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Autore: Mockingjayonfire    24/12/2013    1 recensioni
Mi chiamo Elizabeth ed ho 16 anni. Cos'ho di speciale? In realtà niente: vivo in una città come tante altre e faccio una vita piuttosto monotona. Una normale, si fa per dire, adolescente insomma. Ma io voglio raccontarvi di lui, lui e me. Non giudicate il tutto soltanto da questa frase, non è la più bella storia d'amore. Forse non è neanche una storia.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Venerdì mattina, il peggior giorno dopo il Lunedì. Era l’ora di matematica ed eravamo tutti quanti stanchissimi. Non si poteva dire che fossimo mai stati tanto attivi come classe, ma ormai era dicembre e non si poteva pretendere più molto. Eravamo 21 ragazzi di 3° superiore che si odiavamo-amavano e che non comunicavano quasi per niente. Chiunque fosse entrato in quella classe poteva benissimo notare l’invisibile nastro rosso che divideva la classe. Si perché eravamo proprio così, divisi in due grandi gruppi anche con i banchi. Io stavo nell’ala sinistra, quella degli sfigati però non mi ritenevo sfigata. Il mio gruppo era composto da persone particolarmente fuori dal normale: non si seguiva nessuna moda, eravamo intelligenti, odiavamo le oche e avevamo pochi amici. Nessuna di noi avrebbe voluto restare sola, ma a quanto pareva le persone tendevano a seguire il gregge di fighettini e visto che non lo eravamo e che pensavamo con la nostra testa, stavamo sempre al di fuori.
Al di fuori dei nostri problemi a relazionarci con le altre persone, quel venerdì noi eravamo stanchi e la professoressa sclerata. Ci urlava contro dicendo che facevamo casino mentre noi stavamo semplicemente per i fatti nostri. Tutti gli adulti dicevano di poter capire gli adolescenti perché anche loro lo erano stati, ma chi lo faceva davvero?
“Mariel, alla lavagna! Passi interrogata insieme a Brian” chiama la prof all’improvviso. Una delle due mie compagne di banco alza la testa e la guarda sconvolta. “Ma perché prof?” Mariel quasi urla, ma la prof non vuole sentire storie. Mi chiedo se Mariel sa qualcosa, ma probabilmente la risposta alla mia domanda è no. Negli ultimi mesi entrambe avevamo avuto un paio di problemi famigliari che ci avevano scombussolato la vita scolastica, così ora ci trovavamo a prendere perennemente 2 in molte materie. Con disinvoltura mi sdraia un po’ sul banco di Evelyn, la mia seconda compagna di banco, e cercai di osservare Mariel.
“Oggi non è tranquilla… Guarda sta sbuffando e muove troppo le gambe” mi dice Evelyn all’orecchio. In effetti non è per niente tranquilla, sembra anche più agitata del solito a dire il vero. Arricciai il naso tirando su. Mariel sembrava sul punto di scoppiare a piangere, e questo non prometteva nulla di buono. Mentre la prof stava facendo fare un paio di esercizi alla lavagna ad un nostro compagno, lei si alza dalla sedia ed esce dalla classe. ‘Cosa diavolo..?’ mi chiedo mentre la guardo uscire dalla classe restando a bocca aperta. Lei non era una di quelle persone che infrange le regole o si mette nei guai, ma quel giorno doveva essere arrivata al limite della sopportazione. Fisso la porta finchè non noto con la coda dell’occhio qualcuno nei primi banchi fissarmi. Mi giro e vedo che è Jared. I suoi occhi chiedono spiegazioni, ma in quel momento non sapevo che dire. ‘non lo so’ mimo con le labbra e mi stringo nelle spalle. Anche Evelyne è sconcertata, tanto da non riuscire a spiccicare parola. E quello era una cosa piuttosto rara se non grave. Jared sospira, annuisce e si guarda intorno. Forse qualcuno l'ha notato, ha visto che ci guardava, ma non sembra interessargli.
“Prof posso andare ai servizi? È urgente” disse alzando la voce tutto d’un botto per attirare l’attenzione dei prof. Ma la prof sta cercando la mia compagna. Tiro una gomitata ad Eve e le sussurro all’orecchio “Esci facendo finta di star andando da Mariel ma poi lasciala sola con J.” E la spingo via. S’incammina veloce verso la porta dicendo alla prof che la nostra compagna si era sentita male e che andava a vedere se stava bene. Non sapevo perché volevo lasciarli soli ma mi sembrava giusto così. Mi siedo appoggiando la schiena contro il muro e mi sento chiamare. Mi volto verso la fila di destra senza pensarci e incontro i suoi occhi. Jonathan, o meglio Nathan, era seduto proprio accanto a Francis, la ragazza che mi aveva chiamata. Cerco di ignorarlo per un momento concentrandomi su di lei. Anche le ragazze sedute davanti a loro si erano girate. Tutte aspettavano chi sa quale gossip, eh?
“Cos’è successo a Mariel?” chiese e vidi brillare di curiosità gli occhi di tutte. Con molta disinvoltura scrollai le spalle e risposi che non lo sapevo, ci aggiunsi anche un bel sorriso per sembrare più amichevole. Invece di tornare dritta al mio posto, rimasi a guardare quella fila. Volevo guardare Nathan, essere consolata dal suo sguardo e sapere che lui c’era e mi capiva. Era una sensazione strana quella, non avevo mai sentito il bisogno di qualcuno in quel modo. Forse perché ero sempre stata un’anima solitaria e alla fine ti abitui a tutte quelle mancanze. Indugiai ancora qualche secondo, le ragazze dovevano perdere completamente l’interesse per me e mettersi in gruppo a parlare. ‘3.. 2.. 1’ feci mentalmente il conto alla rovescia e infine spostai lo sguardo su Nathan. Lui sembrava aver pensato la stessa cosa perché si girò insieme a me e si mise a guardarmi, con occhi visibilmente preoccupati. Trattenni il respiro per qualche istante perdendomi nei suoi occhi verdi. Stupidamente mi voltai velocemente a fissare quello stupido libro di matematica come se fossi stata “beccata” a guardarlo. Il mondo era ingiusto, io lo volevo accanto a me e non laggiù accanto a tutte quelle oche giulive. Avevo bisogno di lui ora, perché mi sentivo in pensiero per la mia amica e perché.. potevo una volta volevo essere abbracciata, così senza un vero motivo ma un semplice pretesto? E sapevo che lui voleva starmi accanto, l’avevo capito. Quegli occhi erano tutto per me. Aveva uno sguardo così profondo e pieno di sentimenti da essere quasi indecifrabile, ma mi ritenevo fortunata ad essere in grado di riuscire a capirlo qualche volta. Lasciai cadere la testa sul banco e chiusi gli occhi. Finchè non sarebbe finita l’ora non c’ero proprio per nessuno, volevo soltanto sparire.

 

  
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