Nome su EFP e sul forum
dell’autore: slytherin ele
Titolo della storia: Servus et Dominus
Lunghezza della storia: One-shot;
3617 parole; 5 pagine
Genere: Romantico, Triste
Rating: Arancione
Avvertimenti: Slash, Lime, Death-fic
Note: Nessuna
Introduzione(breve): Alypios
è un ragazzino di origine greca
dall’aspetto strano, ma con una mente sveglia e con molta
voglia di studiare ed
apprendere. Non ricorda granché della sua terra natia,
né di sua madre… Vivrà
la sua vita agli ordini di Appio Claudio Pulcro, istruito e ben
trattato… Il
suo problema è il figlio del padrone: Publio.
(Eventuali) Nda: La storia
è ambientata a
Roma, durante il primo consolato di Appio
Claudio Pulcro. I personaggi romani nominati, sono storici e, quindi,
realmente
esistiti: Appio Claudio Pulcro e i due figli, Appio e Publio, il
proconsole
Quinto Fulvio Flacco e il console (che nella storia è il
figlio di Quinto, ma
non lo è nella realtà; nella storia non
è ancora un console, ha sedici anni
soltanto.) Marco Fulvio Flacco.
Tutti gli altri personaggi sono stati
inventati da me, così
come il carattere e l’aspetto fisico di quelli sopra.
Servus et Dominus.
Erano
pochi gli avvenimenti della sua vita di cui Alypios aveva memoria prima
di
entrare a far parte degli schiavi di Appio Claudio Pulcro, console
romano.
Viveva in
una cittadina greca a
qualche miglia da Sparta, sua madre era una sarta che vendeva i suoi
elaborati
al mercato e tutti gli abitanti tendevano ad additarlo e sparlare alle
sue
spalle. Il motivo di tali indignazioni e perse in giro era il suo
aspetto, non
tanto gli occhi azzurri come il cielo avevano destato la loro
curiosità e, in
seguito, la loro disapprovazione, quanto i capelli blu cobalto che
divenivano
ancora più chiari se illuminati dal sole. Erano nate storie
diverse sulla sua
provenienza, lui ne ricordava solo due: la prima parlava della madre,
di come
ella si fosse concessa a un messaggero di Poseidone, la seconda
raccontava
della dea Selene e di come suo padre l’avesse ingannata e
avuta con la forza.
Entrambe avevano la stessa conclusione: la maledizione degli dei, chi
diceva di
Nettuno chi di Selene, che aveva fatto ammalare mortalmente il padre,
morto a
due anni dalla sua nascita.
Di due cose
era da sempre certo
Alypios: lui aveva paura dell’acqua e temeva la notte scura,
senza stelle né
luna.
Era successo
tutto troppo
velocemente per essere sicuro degli avvenimenti: un mercante di schiavi
era
arrivato, aveva lanciato qualche moneta sul pavimento
dell’unica stanza in cui
lui e la madre vivevano e aveva minacciato la donna in un greco
maccheronico
che il bambino aveva fatto fatica a capire. Poi, si era ritrovato su
una barca
a remi, insieme con altri cinque bambini e bambine, a causa dello
spazio
angusto e della sua repulsione per l’acqua era svenuto dopo
pochi minuti. Si
era risvegliato, sudicio e incatenato a un muro di una nave, dove non
avrebbe
voluto essere con la nausea e una voglia di piangere che non sapeva
come
trattenere. Un uomo aveva parlato in greco, dicendogli che avevano due
settimane, il tempo che avrebbero impiegato per giungere alle coste di
Napoli,
per imparare le basi del latino e che avrebbe ucciso chi non si fosse
fatto
trovare preparato all’arrivo.
Alypios non
aveva avuto grandi
difficoltà, sua madre era una donna che teneva molto alla
sua istruzione,
nonostante fosse povera, e nei suoi dieci anni di vita gli aveva
insegnato
alcune parole in latino nella speranza che lo potesse aiutare in
futuro, di
sicuro non perché potesse essere uno schiavo istruito.
