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Autore: BlackEyedSheeps    26/12/2013    3 recensioni
“E’ tutto a posto, vero?”
“Sono in vacanza. Cosa potrebbe andare storto? A parte i vicini di casa che decidono di trapanare i muri alle sette del mattino…”

Clint, ancora perseguitato dai superstiti demoni degli eventi di New York, è sempre più isolato. Quando la situazione tocca il fondo, Natasha decide di intervenire, rifiutandosi di restare a guardare. Ma anche lei dovrà fare i conti con i postumi della battaglia degli Avengers...
[Clint/Natasha] [Post-The Avengers]
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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N.d.A.: Hello! Come promesso (minacciato?) we're back!

La presente storia, divisa in sette parti – una per ogni peccato capitale! -, segue le precedenti A Plague I Call a Heartbeat e The Ties That Bind, concludendo (per ora? Chissà!) la trilogia Compromised. Siamo sempre nel MCU, cronologicamente più o meno dopo gli eventi di The Avengers. In ogni caso, non importa aver letto le due parti precedenti per poter seguire questa qua.

Grazie a tutti coloro che ci hanno letto, commentato, spulciato (?) in precedenza! Se avrete voglia di seguirci ancora, speriamo che anche questa terza long sia di vostro gradimento. Per ora è tutto :)

Buon Natale!

Eli & Sere

 

Disclaimer: Occhio di Falco, La Vedova Nera e tutti gli altri personaggi menzionati non ci appartengono, ma sono proprietà Disney e Marvel. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

 

CAPITOLO 1

 

I can't remember anything
Can't tell if this is true or dream
Deep down inside I feel to scream
This terrible silence stops me
Now that the war is through with me
I'm waking up, I cannot see
That there is not much left of me
Nothing is real but pain now…

(One, Metallica)

 

Accidia

 

Il rumore dei propri passi lungo la stanza scandivano il tempo che lo separava da lei.

L’odore del sangue. Forte, metallico. Difficile ingannare l’olfatto.

Immaginarne la vischiosità tattile, visiva. Sottili fili di porpora che si rincorrono in una danza elegante a cadere giù, in lucidi rubini.

Il sangue è un richiamo. La preda è braccata, indebolita.

Una traccia prepotente, sfacciata, che non lascia scampo.

Il respiro che riusciva a percepire era affannoso, tradiva - spietato - un lamento. Una macabra eco a scandire l’altrui conquista.

“Clint…” la voce non era che un fioco richiamo, indebolito, irreale.

 

Era bella Natasha, ancora vestita di tenebre. Il volto pallido, lunare. Un funebre contrasto.

Una freccia per mano a inchiodarla alla sua croce, come un grottesco burattino di cui ora poteva dirigere i fili. Le punte dei piedi che appena riuscivano a reggere il suo peso. La testa rossa che schermava i suoi occhi umidi.

“Che c-cosa ti ha fatto?”

Clint la guardava così come si osserva un’opera d’arte. Il suo San Sebastiano. La fredda valutazione di un’opera che attende l’ultimo, critico ritocco.

“Finisco quello che ho iniziato.” Non c’era emozione alcuna, non uno slancio di vita, in quelle parole.

“Non s-sei tu… non sei tu a volerlo”, in quella di lei una supplica appena accennata.

Natasha non aveva paura per sé. Questo sapeva dirlo nonostante la freddezza con cui accoglieva quella visione, quelle parole.

No, lei non temeva il giudizio finale, non la resa dei conti con la Nera Signora. Natasha supplicava per lui. Supplicava affinché lui recuperasse coscienza della sua stessa anima.

E nel farlo scrutava i suoi occhi. Con un’intensità tale che sembravano leggergli dentro.

Ma dentro non c’era nulla. Non più. Soffocato da una patina di indifferenza, di cieca obbedienza.

“Non farlo”, di nuovo una supplica, flebile e fastidiosa quanto un insetto molesto.

“Lo stai dicendo per me?”

“Non vuoi questo, Clint.”

“Non importa quello che voglio.”

“T’importerà.”

“Credi di essere così importante? O credi che io pensi che non te lo meriti?”

