che aveva sostituito la cena. Un ricevimento non convenzionale, ma dopotutto persino la cerimonia, cattolica e con pochissimi invitati, lo era stata.

 

Maia non voleva lasciare che la propria mente indugiasse su quei pensieri: la danza, la musica nelle orecchie e nel cuore l’avrebbe distratta e l’avrebbe fatta sentire protetta, come sempre era stato.

 

Forse era un dono di famiglia, perché anche la sua antenata, la sua Pleis, amava danzare.

 

George sciolse il suo braccio da quello della cugina e lasciò che Mike la portasse a ballare, ammirandola luminosa e splendida come sempre era stata: la più preziosa e la più fragile tra di loro, che avevano quasi perso e che, da allora, custodivano con ancora maggiore cura.

 

Maia, con la sua fresca ingenuità, era colei che li teneva uniti, perché era impossibile non adorarla e perché la sua serenità era da sempre la missione di tutti loro.

 

***

La serata, considerando i presupposti, sarebbe potuta essere peggiore, ed invece si era rivelata la cura migliore per scrollarle di dosso l’inquietudine che l’incontro con il pittore le aveva lasciato.

 

A Gabriel Hasmal lei non piaceva.

 

Era una verità che l’aveva sconvolta, perché nessuno, prima di allora, era rimasto insensibile al suo fascino: il pittore non solo la disprezzava, ma non aveva tentato in alcun modo di celarlo.

 

Si era spogliata e, con la sola veste da notte, i piedi scalzi e due diari tra le mani –il proprio e quello di Pleis- si era rintanata nel suo salottino, circondata dai suoi quadri preferiti, che aveva collezionato con amore in quegli anni.

 

Non era solo, pensò con stizza, la figlia o la fidanzata di qualcuno: aveva fatto qualcosa nella sua vita, qualcosa di bello e proprio lui, tra tutti, avrebbe dovuto comprenderlo. Prese il fiore tra le mani, quel regalo inaspettato e così contrastante con il suo atteggiamento, poi iniziò a scrivere il proprio diario e, al contempo, la sua mente formulò una decisione che, benché non lo comprendesse, avrebbe cambiato il corso della sua esistenza.

 

Se solo si fosse soffermata a pensare, se solo avesse compreso come le vicende si somigliassero… Era così innamorata di Nathanael da liquidare la storia di Pleis come una romantica avventura d’amore: l’artista bello e seducente che faceva evadere l’eroina dalla propria realtà rendeva quel diario quasi un romanzo, una storia narrata da qualcuno ma non realmente accaduta.

Ma Pleis Clinton era vissuta, e con lei William Fitzherbert  e George Hastings, in un triangolo che l’avrebbe dovuta portare ad interrogarsi sulla sua vita.

 

Non era da Maia, però. Non concentrarsi troppo a lungo su qualcosa. Porsi domande.

 

Scegliere.

 

Per lei, tutto era un atto dovuto, il flusso naturale della sua vita, senza imprevisti né distrazioni.

 

Gabriel Hasmal era solo un piccolo fastidio e Gabriel Hasmal, alla fine, l’avrebbe apprezzata e le avrebbe chiesto di uscire.

 

-Un giglio?

 

La voce profonda di Nathanael alle sue spalle la fece sussultare, ma non impiegò che un istante per nascondere il turbamento e sfoggiare il più dolce dei sorrisi.

 

-L'ho trovato già qui.

 

La menzogna le sfuggì dalle labbra prima che potesse fermarla e senza che riuscisse a spiegarsene il motivo: non aveva mai mentito a Nathanael, non ve ne era mai stata ragione. E non vi era neppure in quella circostanza, eppure la provenienza di quel fiore era qualcosa che non era pronta a condividere. Era solo una sciocchezza in fondo. Solo un fiore.

 

Se Nathanael si accorse di qualcosa, non lo mostrò.

 

Il ragazzo le si sedette accanto e la abbracciò, godendosi finalmente la quiete della casa e la compagnia della sua fidanzata.

-Nat?- lo chiamò dopo alcuni istanti, dando voce ad un tarlo che non la abbandonava da ore.

 

-Dimmi, mia adorata.

 

Maia tentennò, timorosa di dar davvero voce a quei pensieri, ma Nathanael se ne accorse e la incitò a continuare.

 

-Non ti piacerebbe trasferirti, dopo il matrimonio? Avere una casa tutta nostra?


Se gli avesse detto che voleva attraversare nuda la Quinta Strada probabilmente non avrebbe generato il medesimo stupore.

 

-Questa è casa nostra.

 

Le labbra di Maia si piegarono nel sorriso di circostanza che le era stato insegnato sin da bambina, la maschera di frivolezza che odiava indossare proprio con lui.

 

-Hai ragione, era solo un pensiero sciocco. Ti sei perso la fiera del cattivo gusto stasera. Dovevi vedere il cappellino della Myers… Quella donna è orribile.

 

 

Tutti i presenti la stavano osservando, ma non se ne curava. Tra le sue braccia, Pleis era felice.

Solo lui la chiamava così, preferendo quello strano secondo nome al più banale Jane, ma, dopotutto, nulla in William Fitzherbert era convenzionale, neppure la sua stessa esistenza, generata da una relazione clandestina. Un figlio non voluto, dimenticato dal proprio nobile padre, ma la sua arte, la sua musica, l’aveva reso un prediletto di re Enrico prima, e del giovane Edoardo in seguito.

-Comporrò una ballata per te. Un omaggio alla tua bellezza.

Pleis rise, nascondendo il volto nell’incavo del collo del marchese.

-Scandalizzerai l’Inghilterra!

-Non lo farò, se non lo vorrai.

Suo padre l’aveva minacciata. George Hastings l’aveva implorata di rinsavire.

Cinque settimane di follia e la giovane non era mai stata così felice.

 -Certo che lo voglio.- sussurrò. –Io voglio tutto.

Cosa sarebbe successo se si fosse presentata pubblicamente con Gabriel? Un parìa. Un uomo che nessuno voleva avere al proprio fianco. New York sarebbe rimasta sconvolta oppure a lei tutto era permesso, persino lui?

 Molly Brown sorrideva apertamente e batteva i piedi al ritmo della musica, mentre le matrone si fingevano sconvolte e le fanciulle la guardavano ammirata. Maia si era intestardita ad insegnare la danza ai camerieri, su invito divertito di Mr. Millet. E la giovane Core da tempo non rideva così tanto.

 



1969

 

La prima sensazione che la assalì fu un caldo asfissiante. Era stata una giornata appena un po’ tiepida, quella. Eppure, dentro quel salone affollato si soffocava. Nessuno aveva avuto l’accortezza di aprire le finestre che davano sulla strada né d’altronde nessuno dava segno di quell’insofferenza che aveva subito colto Merope, quando quell’aria pesante le si era appiccicata addosso e si era vista circondata da volti sfatti, pronti a sciogliersi da un momento all’altro: alcuni sorridevano solitari per una battuta che solo loro conoscevano, altri se ne stavano con gli occhi e la bocca socchiusi, in cerca di qualcosa che Merope non riusciva proprio a capire.

 

Forse ad essere soffocante non era il caldo, ma la sfacciata presenza di tutti quei corpi sconosciuti: c’erano gambe lasciate scoperte da minigonne imbarazzanti, seni che se ne stavano esposti dietro maglie trasparenti, petti maschili vestiti di ridicoli gilet.

Merope era una newyorkese e, come tale, si era sempre considerata una ragazza di mentalità aperta, al passo con una cultura in continua evoluzione. Ma quella volta dovette davvero costringersi a non tornare di corsa all’auto che la stava aspettando in strada.

Nonostante tutto, era sicura che la sua presenza lì non era frutto di un errore. La musica che aveva ascoltato la sera prima le aveva raccontato proprio di quel mondo che adesso avrebbe potuto toccare soltanto allungando una mano o fermandosi a parlare con uno di quelli che Duncan avrebbe etichettato hippie.