Considerando
la sua propensione
allo studio, il mercante aveva deciso di farlo salire su un carro
diverso, un
volta giunti a Napoli, c’erano solo altri due bambini,
più grandi di lui su
quella vettura, e gli altri schiavi avevano più di
vent’anni e gli spiegarono
che sarebbero giunti a Roma in quattro giorni al massimo.
Lì
ebbe inizio la sua vera vita,
nel mercato centrale dell’Urbe, nel momento in cui un uomo
con una toga
purpurea, i capelli brizzolati e gli occhi scuri gli si parò
davanti, sorridendogli
e facendo segno al mercante. Non ci furono parole, solo lo scambio di
alcune
monete e il tintinnio delle sue catene, mentre saliva su un altro carro.
La villa era
grande, il più
grande edificio che avesse mai visto e gli schiavi erano tanti, tutti
in fila
all’arrivo del padrone.
Fu portato
in una stanza minuscola,
dove due schiave lo lavarono con dei panni ingialliti e cominciarono a
istruirlo celermente.
“Il
padrone si chiama Appio
Claudio Pulcro, tu dovrai rivolgerti a lui solo con il nome di padrone, ma è meglio esserne
al
corrente. Ha due figli: padrone Appio non vive più qui, si
è sposato da un anno
e abita con la moglie e il figlioletto nella villa di fronte, ma lo
vedrai
presto, Publio ha dodici anni e penso che avrai molto a che fare con
lui,
rivolgiti a lui con l’appellativo di padroncino
e non disturbarlo se legge, almeno che la villa non gli stia crollando
addosso
o sarai punito. Qualcosa non ti è chiaro?”
Alypios fece
segno di diniego,
rivolgendosi alla schiava più giovane, dai capelli ramati e
gli occhi verdi che
lo stava fissando. La vide sorridere e sentì la sua mano
accarezzarlo
lievemente. “Non avere paura, siamo fortunati… se
non fari nulla di
esageratamente sbagliato chiuderanno un occhio… sei solo un
bambino… io sono
Chandra.”
“Alypios…”
rispose il greco con
voce fievole, prima che un ragazzino non richiamasse
l’attenzione della donna,
appostandosi sul ciglio della stanza degli schiavi.
“Dov’è
il vino che aveva chiesto
il proconsole e dov’è mio padre?
Un’altra ora con quel vecchio ammiccante e
suoi soci che non sanno tenere le mani dove dovrebbero non la reggo,
non m’interessa
se mio fratello è a Napoli, né se mio padre aveva
impegni improrogabili, ci
tengo a rimanere puro o per lo meno a non perdere la mia
verginità per mano di
un vecchio.”
Fu questa la
prima situazione in
cui il piccolo greco conobbe quello che sarebbe stato il suo reale
padrone, il
figlio del console: Publio Appio Pulcro, un ragazzo dai capelli biondo
grano e
gli occhi ambrati, con gli stessi lineamenti dolci del padre ma un che
di
maligno nell’espressione.
“Il
padrone è appena tornato dal
mercato, padroncino… ha acquistato due nuovi schiavi: il qui
presente,
Alypios…” spiegò Chandra, con fare
sicuro, indicando il ragazzino che abbassò
il capo sotto lo sguardo scrutatore del più grande.
“E un certo Lapius, che
sarà addetto ai lavori manuali più pesanti, ma
non l’ho ancora incrociato,
padroncino…”
“Va
bene…” disse Publio e Alypios
capì che quello era il segno che la schiava poteva
congedarsi, infatti la donna
prese una brocca di vino e uscì dalla stanza.
Il biondo si
avvicinò a lui,
sedendosi su uno dei giacigli della schiavitù.
“Alypios, greco suppongo… sembri
capire quello che dico, ti hanno insegnato il latino? Uno dei tuoi
genitori lo
era? Di che colore sono i tuoi capelli? Sono strani!”