Il silenzio fu eloquente. “Lo meriti tanto quanto lo meritavano le tue vittime. Come lo meritiamo tutti. Non sono qui per valutare quanto sia legittima la tua redenzione…”

I suoi occhi, adesso poteva dirlo, tradirono incertezza, per la prima volta.

“Accogli questo come un dono, Natasha.”

Un altro passo e l’arco fu abbandonato, le frecce caddero, una dopo l’altra, dalla faretra. Si avvicinò con rapidità e la lama di un coltello vibrò di luce riflessa, lanciando un riverbero sulla candida pelle della sua gola.

“La pace arriva per tutti, prima o poi”, le disse.

Un ultimo sguardo, la consapevolezza negli occhi di lei, l’invito a procedere che non arrivava.

Natasha non voleva morire. E continuava a non volerlo fare per lui.

“Non ce ne sarà per te, Clint”, sussurrò impaziente e lui in quegli occhi vide il riflesso di un estraneo. Un demonio.

La lama lacerò le sue carni, prima che potesse aggiungere altro. Il rumore disgustoso, il gorgoglio del sangue, del respiro che veniva spezzato, un alito di vita strappato per sempre.

La tenne ferma finché sentì la vischiosità del suo operato imbrattargli le mani, i polsi, finché non vide la luce che animava lo sguardo di lei, farsi via via più flebile, la propria immagine in quegli occhi rimasti dolorosamente sorpresi, divenire appannata e svanire, finalmente.

Quando la lasciò andare, il suo corpo ancora si agitava in un convulso scatto di muscoli.

 

Il coltello gli cadde di mano e quel suono estraneo fu per lui come un risveglio.

Il contraccolpo gli esplose nella testa.

Ed i suoi occhi, finalmente, videro.

Videro il corpo di Natasha crocifisso, che lanciava l’ultimo slancio di vita e poi più nulla. L’immobilità della morte, quella vera, quella definitiva.

 

La lucidità arrivò in un istante.

Un gelo pieno d’orrore gli riempì lo stomaco, il rumore del cuore a coprire quello del sangue che punteggiava il suolo, scandendo il tempo. Le sue mani, ancora luride del proprio peccato.

Un grido strozzato gli gonfiò la gola, doloroso quanto l’improvviso risveglio della sua coscienza.

“Natasha…” un sussurro ripetuto febbrilmente, mentre la raggiungeva, la liberava a fatica dalle solide frecce traditrici, che le strappavano la carne, le spezzavano le fragili ossa. Ripeté il suo nome, mentre la prendeva fra le braccia, tamponava convulsamente l'orribile sorriso aperto sulla sua gola. Lo ripeté mentre cercava disperatamente vita, in quei suoi occhi appannati, gelidamente fissi.

La strinse fra le braccia, serrando la presa, come a volerla trattenere a impedirle di lasciarlo.

E infine la spietata consapevolezza che si concretizzava in un lamento, come un cupo ululato, straziato, disumano.

Dilaniato dal dolore, inondato di lacrime che si fondevano con quel sangue rosso… così rosso.

E poi un volto. Un volto riflesso nella pozza purpurea che si ingrandiva ai suoi piedi e non era il suo.

Lo sguardo del demonio lo fissava con cupidigia, troneggiando sulle sue spalle.

La sua risata esplose cupa e vittoriosa.

Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che aveva vinto lui.

 

***

 

Il suono del cellulare sul comodino lo svegliò di soprassalto.

Strappato dall’incubò faticò a trovare la realtà, in quel rassicurante risveglio. La luce fioca alla finestra, le tende mosse da una lieve brezza mattutina, le pareti familiari, il poster di Pulp Fiction sulla porta, l’odore aspro del proprio sudore sulla pelle.

Si portò una mano al cuore che ancora batteva rapidamente sotto lo strato di muscoli.

Lo stomaco stretto in una morsa angosciante.

Ci mise qualche istante di troppo a recuperare le facoltà motorie che gli fecero conquistare il telefono.

La canzone dei The Knack che si spegneva prima del ritornello.

Una chiamata persa.

Non faticò a immaginare di chi fosse. Una febbrile ricerca fra le ultime telefonate a confermargli che Natasha era ancora viva. Che aveva solo sognato.