 

Guardandosi intorno, pensò che l’apparenza suggeriva che quel mondo fosse ricco di colori vivaci, un’esplosione cromatica che la invitava a buttarsi nella mischia, ad abbandonarsi alla musica assordante e alla folla chiassosa che si muoveva fuori tempo o – forse –  al tempo di una musica libera che risuonava dentro ciascuno. Ma quella era solo una patina per sprovveduti e, benché Merope non ne avesse mai avuto esperienza, riusciva comunque a capire con estrema chiarezza che quella miscela di colori nascondeva in sé degli squarci in bianco e nero, immagini tetre che tutti intorno a lei si ostinavano a ignorare: una giovane stava distesa a terra, incosciente; una coppia piena di tic nervosi fermava chiunque per chiedere qualcosa che diventava sempre più indispensabile; un uomo guardava la sua donna tra le braccia di un altro, e un altro ancora.

 

Doveva andarsene da quel posto, pensò per l’ennesima volta.

 

Poi però notò alcune persone dirigersi verso un’altra stanza e, dimentica degli squarci in bianco e nero, finì con il seguirle attraverso corridoi, scale e porte socchiuse.

 

Fu il silenzio di una piccola folla seduta per terra ad accoglierla, stavolta.

 

Al centro, su una sedia dall’aria scomoda, un uomo leggeva poesie.

 

Passarono alcuni instanti, prima che in quello sconosciuto riconoscesse la figura enigmatica di Julian Cuveé. La prima volta che lo aveva visto era vestito da sera, elegante, sebbene con qualche segno di ribellione che poteva essere scambiato per un semplice vezzo di stile. Stavolta, il poeta era nel suo regno e il suo aspetto non avrebbe potuto essere più significativo: era vestito interamente di nero – giacca, maglione a collo alto, pantaloni –; altrettanto scuri erano i capelli scompigliati, dove le dita sottili andavano a posarsi sempre più ossessivamente. In contrasto, la pelle del viso e delle mani appariva diafana, di quel biancore insano di chi non vede mai la luce del sole.

Era uno squarcio in bianco e nero… non fosse stato per quelle labbra rosse rosse da cui fluivano le parole che stavano ammaliando tutti i presenti.

 

Merope si rese conto che in realtà Julian non stava leggendo affatto il libro che teneva in mano: aveva gli occhi chiusi, profonde rughe di concentrazione gli segnavano la fronte e, un momento prima di iniziare ciascuna poesia, la mascella gli si irrigidiva e la bocca si tendeva in una linea severa.

 

Fu la voce, ancora prima che le parole, a rapire Merope e a condurla in un mondo fatto di bianco e nero: era una voce bassa, di chi è poco avvezzo a usarla. Eppure le parole risuonavano per la stanza con estrema chiarezza. Era una voce aspra, a tratti amara, di chi non ha mai sperimentato alcuna tenerezza in vita sua. Eppure, quando il silenzio si allungava indisturbato tra una parola e l’altra, era dolce la malinconia che attraversava la stanza e arrivava a Merope.

 

Poi furono le parole.

 

Un uomo accanto a lei le spiegò che non era mai accaduto prima: Cuveé aveva accettato di recitare le sue poesie secondo un preciso ordine che fino a quel momento era stato chiaro solo a lui. Ne era venuto fuori un racconto mitologico, dolorosa metafora della contestazione giovanile in atto.

 

Julian –Merope non seppe dire quando nella sua mente aveva iniziato a chiamarlo per nome – stava raccontando di una sanguinosa lotta tra le divinità, creature immutabili nella loro immortalità, e gli uomini, esseri fatti di pura passione. Vero protagonista della storia era Ade che, confinato nell’Averno, era costretto a non prendere parte al conflitto se non come impotente osservatore: uno dietro l’altro, i suoi fratelli e le sue sorelle cadevano, portandosi dietro centinaia e centinaia di nemici.

 

Ma Ade era fatto di morte e non riusciva a commuoversi né per gli uni né per gli altri.

 

Finché un giorno, unica tra tutte le divinità, la figlia di Demetra fece un gesto folle: scese sulla Terra, condannandosi a un’esistenza nell’Averno.

 

***

 

Julian chiuse il libro scritto da suo padre, il suo unico talismano.

 

La raccolta di poesie si concludeva lì, senza che Persefone facesse la sua comparsa se non nei pensieri di Ade. Così era stato per molto tempo, visto che fino a qualche settimana prima non aveva mai saputo che volto e spirito avesse la sua Persefone, l’unica donna in grado di dare una svolta alla sua raccolta e all’apatica esistenza del suo Ade.

 

Qualche idiota avrebbe pensato a una presenza salvifica. Non era così: Persefone avrebbe costretto Ade a scrollarsi l’indifferenza di dosso e a fare un passo. Se verso la vita o verso la morte, Julian non era ancora in grado di stabilirlo.

 

Adesso, la sua Persefone in carne e ossa si stava facendo largo tra la gente che lo aveva accerchiato. Impeccabile come la prima volta che l’aveva vista, chiedeva “permesso” come se fosse a una festa della sua famiglia. Era adorabile, nel suo vestito elegantemente fuori posto e nelle occhiate infastidite con cui accoglieva ogni spintone.

 

- Mr Cuveé, lei mi deve delle spiegazioni,- gli disse appena fu abbastanza vicina.

 

Lui allungò la mano e, trovato il polso ingioiellato, l’aiutò a superare le ultime persone e ad avvicinarsi ulteriormente.

 

-Miss Core, tutti qui starnazzano felici perché finalmente ho spiegato l’inspiegabile e lei non è ancora paga?

 

Si guadagnò un’occhiata spazientita, che gli rese chiaro che, lontana dall’opprimente presenza della madre e del fidanzato, Merope Core sapeva essere qualcosa di più di quella creatura spaurita e impacciata che aveva conosciuto qualche sera prima.

 

-Sa fin troppo bene a cosa mi riferisco: quella musica era a dir poco di cattivo gusto, per non parlare poi di quest’invito… Del tutto fuori luogo.

 

Disturbato dal chiacchiericcio della gente intorno a loro, le mise una mano su una spalla e la guidò in un angolo più isolato, ignorando saluti e cenni che gli venivano rivolti da più parti.

 

Quando tornò a guardarla, finse un’espressione contrita: -Ha ragione. È stato inopportuno da parte mia e senza dubbio le devo le mie scuse.

 

Lei per un attimo ci credette e apparve soddisfatta, e fu proprio in quel momento che lui aggiunse a bassa voce: -Anche se…

 

Lo guardò di nuovo sospettosa: -Anche se?

 

Julian sorrise, mentre si guardava intorno: -Ti ho vista poco fa… Te ne stavi laggiù, con gli occhi sgranati, così innocenti da non riuscire a nascondere questa scintilla che ti si è accesa dentro.

 

-Di cosa sta parlando?!

 

-Non fartene una colpa, su…- aggiunse vedendola smarrita,- Le parole di Lou Reed sono fatte così, ti si appiccicano addosso. Per non parlare poi della voce di Nico… quella sarebbe in grado di sciogliere anche il corpo più gelido e non credo che questo sia il tuo caso. E questo posto?- le domandò con un cenno alla stanza,  -È tutto nuovo per te, vero? La musica assordante, l’alcol, l’eroina, i corpi avvinghiati tra loro, uomini con uomini, donne con donne e, beffa tra le beffe, un gruppo di idioti che stanno ad ascoltare un ciarlatano qualunque con il capriccio di fare poesia.

 

Adesso Merope era molto più che infastidita. Era scossa.

 

La voleva così.

 

-E tu, creatura perfetta di una New York altrettanto perfetta, invece di chiederti cosa diavolo ci fai in un posto del genere, ti stai chiedendo… come sarebbe? Come sarebbe indossare una di quelle minigonne, mostrare un simile disinteresse per ogni pudore, abbandonarsi a questa musica, dimentica di ogni regola e restrizione che ti hanno  cresciuta. Come sarebbe abbandonare tutta quella perfezione per assaggiare una goccia di passione? Come sarebbe essere umana per una sola volta?