Parlò velocemente,
Alypios si perse qualche parola, ma capì il senso del
discorso. Non disse nulla
fino a che il ragazzo non lo guardò fisso, facendo un cenno
con la mano ed
esalando un “parla” annoiato.
“Sono…
Greco, sì…” disse incerto,
torturandosi le mani e non riuscendo ad incrociare lo sguardo del
più grande.
“Mia madre… e gli schiavisti mi hanno insegnato il
latino… i miei capelli sono blu,
non so perché… sono così…
da sempre, credo…”
“Guardami.”
Sentì ordinare e
tentennando incrociò gli occhi ambrati del ragazzo che lo
scrutavano con fare
interessato. “Parli bene, mio padre vorrà
istruirti sicuramente, così quando
avrai vent’anni e il figlio di mio fratello ne avrà
undici e i miei chissà,
avremo un’insegnate in casa, niente più maestri
privati da pagare o luoghi
pubblici del Ludus Magister Marius.” Non capì
perché, ma sentì una nota di
disprezzo alla pronuncia di quel nome, evidentemente un insegnante che
non
aveva gradito: forse aveva osato abusare di lui?
No, impossibile! Si
disse Alypios,
lo aveva sentito con le sue orecchie dire di essere ancora puro.
Arrossì a
causa dei suoi stessi pensieri, scuotendo lievemente il capo e facendo
ridere
il padroncino.
Si
soffermò a guardarlo mentre
sorrideva sincero e ammise che era davvero un bel ragazzo e che gli
piaceva la
sua voce, ovviamente avrebbe evitato di esternare questi pensieri,
già vedeva
la sua testa mozzata sul pavimento, altrimenti.
Come aveva
immaginato, la sua
vita era trascorsa dietro le pretese, gli ordini, le risate e i segreti
sussurrati alle sue orecchie di Publio. Il padrone Appio si era
occupato della
sua istruzione, affiancandolo delle volte alle lezioni del figlio, ma
non aveva
avuto altri contatti con lui.
Di anno in
anno, Alypios aveva
visto crescere il suo padrone, vedendolo diventare ogni giorno
più attraente e
intelligente; Publio aveva dimostrato che la sua lingua tagliente e la
sua
oratoria potevano essere efficaci a convincere proconsoli e senatori
che si
trattenevano nella villa per i banchetto organizzati dal padre. Alypios
si
scoprì orgoglioso di essere schiavo di Publio e ,in fondo,
il suo unico vero
amico anche se era una considerazione che faceva soltanto con se stesso.
Era fiero di
essere parte della
vita di Publio, era felice di essere ai suoi ordini, di sapersi
essenziale per
la sua sopravvivenza.
Fu, durante
uno di quei banchetti
pomposi, che scoprì di provare un altro sentimento nei
confronti del suo padrone:
gelosia.
Guardava
Publio, dalla solita
postazione, a qualche metro di distanza, parlare con uno dei figli del
console
Quinto Fulvio Flacco, per poi vederlo appartarsi con lui in una delle
stanze
adiacenti al salone. Li seguì, anche se sapeva di non
doverlo fare, non c’era
stato quel tacito scambio di sguardi che voleva fargli intendere di
seguirlo.
Publio voleva stare solo, con quel Marco, così gli era parso
di capire che si
chiamasse.
Vide il suo
padrone spingere il
ragazzo bruno contro un muro per poi baciarlo con impeto, vide le toghe
di
entrambe cadere ed ebbe la forza di andarsene poco prima di vedere
Publio
violare l’altro ragazzo. Era consapevole che il suo padrone
avesse quei tipi di
rapporti ormai da qualche anno; aveva compiuto il sedicesimo anno di
età il
mese prima ed era plausibile che nel giro di due, massimo tre anni si
sposasse,
ma la scena a cui aveva assistito lo aveva colpito in ogni caso, come
una
pugnalata dritta al cuore; forse sperava che, un giorno, Publio lo
avrebbe
fatto suo, lo avrebbe preteso come sua proprietà, ma senza
la brutalità che
altri padroni avrebbero usato con il loro schiavo. Non era certo di che
cosa
provocasse in lui tanto sgomento, sapeva solo di stare male, molto male.