Di nuovo.

Non la richiamò. Lanciò l’aggeggio infernale sul letto, abbandonandolo in preda al groviglio scomposto di lenzuola e si portò le mani alla testa.

Pulsava ancora da far schifo.

Un’altra giornata del cazzo.

Lanciò lenzuola e telefono da una parte e scese dal letto. Una doccia non lo avrebbe ucciso.

Anche se non era altrettanto sicuro che fosse in grado di lavare via i residui di quell’incubo oscuro che lo tormentava da giorni; che lo costringeva a tenersi sveglio il più a lungo possibile, per poi crollare, senza speranza, in qualsiasi stanza della casa.

Il più delle volte si svegliava all’improvviso. Spesso con il suono delle sue stesse grida.

 

Lo SHIELD lo aveva spedito in vacanza per direttissima dopo gli straordinari eventi di New York, in vacanza dai suoi impegni lavorativi, ma soprattutto dal clamore che avevano scatenato le azioni degli Avengers.

Dei Vendicatori… per lo più mascherati.

Era sicuro di averci trovato dell’ironia, una volta, in quel nome. Ora non scatenava che una sequenza di ricordi, la maggior parte di essi poco piacevoli.

Se alieni e mostri potevano già essere un motivo sufficiente per far vacillare il senno di un uomo, averne uno che decide di giocare con il tuo cervello, trattarti come il suo personalissimo burattino, poteva avere qualche altra spiacevole controindicazione.

Clint aveva resistito stoicamente per tutto il tempo che erano state richieste le sue prestazioni sul campo, dopodiché la sua coscienza aveva deciso di dare le dimissioni. O quantomeno di andare in vacanza al posto suo.

La presenza di Loki ancora ferocemente presente nei recessi della sua mente. Un ricordo vago e confuso che riusciva a risvegliarsi soprattutto durante il sonno.

Un raccapricciante promemoria di quello che aveva fatto, di quello che avrebbe potuto fare.

Che scatenava ancora, vivida, la sua frustrazione. La sua rabbia.

Un essere che lo aveva violato intimamente, che gli aveva strappato a forza ricordi che mai avrebbe rivelato ad anima viva. Segreti e confessioni personali che aveva ripescato, uno dopo l’altro, senza remore, scegliendoli accuratamente dall’archivio della sua mente per i suoi biechi scopi.

Un essere che oltre alla sua dignità si era portato via anche un amico.

E questa volta per davvero.

Phil.

Phil Coulson.

 

Si sentì soffocare sotto il flusso temporaneamente benefico della doccia calda.

Un moto di nausea lo investì violentemente, procurandogli un conato di vomito.

Si aggrappò con le dita alla fredda parete di piastrelle, mentre l’acqua simulava tutte quelle lacrime che non riusciva a piangere.

 

***

 

Il caffè se non altro restava immutato. Sapore e odore, aroma inconfondibile che scandiva sempre l’inizio delle sue giornate. Niente panna ad indorargli la pillola, questa volta.

Erano giorni che non usciva nemmeno per fare la spesa.

Quell’apatia, tristemente familiare, lo stava divorando. Lo SHIELD non gli aveva fatto un favore.

Lo aveva ingabbiato in una vita che lo stendeva come un guerriero sconfitto e gli lasciava tempo per riflettere. Troppo tempo per riflettere.

Rimasto di nuovo solo con se stesso, libero dalla presenza di Loki, adesso la sua testa lasciava spazio a troppi pensieri dopo un lungo periodo di prigionia. Pensieri pericolosi.

Pensieri che in passato avevano rischiato di sconfiggerlo.

E che, con la stessa ingenua consapevolezza, gli impedivano di chiedere aiuto.

 

Il telefono trillò di nuovo. Stavolta quello di casa. Un vecchio congegno a parete che aveva accolto entusiasticamente con l’acquisto di un nuovo appartamento, mesi prima ormai.

Temporeggiò sul rispondere o meno. Non riceveva mai telefonate a casa.

Aveva dimenticato il cellulare in camera da letto. Poteva essere lo SHIELD? Poteva essere importante.

Quando rispose, in cuor suo già sapeva che era lei.

Di nuovo.