Non gli rispose. Peccato, ci aveva davvero sperato. Si limitò a guardarlo, con la testa eretta sulle spalle orgogliose, gli occhi pieni di risentimento e le labbra sparite in una linea dura.

 

– Va’ all’inferno.

 

Mentre la guardava farsi spazio tra la gente, stavolta meno educata di quanto lo era stata poco prima, Julian si concesse un sorriso divertito. A presto, pensò.

 

***

 

Nell’ambiente esclusivo in cui si muovevano, il nome di Chloe Core veniva pronunciato con un tono denso di timore reverenziale, sia che si trattasse di donne che di uomini. Non altrettanto rispetto era riservato a Edward Silvery, un uomo dall’abbagliante bellezza e fascino ma privo della tempra necessaria per arginare una donna così restia a fare il dovuto spazio al marito.

 

Benché tollerata, la presenza di Chloe nel mondo degli affari era vista come una delle stranezze di casa Core, un mero capriccio che si poteva perdonare solo a una delle famiglie più potenti degli States. Nonostante tutto, infatti, l’idea che la donna potesse trovare spazio anche nel mondo dell’alta finanza ripugnava a gran parte degli uomini.

 

Duncan non era di idee così ristrette. D’altra parte, benché da anni vivesse a stretto contatto con quegli  uomini privilegiati e potenti, aveva ben chiaro che se quelle idee avessero avuto la forza che avevano un tempo lui stesso non avrebbe mai avuto la possibilità di sfiorare quella vita che proprio Chloe Core gli aveva donato.

 

Aveva quindici anni quando tutto era cambiato. Era il 1954 e le cugine Core avevano imposto ai ragazzi la visione di uno stupido film sentimentale con Audrey Hepburn. Duncan era rimasto impietrito per minuti che sembravano sempre più lunghi e umilianti, mentre la figlia dell’autista di una ricca famiglia faceva di tutto per conquistare prima un figlio e poi un altro.

Era rimasto in silenzio anche quando qualcuno aveva iniziato a fare delle battute, ma appena avevano osato chiamarlo Sabrina, era questo il nome di quella stupida protagonista, Duncan si era alzato dal divano e aveva lasciato la grande casa per rifugiarsi in giardino, dove però aveva trovato la temibile Mrs Core intenta a fumare in segreto dal padre.

 

– Che c’è, Duncan? Il film non ti è piaciuto?

 

Davanti al suo silenzio aveva sorriso comprensiva: – Io lo trovo terribilmente ingenuo. Cos’ha fatto quella Sabrina per elevarsi al livello del suo innamorato? Qualche bel vestito e una canzone francese? Bah… Non avrà mai il loro rispetto.

 

Lui aveva annuito, ancora più depresso di quando aveva lasciato la casa: – Per loro sarà sempre la figlia dell’autista…

 

Era stato in quel momento che qualcosa in Chloe Core era cambiato: un sorriso appena un po’ più morbido, più umano.

 

– Senza dubbio, Duncan. Una persona più intelligente sa bene che per arrivare in alto dovrà faticare il doppio di chi ha avuto la fortuna di essere nato lì. Dopotutto, una donna sarà sempre soltanto una donna, ai loro occhi. E il figlio di un autista non sarà mai un loro pari. Guardami, Duncan,– gli chiese,– Sai cosa pensano gli uomini quando si trovano a dover fare un passo indietro davanti a me? Mi odiano… Ma lo fanno comunque e per un solo motivo al mondo: sanno che ho il potere per distruggerli. Non cercare di essere all’altezza di quei viziati lì dentro, cerca il potere che li costringa a starti un passo indietro.

 

Negli anni successivi, Duncan aveva sempre tenuto quelle parole come un tesoro prezioso, l’ispirazione di tutti quanti i suoi sacrifici e successi. Forse era proprio questo il motivo per cui non riusciva più a temere Chloe Core: la stima, la gratitudine e il rispetto avevano preso ogni spazio. A volte avrebbe voluto insegnare a Merope a vedere sua madre sotto quella stessa luce.

 

Come accadeva spesso, anche quella sera a cena c’era riunita tutta quanta la famiglia Core. Eccezionalmente non mancava neppure Edward, tornato a sorpresa quel pomeriggio per riportare alla moglie alcune importanti novità sulla filiale della North Carolina. Come tutte le volte, i ragazzi Core erano seduti a un angolo del tavolo, lontano dai genitori come quando erano bambini.

 

-Daphne, stasera dovresti proprio venire con noi…- disse a un certo punto James.

 

Daphne gli rivolse una smorfia annoiata, benché gli occhi tradissero una certa curiosità: - Andate al Max’s?

 

-Sì,- rispose l’altro, -Mi hanno detto che i Velvet Underground vanno assolutamente visti dal vivo.

 

Un rumore distolse l’attenzione di Duncan: accanto a lui, Merope aveva fatto cadere una posata.

 

-Ma sono così volgari,- commentò Daphne, mentre guardava con occhio critico la cugina abbassarsi alla ricerca della forchetta.

-Hai forse paura di sfigurare davanti alla bellezza di Nico?- la pungolò James. Strano da parte sua… non era da lui insistere con le cugine perché si unissero a loro.

 

-A me piacerebbe venire,- disse qualcuno accanto a lui.

 

Impossibile, se ricordava che accanto a lui c’era seduta una persona che non aveva mai mostrato alcuna curiosità verso uscite serali che non rientrassero nell’agenda di casa Core.

 

La guardò sorpreso: Merope aveva le guance un po’ arrossate e guardava lui e James un po’ a disagio.

 

-Non è un locale elegante, sei sicura?- le chiese a bassa voce.

 

Mer sollevò le spalle: -Se non sono di troppo, mi farebbe piacere.

 

Duncan le strinse la mano sotto il tavolo e ignorò il fatto che stesse continuando a tenere la forchetta stretta in un pugno: -Lo chiedo a tua madre.

 

Il Max’s era un posto in cui Duncan non riusciva a essere del tutto a suo agio. Preferiva muoversi tra i suoi simili, gli squali in giacca e cravatta di Wall Street, piuttosto che in luoghi come quello, dove il potere ruotava intorno a qualcosa di meno consistente del denaro. Lì Duncan Ambroser era soltanto uno dei tanti uomini d’affari che facevano da contorno a personaggi senza dubbio meno danarosi, ma più eccentrici: musicisti, pittori, fotografi, cantanti e scrittori. La passerella aveva inizio all’ingresso, dove gruppi di fans li attendevano per acclamarli, e proseguiva lì dentro, mentre se ne stavano seduti ai tavoli, accerchiati da gente ben più ricca e influente che non provava alcuna vergogna ad adularli apertamente.

 

Quella sera, poi, c’era un’atmosfera ancora più carica di aspettative. Quando si erano accomodati tutti e quattro al loro tavolo, una cameriera aveva spiegato che si attendeva l’arrivo della Factory al gran completo. Alla domanda di Daphne su cosa fosse la Factory, James rispose ridendo che era il gruppo di esaltati che ruotavano intorno a quel pazzoide di Andy Wharol.

 

Nulla di tutto questo interessava Duncan la cui attenzione era interamente concentrata sulla fidanzata: Merope sembrava una bambina, incapace com’era di nascondere la curiosità per un posto di cui lui e suo cugino parlavano da anni, ma che a lei era stato indifferente fino a qualche ora prima. Qualcosa doveva aver provocato quel cambiamento, ma si trattava di una novità così positiva che non gli interessava poi tanto capirne la causa.

 

Le mise un braccio intorno alle spalle scoperte e la spinse più vicina a sé, qualcosa che a casa non gli avrebbero mai consentito. Lei lo premiò con uno dei suoi più bei sorrisi.

 

-Sono felice che tu sia qui.

 

Lo guardò smarrita: -Perché non hai mai insistito allora?