“Clint…” il tono di voce di Natasha lo colpì come uno schiaffo. Lo stesso tono di voce che le aveva sentito in quel maledetto incubo, solo poche ore prima. Il ricordo dei suoi occhi vitrei, del pallore mortale, della viscosità del sangue.

Non le rispose immediatamente, per evitare che cogliesse il turbamento.

“Ehi…”

“Hai una voce strana.” Natasha non lasciava mai spazio all’allusione.

“Mi sono appena svegliato”, uno sbadiglio simulato. Male. “Avevi bisogno di qualcosa?”

Il silenzio, dall’altra parte della cornetta e poi: “E’ tutto a posto, vero?”

“Sono in vacanza. Cosa potrebbe andare storto? A parte i vicini di casa che decidono di trapanare i muri alle sette del mattino…”

“Hai detto che dormivi.”

“Mi addormento a più riprese.”

“Clint…”

“Ci vediamo per un caffè, uno di questi giorni”, la prevenne “E un tè. Cazzo, ogni scusa è buona per scroccarmene uno, mh?”

“Quando?”

Clint serrò la presa al filo della cornetta. Non si sarebbe fatta liquidare facilmente. Di contro, lui non era sicuro di poterla ancora affrontare. Non in quelle condizioni.

“Domani. Al bar all’angolo, sotto casa tua.”

“A che ora?”, implacabile.

“Alle cinque… non si prende alle cinque, il tè?” una mezza risata che uscì peggio dello sbadiglio.

“Domani. Alle cinque”, confermò lei.

Quando riagganciarono Clint prese la prima vera decisione dall’inizio della sua vacanza.

Doveva rientrare immediatamente in servizio.

 

***

 

Natasha lanciò un'occhiata preoccupata oltre la vetrata che separava l'interno caldo e accogliente del bar dal freddo grigio della strada. La gente andava e veniva, lo sguardo perso nel vuoto o puntato ad una vetrina o all'orologio o ad un compagno di viaggio. Tutto ciò che avrebbe voluto in quell'istante, era veder sfogato il suo nervosismo e la sua esasperazione tramite qualcun altro. Era chiedere troppo? Avere qualcuno che prova le tue emozioni più seccanti al posto tuo?

 

Si rese conto che il ragionamento non aveva alcun senso. Tornò a guardarsi attorno all'interno del locale, con un leggero sospiro. I due camerieri facevano il giro dei tavoli prendendo e portando ordinazioni, un gruppetto di ragazze discuteva animatamente in un angolo, un uomo solo digitava furiosamente sulla tastiera del suo laptop, una coppia si scambiava silenziose parole nell'angolo più lontano dalla vetrata.

 

In tutta sincerità, nel momento esatto in cui aveva strappato a Clint la promessa di quell'incontro, aveva capito che non si sarebbe presentato. Eppure, una sorta di cieca e stupida speranza l'aveva spinta a rispettare comunque i termini dell'accordo. Non era sorpresa. Mentre New York continuava ad essere ricostruita a tempo di record, il suo rapporto con Clint sembrava essersi fermato a quel giorno in cui i Chitauri erano scesi del cielo per cambiare il loro mondo per sempre, incapace di riuscire a mettere insieme i propri pezzi, come se il puzzle si fosse infranto e i tasselli fossero misteriosamente cambiati e l'incastro perfetto andato perduto.

Le sembrava assurdo e paradossale che un mastodontico grattacielo richiedesse un tempo di degenza tanto ridotto, mentre un piccolo, insignificante essere umano avrebbe potuto rimanere nel limbo di un evento post-traumatico per il resto della sua vita.

Lo stomaco si contrasse al solo al pensiero. No, non era il momento per lasciarsi andare ad inutili disfattismi. Il dio degli inganni si era appropriato del suo cervello, ne aveva preso il controllo, gli aveva fatto fare cose che l'avrebbero perseguitato per sempre, lo aveva privato di quello che era probabilmente il suo più caro amico, e poi se n'era andato, ammanettato, la bocca tappata da una museruola, come uno stramaledettissimo cane rabbioso qualunque.