 

Le toccò una guancia con le nocche: -A volte mi sembri così delicata che penso sia una necessità per te stare a casa…

 

Merope sembrò dispiacersi per quella risposta, ma il tempo per dirgli qualcosa venne e poi passò, mentre venivano raggiunti da un gruppo di amici, che non riuscirono a nascondere la sorpresa nel vedere Merope insieme a loro.

 

Mentre rispondeva a qualche battuta su quella novità, Duncan fu colto alla sprovvista da una voce che tardò a riconoscere.

 

-Mr Ambroser, è un piacere rivederla.

 

Lo scrittore. Julian Cuveé.

 

Quando stava per rispondere al saluto, Duncan colse un improvviso sussulto che attraversò il corpo della sua fidanzata e, con la coda dell’occhio, la vide muovere la testa alla ricerca di chi aveva appena parlato.

 

Interessante…


-Julian, non avevamo iniziato a chiamarci per nome io e te?

 

L’altro sorrise mentre si stringevano la mano.

 

-Signorine Core, James… è sempre un piacere,- salutò con consumata eleganza, - Ludmilla non parla l’inglese, purtroppo, -spiegò con un cenno alla sua accompagnatrice.

 

-Unitevi a noi, stavamo giusto per brindare,- lo invitò con un cenno al divano rimasto libero.

 

Cuveé rimase un attimo di troppo all’in piedi, per nulla imbarazzato in apparenza ma soltanto incuriosito da quell’invito. Sembrò studiarlo e a Duncan venne in mente le parole che gli aveva detto la sera del suo fidanzamento. Era in cerca di debolezze?

 

Quando ebbe preso posto e la cameriera ebbe distribuito le coppe, Julian tornò a rivolgersi a lui: -Cosa festeggiamo?

 

Duncan guardò sorridente la fidanzata, diventata ancora più taciturna del solito: -Dopo mesi Merope si è finalmente convinta a farmi compagnia senza che ci fosse qualcuno dei suoi genitori a controllarci. Certo, James e Daphne sanno essere altrettanto severe, ma confido nel fatto che lo champagne saprà tenerli buoni.

 

Risero tutti, mentre James e Daphne assicuravano che ci sarebbe voluto ben altro per corromperli. Julian, però, riportò l’attenzione su ciò che con ogni evidenzia gli interessava.

 

-Come mai questo cambiamento?- chiese direttamente a Merope.

 

Lei prese tempo, con la scusa dello champagne. Inaspettatamente, la sua voce suonò serena quando rispose: -Ho sentito dire che questo gruppo è piuttosto coinvolgente.

 

Cuveé sembrò fin troppo compiaciuto della risposta.

 

-Le assicuro che è proprio così. Le parole di Reed, la voce di Nico… direi che accendono una scintilla dentro, la voglia di un cambiamento.

 

Da ragazzino, Duncan aveva imparato a sopportare ogni tipo di provocazione da parte di James e gli altri cugini Core. Era stato allora che aveva iniziato a controllare le sue reazione  e a impedire che queste trapelassero all’esterno: per chissà quale capriccio, Cuveé aveva deciso di giocare con Merope e di conseguenza con lui. Se in un altro uomo questo avrebbe scatenato rabbia e gelosia, in Duncan invece aveva acceso quella scintilla di cui stava parlando. Aveva sfidato qualcuno che amava le sfide più di ogni altra cosa al mondo.

 

Lo champagne continuava a solleticarle le labbra e la bocca, confondendole la vista e l’udito.
Nella sua testa le voci dei cantanti si mescolavano a quella bassa di Julian.
Le raccontavano di un pittore intento a imbrattare un giglio.
Il più prezioso.


 

2013

 

Quella dannatissima strada non avrebbe mai avuto fine.

 

Ade appoggiò la testa allo schienale del sedile, scrollandola lievemente per svegliarsi. Stava guidando interrottamente da ore, con gli occhi che gli lacrimavano per lo sforzo di mantenerli fissi sulla jeep davanti a lui, a bordo della quale si trovavano Matt Chambers e sua moglie Caroline, gli amici dei tempi della scuola che li avevano ospitati nella loro prima settimana di viaggio, trascorsa ad Atene.

 

Avvertiva la testa pesante per la sbornia della sera precedente e il fegato che lanciava segnali di protesta. Abbassò il volume della radio, ringraziando mentalmente i The Fratellis per averlo tenuto sveglio fino a quel momento, sfilò il telefono dalla tasca e compose il numero di Caroline, per domandare di fermarsi al primo ristorante che avrebbero incontrato per riprendersi un poco dalla stanchezza.

 

A dispetto di ogni convinzione, era felice di averli ritrovati. Matt era stato un suo compagno al Winchestern College, il primo ad avvicinarlo quando i suoi genitori lo avevano spedito a studiare in Inghilterra, quattordicenne silenzioso e riservato in mezzo ad una classe di decisamente poco accoglienti adolescenti provenienti dalle famiglie più ricche del Paese. Avevano scelto indirizzi diversi al College, lui aveva studiato teatro, mentre l'amico si era diplomato in scienze politiche, ma nonostante tutto non si erano mai persi di vista durante quegli anni: era stato Matt il primo ad avvicinare Caroline e Charlotte Fairfax, in un pub di Cambridge, durante una delle prime settimane del College. Fra i primi due era stato amore a prima vista, mentre cosa ben più difficile era stata per lui conquistare Charlotte: affascinante, affabile, raffinata e mondana, la ragazza era tanto bella quanto ambita. Non era mai stato abituato a ricevere molti "no", perché se non fosse bastato il suo bell'aspetto, il suo nome e il suo fondo fiduciario avevano sempre contribuito a far capitolare qualunque ragazza su cui avesse puntato gli occhi. Lei era stata la prima a fargli sudare ognuna delle costose camicie che teneva ordinatamente allineate nell'armadio. Alla fine, però aveva ceduto: due anni erano stati tutto quello che la vita aveva loro concesso, prima che le loro sciocche scelte e la loro immaturità ne deviasse bruscamente il corso.

 

Rivedere Caroline aveva risvegliato in lui un groviglio di sentimenti che credeva ormai sopiti: rabbia, senso di colpa, una nostalgia che per giorni lo aveva tormentato, rendendolo spesso assente, perso in un passato che si risvegliava travolgendolo a ondate, lasciandolo spesso a corto di parole. Ritrovarsi sotto gli occhi la prova vivente che Charlotte era vissuta davvero lo atterriva; per anni aveva tentato con ostinazione e tenacia di cancellarne il ricordo, ma l'incontro con la sua gemella l'aveva violentemente spinto indietro, ricordandogli che erano davvero esistiti giorni in cui lei aveva riempito le sue giornate, lo aveva baciato, toccato, lo aveva amato.

 

Deglutì a fatica, concentrandosi sulla strada nel vano tentativo di scacciare i pensieri che lo tormentavano. Charlotte, Caroline, Matt, Ben e ogni altra persona viva nella sua mente in quei giorni appartenevano ad un mondo che lo aveva rigettato con ingiusta e inaspettata violenza: lasciarsi andare ai suoi richiami avrebbe significato lasciarsi vincere nuovamente dalla brama di una vita che ormai non poteva più appartenere a chi, come lui, era stato punito e condannato in via definitiva per gli errori che aveva commesso. A cosa erano serviti tutto il dolore, la forza di tirare avanti nonostante tutto se poi bastavano pochi giorni di debolezza per gettare all'aria il lavoro di anni?

 

Non poteva permettersi di perdere di vista il solo obiettivo che l'aveva spinto a intraprendere quel viaggio. Avrebbe trovato Ben, avrebbe pareggiato i conti una volta per tutte e poi sarebbe potuto tornare al suo girovagare, dimenticandosi di quei giorni, esattamente come aveva fatto con ogni giorno della sua vita precedente a quello che gliel'aveva rovinata per sempre.