 

“È sicura di non voler ordinare niente?” Natasha rialzò lo sguardo: la cameriera svettava su di lei con un sorriso cortese e un lieve tremito al sopracciglio destro. Era rimasta seduta al tavolo senza consumare niente per quasi un'ora adesso, nella ridicola speranza che Clint si facesse vedere. Si umettò le labbra e tentò di imitare l'affabilità della ragazza.

“Un tè da portar via”, formulò infine, chiedendosi quando esattamente avesse cominciato a preoccuparsi di non tradire le aspettative degli altri.

La cameriera annuì, le chiese se avesse qualche particolare preferenza e sparì per esaudire la sua richiesta. Natasha si rifece seria e si arrese all'evidenza dei fatti: si rimise in piedi e abbandonò la sua postazione, accostandosi al bancone dietro cui la ragazza era scomparsa.

“Il suo amico non si è fatto vedere?” La domanda la colse impreparata. Aspettò qualche attimo per rispondere.

“No, non oggi”, confermò cautamente.

La cameriera scelse una bustina di tè da un cassetto pieno di involucri colorati, la scartò e la inzuppò nel bicchiere d'acqua bollente che aveva preparato.

“L'ho visto passare qua davanti quando sono arrivata per il mio turno”, la informò, recuperando un tappo di plastica con cui coprì la bevanda.

“È stato probabilmente trattenuto a lavoro”, replicò, riportando lo scambio su un terreno neutrale. La ragazza dovette cogliere il suggerimento perché si limitò a sorridere e consegnarle il suo tè. Natasha lasciò una banconota sul bancone e uscì senza aspettare né lo scontrino, né una risposta.

 

Il freddo arrivò ad avvolgerla non appena ebbe messo piede fuori dal bar. Valutò il da farsi, mentre il profumo del tè le solleticava le narici. Casa di Clint era poco distante, ma, se la cameriera aveva ragione, era sparito qualche ora prima per andare chissà dove e con ogni probabilità non era ancora tornato. Presentarsi sul pianerottolo del suo appartamento, obbligarlo a fronteggiarla avrebbe potuto smuovere qualcosa, costringerlo a parlarle, ma d'altro canto niente le assicurava che un gesto del genere non avrebbe finito per allontanarlo ulteriormente da lei.

L'inerzia di cui si trovava prigioniera cominciava a farla uscire di testa. Se la situazione fosse stata diversa, si sarebbe affidata a Phil Coulson, gli avrebbe spiegato il problema, avrebbe ricevuto in cambio una soluzione, perché l'agente Coulson era così: osservava e comprendeva più cose di quanto lasciasse intendere.

Socchiuse gli occhi e si maledì: invocare i morti non avrebbe risolto proprio un bel niente. Avrebbe dovuto decidere se incalzare con i suoi tentativi, o lasciare che fosse lui a raggiungere il punto di rottura, da solo, e andare da lei.

 

Un passante la urtò, scusandosi profusamente prima di riprendere la sua folle corsa verso chissà che meta.

Si accorse del cellulare che vibrava nella tasca del suo giubbotto di pelle con un attimo di ritardo. Il numero di chiunque la stessa chiamando era criptato.

 

“Pronto?” Rispose, cercando di celare come meglio poté la nota speranzosa nella propria voce.

“Agente Romanoff?” Una voce femminile la raggiunse dall'altro capo del ricevitore. Riconobbe il tono asciutto dell'agente Hill, stavolta stranamente velato d'incertezza.

“Sì.”

“Credo che debba raggiungerci allo SHIELD Center il più presto possibile.”

Un lavoro? Adesso? Per la prima volta in vita sua, Natasha sperò ardentemente che Maria Hill non fosse in procinto di affidarle una missione di cui, al momento, non le importava assolutamente niente.

“L'agente Barton è qui. Ci sono stati dei... problemi.”

Così com'era successo mesi prima, quando Coulson l'aveva avvisata che il suo partner era stato compromesso, la sua espressione si fece determinata e decisa, la preoccupazione intuibile dietro i suoi occhi, ma tenuta sotto controllo.

“Arrivo subito.”

 

***

 

Clint misurava a grandi passi una delle stanze per gli interrogatori dello SHIELD Center.