 

Rialzò con un gesto secco della mano il volume dell'autoradio, sorridendo soddisfatto, mentre le note di Chelsea Dagger invadevano l'abitacolo. Accanto a lui, Taigete sembrava ancora profondamente addormentata, con le gambe incrociate sul cruscotto e il diario di sua nonna come sempre aperto in grembo: se l'avesse svegliata, avrebbe cominciato a protestare per la musica, avrebbe trovato da ridire sulla velocità, sui tempi di percorrenza e sul caldo per il puro gusto di fargli saltare i nervi. In fondo, se aveva resistito in silenzio fino a quel momento, poteva farlo ancora per qualche minuto. Abbassò il finestrino, lasciando che l'aria si portasse via un po' del suo torpore, cominciando a canticchiare sovrappensiero: decise che i pensieri, le preoccupazioni e i segreti, potevano attendere ancora qualche minuto. Almeno fino a che Tai non si fosse svegliata, ricominciando a tartassarlo con la sua parlantina.

 

Avevano suonato alla porta del piccolo hotel che Caroline e Matt gestivano ad Atene. Lo stabile si trovava vicino all'Agorà, in un palazzo della fine del XIX Secolo, che probabilmente apparteneva alla famiglia Chambers, esattamente come le molte ville di cui lui stesso era stato più di una volta ospite in passato. Ammoudia, Capo Tenaro, Santorini, Ios, Zante. Erano innumerevoli le località dove il padre e il nonno di Matt avevano investito, trasformando aree disabitate in lussuose case per ricchi inglesi in vacanza: la loro già immensa fortuna aveva subito un'impennata, loro si erano riempiti le tasche e i figli avevano goduto di tale patrimonio per anni. Non era mai stato però ad Atene, nel posto che Matt e Caroline avevano scelto per trovare la loro piccola fortuna, o forse la loro tranquillità, lontani dai fantasmi di un passato che aveva segnato tutti loro, squarciando ferite che nemmeno il tempo sarebbe stato in grado di rimarginare.

Quando Caroline aveva aperto la porta era sbiancata: erano anni che non faceva avere sue notizie a nessuno di loro e vi erano buone probabilità che persino loro avessero cominciato a pensare il peggio sul suo conto.


Lui, per parte sua, era rimasto a fissarla ammutolito: era bella come la ricordava, Caroline. Lei e Charlotte lo erano sempre state, ma la maturità le aveva conferito un'aria più adulta e seria, che la rendeva ancora più affascinante, se possibile: l'unica cosa che riusciva a pensare era che se Charlie fosse stata ancora viva, probabilmente avrebbe avuto l'aspetto della sorella. Per un attimo ebbe l'impressione di vederla davanti a sé, stretta in un semplice paio di jeans e in una camicia dai colori vivaci. E se fosse stato lui e non Matt l'uomo che si avvicinava con gli occhi sgranati dallo stupore di rivederlo? Dopotutto Charlie amava quei posti e lui amava quella che diventava quando si allontanava dalle rigide convenzioni dell'alta società inglese e, scalza, passeggiava in shorts stracciati e costume per le stradine di quei luoghi fuori dal tempo.


-Scusalo.- Tai lo aveva riportato alla realtà, scuotendolo per un braccio. -Suppongo che sia la stanchezza del viaggio. Dopotutto ha dormito solo...quindici ore, suppergiù.


Caroline era scoppiata in una risata, stringendogli, finalmente, le braccia attorno al collo.


-Sono felice di vedere che, alla fine, ti sei sistemato anche tu. L'ultima volta che ho avuto tue notizie, le voci dicevano che ti trovassi su una nave da crociera a fare il pagliaccio per coppie in viaggio di nozze e agiati pensionati,- lo canzonò baciandolo sulle guance ruvide di barba.


-Di qualcosa si deve pur vivere,- aveva obiettato con una scrollata di spalle.


-E vi siete conosciuti lì? Tu eri una sposina infelice e il bell'Amleto ti ha rubato il cuore?


Accanto a lui, Tai era scoppiata a ridere imbarazzata, tentando invano di mascherare il suo divertimento con colpetti di tosse.


 -Carrie, posso presentarti Taigete... McDeer? É la cugina di Ben, non la mia fidanzata.


 Carrie aveva annuito, scrutandola con curiosità, sempre più confusa. -Pensate di fermarvi in città? Fra due giorni chiudiamo, perché nel weekend raggiungiamo la sorella di Matt a Capo Tenaro. É il suo compleanno e noi dobbiamo comunque essere presenti alla chiusura del Bed & Breakfast che abbiamo aperto laggiù. È un peccato che siate arrivati così tardi, ma forse potreste godervi gli ultimi giorni di sole, se voleste venire con noi. In più sono sicura che Susan sarà contenta di vederti...


-Noi...- aveva obiettato Tai, cercando appoggio in Ade. Appoggio che, tuttavia, non era arrivato perché lui si era intromesso troncando il suo discorso. -Noi verremo volentierissimo. Tai, il complesso di Capo Tenaro dei Chambers é meraviglioso, devi assolutamente vederlo.


-Ma...


-Niente ma,- l'aveva interrotta Carrie. -Ormai é deciso. Almeno potremo prenderci qualche giorno per stare insieme. Ora, forza, andate a sistemarvi, che io finisco di sbrigare le ultime faccende e poi usciamo a cena.

 

-Mi spieghi che ti salta in mente?- lo aveva aggredito Tai quando si erano trovati soli in ascensore.-Siamo qui per trovare Ben, non per goderci le vacanze!


Ade l'aveva fissata a braccia conserte, scrutandola dall'altro in basso, per poi risponderle con tono di sufficienza: -"Sai Carrie, non ci vediamo da sei anni, tu sai per caso dirmi qualcosa di una persona che sta infrangendo la legge di almeno tre paesi, spacciandosi per morto? Ho bisogno di trovarlo e convincerlo a costituirsi." Pensi davvero che se qualcuno fra loro é a conoscenza di qualche informazione basti domandare per ottenerle?


Tai aveva aperto più volte la bocca, senza sapere come replicare: sapeva di non avere scelta, doveva seguirlo se desiderava davvero trovare suo cugino. Era stato allora che Ade si era avvicinato sollevandole il mento con le due dita della mano tesa, costringendola a sollevare gli occhi sul suo viso.


-Tai, questa cosa non può funzionare se non ti fidi di me e non fai quello che ti dico.


La ragazza lo aveva fissato smarrita per qualche istante, sostenendo il suo sguardo senza battere ciglio: era sicuro che si sarebbe ciecamente fidata di lui, nonostante sentisse di non piacerle fino in fondo. Ma il bisogno di trovare Ben, qualunque fosse la ragione che lo scatenava, era più forte di qualunque dubbio, timore o sentimento di repulsione che la sua presenza potesse provocare in lei. Per un attimo ebbe il fugace istinto di afferrarla per le spalle e scuoterla, intimandole di fuggire il più lontano possibile, ma fu un istante, prima che lei si sciogliesse in un sorriso, siglando nuovamente il patto che li aveva spinti a partire di tutta fretta per la Grecia.


-Questa Caroline quindi...- aveva insinuato con un sorriso divertito la ragazza, cambiando bruscamente argomento.


-Non é come pensi.


-Eppure sembravi ipnotizzato…


Lui l'aveva fissata in silenzio, dandole probabilmente l'impressione di non volere nemmeno rispondere. Poi, d'improvviso, aveva cominciato a parlare, ancor prima di riuscire a valutare con razionalità l'entità di ciò che stava per confessarle.


-Si chiamava Charlotte ed era identica a lei, tranne che per temperamento. Charlie era vitale, energica, affascinante, Carrie è riflessiva, seria e inquadrata. Siamo stati insieme quasi due anni prima...- aveva abbassato di colpo la voce, come se il solo pronunciare le parole "incidente" o "incendio" suonasse ancora troppo reale, nonostante fossero passati anni. -Forse, se non fosse morta, oggi sarei a Londra sposato, anziché qui ad Atene, incastrato dentro un ascensore senza possibilità di fuggire alle tue domande petulanti.


Tai aveva sgranato gli occhi, sorpresa da tanta schiettezza. Stava ancora cercando le parole con cui rispondergli quando le porte dell'ascensore si erano aperte alle sue spalle.


-É il tuo piano, credo,- le aveva detto aiutandola a sollevare il pesante zaino che si trascinava dietro nonostante fosse grande quasi quanto lei. -Ci vediamo dopo.




-I said, tell me your name is it sweet, she said my boys is dagger, oh yeah...(2)

 

Tai aprì gli occhi, rendendosi conto di essersi assopita senza volerlo. Rimase ad ascoltare in silenzio la voce flebile di Ade che, ignara che lei fosse sveglia, seguiva le parole di… come si chiamava quella canzone con cui l'aveva sfinita negli ultimi giorni? Trattenne uno sbadiglio e stropicciò più volte gli occhi per riprendersi, sentendosi in colpa per non avergli tenuto compagnia.

 

Alla partenza, l'avevano tenuta sveglia qualche iniziale battuta sullo stato pietoso del suo viso solcato da profonde occhiaie e del suo look da "bad girl reduce da festino a base di sesso droga meno che il rock&roll, visto che in fatto di musica sei ignorante come una capra" e, naturalmente i bassi e la batteria degli Smiths sparata dalle casse dell'autoradio. Aveva provato ad abbassare il volume, nel tentativo di sedare il martellante dolore alla testa che la tormentava: probabilmente Ade gliel'avrebbe anche lasciato fare senza profferir parola, se non fosse stato che quelli che stavano ascoltando erano, in realtà, i Cure. Ma questo, naturalmente, Tai l'aveva scoperto solo dopo che aveva detto che la voce di Robert Smith, nella sua testa notoriamente cantante dell'omonima band, le stava penetrando il cervello.

 

-Taigete McDeer. Se non fosse che probabilmente Caroline mi spedirebbe a calci a riprenderti, ti avrei già defenestrata, abbandonandoti al tuo triste destino nella periferia di Atene. Seriamente sei la cugina di Benjamin McDeer? Che facevi mentre lui divorava vinili, ti chiudevi in camera ballando sulle note delle Atomic Kitten?

 

Dopo quella piccola diatriba iniziale, però, Ade era piombato in uno di quei silenzi ostinati e prolungati che lo ammutolivano d'improvviso, il viso impassibile, gli occhi scuri fissi sulla strada davanti a lui, le labbra serrate. Picchiettava nervosamente con le dita della mano sinistra sul volante, tenendo il ritmo delle percussioni che scandivano il ritmo della colonna sonora del viaggio. Era stata a osservarlo accondiscendente, senza profferire parola, cercando di rispettare quella tacita richiesta di fare silenzio che le stava mandando.

Era ormai passata una settimana da quando erano partiti e ancora Tai non era riuscita a inquadrarlo: vi era qualcosa in quegli occhi scuri, profondi, che non riflettevano alcun bagliore, che la inquietava, ma che al contempo la attraeva come un enigmatico rompicapo di cui non riusciva a trovare una soluzione. Più lo guardava, tentando di decifrarne i pensieri e le intenzioni, più Ade le sfuggiva, senza farsi mai realmente comprendere. Pensava allo sguardo di Alistair, così limpido e cristallino, alla sicurezza che le dava osservarlo e intuire sempre a cosa stesse pensando. Con Ade era diverso: ogni volta che era certa di aver trovato la chiave per leggere il suo atteggiamento schivo, scostante ed enigmatico, a tratti estremamente riflessivo e capace di sorprenderla, ecco che si chiudeva in un mutismo ostinato, materializzando un'assenza che la metteva molto più a disagio del temperamento scontroso di cui amava dare sfoggio di tanto in tanto.

 

 

Era appena giunti ad Atene. Dopo essersi sistemata nella stanza assegnatale, Tai era uscita a passeggiare: aveva trascorso quel tardo pomeriggio girando a tempo perso nei pressi dell'Agorà, perdendosi fra i profumi e le spezie dei prodotti che tracimavano dalle bancarelle. Stava sgranocchiando una mela e ponderando se fosse lecito o meno comprare un sacchetto di olive e finirlo prima ancora del tramonto quando, alzando la testa, lo aveva scorto in mezzo alla folla. Sarebbe stato difficile non distinguerlo, visto che superava di almeno una spanna la media dei visitatori che si accalcavano fra i banchi.


-Hey, sei tu,- le aveva accennato quando aveva richiamato la sua attenzione, sfiorandogli un braccio.


-Piccolo il mondo, eh?-


Si era lasciata trascinare fuori dalla calca, ancorandosi al suo braccio per non perderlo di vista.


-Ti va una birra? Conosco un posto dove ne servono una che può quasi essere considerata tale...- le aveva domandato inaspettatamente, accennando a un piccolo Irish pub con piccoli tavolini dinnanzi all'entrata chiamato "The James Joyce". Era stato così che si erano ritrovati a chiacchierare davanti a una pinta di Guinness. Lo aveva ascoltato a lungo, mentre le raccontava dei suoi viaggi in Grecia con Matt, Caroline e Charlotte e di come ritornarvi fosse strano, dopo tutto quel tempo: l'ultima volta che vi si era recato, la compagnia nella quale lavorava, portava in scena le Eumendi per turisti disposti a pagare cifre assurde pur di poter sbandierare al ritorno di aver assistito alla messa in scena di una vera tragedia.


-É stato prima o dopo l'esperienza in crociera di cui parlava Caroline?- gli aveva domandato Tai allora.


-Dopo.


-E non li hai mai contattati, benché sapessi che vivevano qui?- aveva continuato stupita.


-Tu fai troppe domande per i miei gusti.


-Domandare é lecito, rispondere é cortesia. E tu, quella, non sai nemmeno dove sta di casa.


Era stato allora che Ade l'aveva colta di sorpresa scoppiando in una risata aperta e sincera, la prima da quando lo conosceva. Erano stati pochi attimi, ma Tai aveva avvertito tutta la tensione che si creava fra di loro ogni volta che si trovavano forzati a socializzare, svanire nell'esatto momento in cui anche lei si era lasciata andare a quel breve attimo di spensieratezza. Si era sentita sollevata a tal punto, che aveva cominciato a ridere ininterrottamente, senza un reale motivo. Era stato solo quando un sorso di Guinness le era andato di traverso che si era fermata a pensare a quanto assurda fosse l'intera situazione: si trovava all'altro capo dell'Oceano, seduta sotto un sole ancora estivo nonostante fosse ormai settembre inoltrato, a sorseggiare birra con un uomo di cui non sapeva nulla, ma con il quale, per qualche strana ragione, stava condividendo emozioni ed esperienze di cui nemmeno con alcuni dei suoi amici più cari si era mai trovata a discorrere.


-Non volevo sentirmi in obbligo di rivivere certe questioni.- le aveva risposto poi Ade, tornando improvvisamente serio. All'udire tale confessione, Tai aveva sentito di provare qualcosa di molto simile alla pena per lui: cosa poteva provare qualcuno che aveva visto il proprio mondo polverizzarsi, mangiato dalle fiamme di un fuoco capace di portarti via tutto, amici, amore, dignità, senno forse?


-Sei sempre così ossessionato dal tuo passato?- si era ritrovata a domandargli prima di riflettere.


-Tutti lo siamo, in fondo,- le aveva risposto lui scrollando le spalle. -Non mi sembra che tu sia da meno.


-Spiegati meglio.


-Ti ho osservata, Tai, in questi giorni. Te ne stai sempre a leggere le pagine di quella copia consunta dell'Amleto o le memorie di tua nonna racchiuse in quel diario. Come se la risposta alle tue incertezze si trovasse fra i rassicuranti tratti di quella penna o fra le parole di un'opera scritta cinquecento anni fa dalla mente più diabolicamente macchinosa mai conosciuta a memoria d'uomo. Credi che non sappia cosa significa per te quel libro? Ho vissuto quattro anni con Ben, anche lui conservava la sua copia nemmeno fosse una Bibbia di raro valore.