 

“Ha insistito per vedere il Direttore Fury. Quando gli hanno detto che era fuori dal paese ha voluto vedere me”, riprese a spiegare l'agente Hill, le braccia intrecciate al petto, lo sguardo puntato oltre il falso specchio che permetteva loro di vedere Clint, ma non a Clint di vedere loro. “Vuole tornare operativo”, aggiunse, spiandola con la coda dell'occhio.

“Non è pronto”, si limitò a rispondere Natasha.

“Ne sono consapevole. E... per quanto le circostanze siano delicate, sono convinta che lo sappia anche l'agente Barton.” Il suo tono era comprensivo ma, per qualche motivo, Natasha s'innervosì. Assurdamente, le sembrava che l'agente Hill avesse messo il naso dove non le competeva.

 

Ci fu un attimo di silenzio, in cui entrambe le donne si limitarono a studiare i movimenti ripetuti dell'uomo oltre il vetro.

“Gli ho spiegato le mie ragioni, si è arrabbiato”, Maria aveva ripreso a parlare, “non l'avevo mai visto così.” Le ultime parole le uscirono a voce più bassa, come se fosse stata una considerazione più per se stessa che per chiunque altro. “Ha aggredito l'agente Murphy che si era avvicinato per aiutarmi. Non ha smesso di colpirlo finché altri tre agenti non l'hanno immobilizzato.”

Dopodiché era stato portato quella stanza a sbollire, Natasha intuì. Decisamente non il luogo in cui ti aspetteresti di vedere uno degli agenti di punta di una delle organizzazioni internazionali più potenti del mondo.

Le appariva visibilmente stanco, dimagrito, gli occhi segnati e le linee del viso più marcate del solito. Gli leggeva la rabbia e il senso di colpa nello sguardo, mentre continuava a girare in tondo attorno al tavolo che occupava la maggior parte dello spazio, sempre evitando di guardare nella loro direzione. Sapeva di essere spiato, si vergognava di ciò che aveva fatto, ma era ancora arrabbiato, esasperato.

 

“Ci penso io”, si offrì Natasha. “Avete intenzione di portare avanti un qualche provvedimento disciplinare?”

L'agente Hill si voltò del tutto verso di lei, fronteggiandola apertamente: “Date le circostanze, il direttore Fury ha deciso di non procedere”, pronunciò lentamente. Poi parve ricordarsi qualcosa, e le sue spalle persero un po' della loro rigidità, come piegate sotto un peso enorme. “Mi rendo conto che l'agente Barton è uno di quelli che hanno risentito maggiormente della perdita di Phil...” si interruppe, vagamente allarmata. “Dell'agente Coulson”, si corresse.

 

Natasha annuì, percependo il disagio dell'altra.

“Le lascio carta bianca, Agente Romanoff”, dichiarò infine prima di allontanarsi lungo il corridoio deserto e sparire in pochi attimi. Aspettò di vederla uscire dal proprio campo visivo prima di tornare ad osservare Clint oltre il vetro. Una bestia braccata che non sa da che parte rifarsi, ecco cosa le ricordava.

La mente le tornò a svariati anni prima, quando i ruoli erano ribaltati, quand'era lei l'animale in trappola e lui la persona che doveva valutare quale fosse l'approccio migliore da adottare. Per qualche assurdo motivo, Clint aveva creduto in lei sin dall'inizio. Probabilmente l'aveva fatto prima ancora di capire lui stesso il perché, ma era successo e le conseguenze li avevano premiati entrambi. Si sentì in colpa per aver preso in seria considerazione la possibilità di lasciare che la matassa degli avvenimenti si dipanasse da sola: avrebbe dovuto agire subito, avrebbe dovuto obbligarlo a parlarle, non lasciarlo solo a combattere contro i propri demoni.

 

Schioccò la lingua e prese un'improvvisa decisione. Appoggiò la mano sul pannello di sicurezza accanto alla porta, che, per tutta risposta, si aprì con uno scatto. Entrò nella stanza, fingendo una tranquillità che non le apparteneva.

“Spero che tu abbia un cappotto pesante: partiamo.”

Clint si era bloccato a guardarla, i segni della vergogna visibili nella sua postura, nei suoi occhi, in tutto il suo corpo.

“Stasera stessa.”

  
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