-Io non...


-Sei ossessionata a tal punto da quel passato che stai tentando di tornare indietro nel tempo pur di non dovere affrontare il futuro che ti attende.- l'aveva interrotta fissandola direttamente negli occhi.


-Non sono scappata.


-Vedila come vuoi.- Ade si era lasciato andare, appoggiandosi allo schienale in legno della panca su cui sedeva: non sembrava quasi più interessato a farle saltare i nervi: era come se, in qualche modo, fosse già consapevole di aver avuto la meglio, in quella piccola disputa.


-Sto solo cercando mio cugino.


-E la sua benedizione per lanciarti in qualcosa che non hai il coraggio di affrontare da sola.


D'un tratto tutta l'allegria che l'aveva pervasa qualche minuto prima, aveva lasciato lo spazio a un senso di frustrazione e rabbia improvvisi.


-Sai cosa ti dico?- gli aveva domandato con voce strozzata e aria di sfida. -Io farò troppe domande, ma tu ti prendi troppe libertà.


Ade l'aveva fissata intensamente per qualche istante, le sopracciglia inarcate, lo sguardo perplesso, rigirando pensieroso fra le labbra il boccale di birra. Poi, inaspettatamente, lo aveva posato e le aveva porto le sue scuse. Senza lasciarle il tempo per risponderle, si era poi alzato e si era diretto al bancone, dove aveva ordinato altre due pinte di birra che avevano consumato pianificando le tappe del viaggio, mutate a causa dell'invito di Caroline e Matt, ignorando quel piccolo diverbio.


Quando Tai si scrollò, riemergendo dai ricordi di quella settimana, Ade stava ancora canticchiando. Si sorprese a pensare che la sua voce le infondeva allegria e tranquillità: vi era una spensieratezza, nel suo tono e nell'espressione rilassata del suo viso, che contrastava nettamente con l'immagine misteriosa ed enigmatica che tentava di dare di sé. Rimase ad ascoltarlo rapita ancora qualche istante poi, incapace di trattenersi oltre, mormorò con parole impastate dal sonno: -Hai una bella voce.

 

Ade sussultò, arrossendo imbarazzato.

 

-E sei anche arrossito come un'educanda.

 

-Sai che si stava veramente bene, mentre dormivi?- le domandò sarcastico.

 

-Davvero? Immagino sia per questo che hai detto a Carrie che avevi bisogno di compagnia...

 

Ade non rispose, ma accennò un debole sorriso, il primo vero che le aveva rivolto quella mattina: -Ho bisogno di ingerire qualcosa per scacciare i postumi della sbornia di ieri sera, temo. Credo di avere ancora più alcol che plasma, nelle vene.

 

Alcol.


Ecco la ragione di quella strana confidenza che si era instaurata fra di loro in quei giorni: Cosa avevano fatto la notte prima? Riusciva a ricordare chiaramente tutto ciò che era successo a cena, ma non avrebbe saputo ricostruire esattamente le dinamiche successive della serata o, almeno, di quelle che avevano seguito il momento in cui Matt si era messo al pianoforte a biasciare Blue Moon e Caroline aveva tirato fuori una bottiglia ghiacciata di vodka alla menta. Come se non avessero già bevuto abbastanza a tavola.

 

-Ho ricordi un po' confusi di ieri sera.- ammise infine.

 

-Stai scherzando?- le domandò con tono così serio che la fece preoccupare.

 

-Dovrei… ricordarmi qualcosa?

 

Ade tacque, mordicchiandosi un labbro perplesso.

 

-Qualcosa che c'entra con il fatto che indosso i tuoi vestiti?- domandò esitante, indicando perplessa la felpa -o forse avrebbe dovuto dire vestito- che si era buttata addosso la mattina prima di partire.

 

Al prolungarsi del silenzio dell'uomo, Tai sbiancò: non era possibile che fosse successo qualcosa di strano.

 

-Ade io... Alistair... sto per sposarmi...- balbettò imbarazzata. -Devi capire, non faccio certe cose... cioè... perché stai ridendo??

 

-Ti prego, vai avanti...-

 

-Mi stai prendendo in giro?- sibilò, furente. -Non é successo niente, vero?

 

Ade negò con il capo, la schiena scossa da eccessi di risate, il viso arrossato per lo sforzo di trattenersi.

 

-Ho perso cent'anni di vita! Si può sapere che diavolo di salta in mente?? E. Smettila. Di. Ridere!- Se avesse potuto, avrebbe usato la sua copia dell'Amleto come arma contundente se non fosse stato che, fra i due, non sarebbe stata testa dura di Ade, quella a uscirne malconcia. E teneva troppo al quel ricordo per sacrificarlo, sebbene si trattasse di una più che nobile causa.

 

-Scusami, Tai. Era troppo divertente.

 

-Mi sembra che l'unico a divertirsi, qui sia stato tu...

 

Si appoggiò allo schienale imbronciata, meditando una vendetta che gli facesse rimpiangere quello scherzo puerile, quando lo sguardo le cadde infine sul taccuino di sua nonna che reggeva sulle gambe.

 

 

-Avanti.

-Volevo solo accertarmi che stessi bene e ti trovassi a letto, non abbracciata al gabinetto. Quella vodka finale ha messo KO persino me...


-Sto bene,- gli aveva risposto sollevando lievemente il diario di sua nonna. -Sto leggendo.


Senza domandarle il permesso, Ade si era seduto sul bordo del letto, accanto a lei.


-Sempre quel diario? Tai aveva annuito facendogli spazio. Non avrebbe saputo dire cosa ci fosse, in quella storia, che l'attirava tanto: eppure avvertiva un vago parallelismo fra i fatti narrati da Merope Core e quello che stava vivendo lei. E non si trattava della festa di fidanzamento, del matrimonio, del dono della dannatissima collana di diamanti, né tantomeno dell'irruzione nella sua vita di uno sconosciuto che ne stava inaspettatamente deviando il corso. Aveva l'impressione che sua nonna stesse cercando di comunicarle qualcosa che non riusciva ad afferrare: qualcosa che Merope stessa non trovava le parole per descrivere, come un sentimento così a lungo sopito e nascosto che non riusciva a trovare espressione.


-Posso leggerlo?- le aveva domandato timidamente fissandola negli occhi. Gliel'aveva allungato prima di rendersene conto, rimanendo a studiarlo a lungo mentre, sempre più rapito, si beveva una ad una le parole di sua nonna. Non aveva idea di quanto fossero rimasti così, il tempo le appariva come distorto e alterato: tutto ciò che riusciva a ricordare, prima del buio totale del sonno in cui era sprofondata, erano un improvviso aroma di bergamotto e fiori d'arancio accanto al suo viso e la sensazione di tepore di qualcosa che le aveva scaldato le gambe intorpidite dalla frizzante aria della notte settembrina.



-Hai letto il diario.

 

-Solo le prime pagine,- confessò Ade. -Ho notato che tu non ne leggi mai più di un paio al giorno...

 

Tai sorrise di quella piccola premura, stringendosi, come per proteggersi, nella felpa che indossava.

 

-Ora capisco perché ne sei così ossessionata. Tua nonna ha avuto un passato molto affascinante... e Julian Cuvée è una figura estremamente interessante.

 

-Nel passo che sto leggendo, sembra paragonare mia nonna a Persefone...- insinuò lei con tono perplesso, come se solo in quel momento si rendesse conto di quella curiosa coincidenza.

 

Il sorriso di Ade, per un attimo sembrò morire sulle sua labbra sottili. -Mi stai dicendo che questo farebbe di lui... Ade?

 

Tai fissò in silenzio le pagine ingiallite, sfiorandole con le dita che tremavano. Il cuore aveva accelerato d'improvviso i suoi battiti, tanto che temeva che prima o poi, essendo così vicini, il suo compagno di viaggio se ne sarebbe accorto: sospirò profondamente, tentando di calmarsi.

 

-Se la memoria non mi inganna...- mormorò infine voltandosi incerta verso di lui, per studiarne l'espressione. Con un pizzico di delusione notò però che Ade sembrava più interessato al trovare un posto libero nel parcheggio del ristorante in cui erano infine giunti piuttosto che alle parole della giovane Merope. Possibile che fosse lei, l'unica a farsi suggestionare in quel modo da quelle pagine?

 

-Vedi Tai,- cominciò a spiegarle infine lui, dissimulando serietà e compostezza. -Ci sono almeno due buoni motivi per cui questa cosa non potrebbe funzionare. Primo: non ho un regno da offrirti. E a dirla tutta nemmeno uno cui imprigionarti contro il tuo volere, a meno che non si possa considerare fortezza un bilocale vuoto a Greenwich. Secondo: Alistair deve avere un qualche potere magico per sopportare da mesi tutte quel mucchio di idiozie su centrotavola in argento e tovaglie ecru, perché io mi sono sentito male alla seconda telefonata fra te e tua madre. Ah, a proposito, dimenticavo la ragione più importante: ho troppo paura di Erin Core per rapirti e mettermela contro. Altro che lungo inverno, sarebbe capace di svegliare Obama e fargli scatenare la terza guerra mondiale per il solo gusto di potermi deferire a un tribunale di guerra e farmi fucilare con pubblica esecuzione a Times Square.

 

Poi senza darle il tempo per rispondere, uscì dalla macchina e si avviò verso il ristorante, scosso da eccessi di risate che non riusciva più a trattenere, lasciandola sola e senza parole a guardarlo allontanarsi. Forse aveva ragione lui, tutta quella storia era ridicola: il diario, il fascino che la storia di sua nonna stavano esercitando su di lei, erano mera suggestione. Sicuramente il suo sentirsi così stranamente libera e spensierata, lontana da New York, non significavano nulla, se non che aveva bisogno di distrarsi per qualche giorno dallo stress del lavoro, del trasloco, del matrimonio. E Eugene Aderley, lui non era altro che un compagno di viaggio, qualcuno che le era necessario per trovare Ben: presto avrebbero avuto sue notizie e allora ognuno sarebbe tornato sui suoi passi dimenticandosi per sempre l'uno dell'altro.

Si era appena chiusa lo sportello alle spalle quando, rialzati gli occhi verso Ade, lo vide bloccarsi di colpo nei pressi di una fila di piante che segnavano il confine fra l’area del piccolo ristorante dove si erano fermati e il campo retrostante, dove correva un duplice filare di ulivi. Senza vederlo in volto, la colpì la netta certezza che, d’improvviso, il sorriso gli si fosse gelato sulle labbra: davanti a lui, una fila di quattro piccoli alberi di melograno cominciava a mostrare i suoi frutti al tiepido autunno in arrivo.

 

Lo raggiunse, fermandosi ammutolita al suo fianco. Erano ancora piccoli e acerbi, ma senza dubbio di lì a breve sarebbero cresciuti trasformandosi in quei frutti succosi che da bambina si divertiva a spolpare per ore con le mani coperte dai guanti di plastica che le forniva Rose, la sua tata. Alzò gli occhi verso il viso di Ade: poteva avvertirne distintamente la mascella contratta, il lieve rossore che si stava espandendo sulle guance e, infine, il respiro lievemente affannato. E fu così che, vedendolo talmente turbato, fu lei a scoppiare in una lunga risata, nata forse più dal desiderio di stemperare la tensione che si era creata fra loro, che da un reale moto di divertimento. Poggiò la fronte alla sua spalla, scossa dai singhiozzi, sentendolo infine sciogliersi e lasciarsi andare e, d’improvviso, tutti i dubbi, il nervosismo e la perplessità sembrarono soccombere dinnanzi all’assurdo surrealismo di quell’istante.

 

-Vi volete dare una mossa?

 

La voce di Caroline giunse da lontano, ovattata, come proveniente da una realtà parallela.

 

Ade le cinse le spalle con un braccio e, delicatamente, la trascinò lontano da quel campo.

 

-Che ne dici, evitiamo la torta di melograno, se ce la propongono?-   

 

Dopotutto, l’idea, non sembrava così malvagia.

 

"Un giorno, unica tra tutte le divinità, la figlia di Demetra fece un gesto folle: scese sulla Terra, condannandosi a un’esistenza nell’Averno.

Parole frettolose, scarabocchiate come se non avessero un filo logico. Quella pagina di pensieri la inquietava: era come se sua nonna stesse vivendo senza coordinate, muovendosi in un mondo a lei ignoto e sconosciuto, che l'attraeva magneticamente, ma l'atterriva di paura al contempo. E, in quel mondo, infine, lui, che era fatto di morte e non riusciva a commuoversi. Ade.

 

-Ade? -

-Dimmi.-

-Conosci una canzone che contiene questi versi? "Sunday morning and I'm falling, I've got a feeling I don't want to know..."-

-Che i tuoi dei possano avere pietà della tua anima, Taigete...-

-Smettila di fare il cretino. La conosci?-

-Si intitola Sunday Morning, è forse la più famosa canzone dei Velvet Undergorund... perché?-

-Così...-

 

Scrollò le spalle sbadigliando, vinta nuovamente dalla stanchezza, mentre nella mente si materializzava un viso giovane, diafano, dai capelli scuri, illuminato da un faro bianco accecante. L'incubo ricorrente che, con angosciante ciclicità, la tormentava sin da bambina, quando scivolava inerme e indifesa nell'oscurità dei suoi sogni.


"puoi rimanere casta come ghiaccio,
candida e pura come fior di neve,
ma non potrai sfuggire alla calunnia."(3)

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

Note delle autrici


(1)Maia fornisce una indicazione generica, perché non sarebbe molto da lei ricordare l’anno esatto, e Gabriel può solo ipotizzare. Si tratta, in realtà, degli ultimi mesi di vita di Edoardo VI, figlio di Enrico VIII e fratello di Maria: era protestante e i cattolici inglesi speravano di mettere sul trono la cattolica Maria dopo di lui. I protestanti desideravano Jane Grey. Successe in effetti Jane, ma regnò solo nove giorni prima che Maria la facesse decapitare. Il regno di Maria I fu segnato dalla persecuzione contro i protestanti, che le valse l’appellativo di “Sanguinaria”

 

(2) Chelsea Dagger, The fratellis

 

(3) Amleto, Atto III, Scena I



Eccoci giunte in fondo al terzo atto. Un atto denso di avvenimenti e che, soprattutto, vede il primo, vero avvicinamento delle nostre tre protagoniste con gli Ade. Cosa ne pensate di questi incontri? Vi preoccupano le deboli posizioni dei tre fidanzati?

Che dire...come forse avrete notato, noi tre ci stiamo appassionando sempre di più a questa storia. Chi ci conosce sa quanto sia importante per noi il suo sviluppo e soprattutto quanto ci teniamo a questo branco di esseri (un pochino disagiati, sì). Quindi ci raccomandiamo, continuate a farci sapere cosa ne pensate voi, come li vedete, qual'é la vostra opinione, insomma. Noi siamo troppo poco obiettive per farlo :D


Veniamo ora ai ringraziamenti più che dovuti: grazie, ancora una volta, a chi ci ha recensite, a chi ci fa sapere cosa ne pensa di questa avventura in altri luoghi e a chi ha inserito la storia tra le ricordate/seguite/preferite. Grazie a chi segue i nostri deliri, nei rispettivi gruppi, a chi ama Panca, lotta per la riabilitazione di Euscemo e pensa davvero che Gabriello abbia bisogno di un bravo psicanalista. E grazie anche a chi ci legge in silenzio, sostenendoci comunque.


Grazie a tutti!




Per chi desidera seguirci anche fuori da EFP, per ricevere aggiornamenti, spoiler, o semplicemente per conoscerci e scambiare due chiacchiere, ci trovate qui:

- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti e, soprattutto, Buone Feste!

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






   
 
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