Mentre
correva verso la stanzetta
degli schiavi, incrociò Chandra ma non sentì le
sue parole; si rifugiò nel suo
giaciglio, sentendo il suo cuore spezzarsi, le lacrime cominciare a
scendere e
la sua voce interiore che lo insultava. Come aveva potuto illudersi che
il
rapporto tra lui e Publio andasse oltre l’essere schiavo e
padrone?
Non avrebbe
saputo dire quanto
tempo avesse passato a piangere e singhiozzare, coperto da una coperta
sudicia
e strappata in più punti, l’andirivieni di molti
schiavi aveva fatto da
sottofondo alla sofferenza muta del suo cuore, sino a che non era
giunto alle
sue orecchie l’urlo di una donna. Avrebbe dovuto alzarsi,
andare ad assicurarsi
che nessuno si fosse fatto del male, ma e sue gambe avevano minacciato
di
cedere dopo il terzo passo e si era accasciato contro il muro, mentre
due
schiavi, Lapius e Caesus, avevano portato Chandra nella stanza. Quel
giorno, la
schiava che era stata per lui una madre era morta, dando alla luce un
bambino
dai capelli castani e gli occhi scuri, Alypios non nascose la sua
felicità nel
vedere quanto poco assomigliasse a Publio, non avrebbe retto il dover
crescere
il figlio della persona che amava.
Dopo quel
giorno di infausti
eventi, se ne susseguirono altri tre: la morte del proconsole Gaio
Claudio
Pulcro, cugino del padrone Appio e quella dello stesso padrone, a causa
di una
malattia che era stata mal curata; nessuno si stupì
dell’atto violento di
Publio ai danni dei medici che avevano ucciso prematuramente il padre.
Furono
giornate nere, durante le quali Alypios si sentì ancora
più in colpa per aver
anteposto i suoi problemi di cuore a quelli ben più gravi
del padrone:
semplicemente gli era impossibile mentire o far finta di nulla, quindi
giorno
dopo giorno si era allontanato sempre più da Publio,
divenendo lo schiavo che
avrebbe dovuto essere dal principio.
Sapeva di
star destando molti
sospetti, non solo con il padrone ma anche con gli altri schiavi, ma
non se
curava. Decise di seguire gli ordini alla lettera, come quello di
allevare Ilio
come se fosse suo figlio, di istruirlo, di amarlo e così
fece.
Per alcune
settimane sembrò che
la sua tattica avesse preso piede, Publio si era arreso
all’evidenza che quella
complicità non sarebbe mai tornata, che il ragazzino di
dieci anni che gli
sorrideva consapevole fosse sparito, almeno Alypios si era autoconvinto
di
sperare che fosse così.
Poggiò
il piccolo Ilio tra le
braccia di Elsia, la serva che lo allattava, e vide il piccolino
allungarsi
verso di lui, cercarlo con gli occhi, come impaurito dalla presenza di
una
terza persona. Vide la donna cullarlo, mentre lo portava, sussurrando
qualcosa
di simile a “adesso Alypios ha dei compiti da svolgere ma
tornerai presto da
lui. Il greco sorrise, passandosi una mano tra i capelli color cobalto
e si
chiese se Publio avesse fatto bene ad affidare proprio a lui, a un
quattordicenne, un bambino così piccolo. Se avessero avuto
il rapporto di un
tempo gli avrebbe confidato le sue perplessità senza timore,
aspettando la
risposta che gli avrebbe aperto gli occhi sulla sua decisone e che
gliela
avrebbe fatta considerate come la più giusta da prendere;
inutile illudersi, si
sarebbe limitato ad eseguire l’ordine, perché di
quello si trattava, mentre
Publio era occupato a prendere in mano le redini della casa patronale.
Stava
scrivendo la lettera di condoglianze
a una famiglia di cui non conosceva neanche il nome, si ricordava che
erano dei
patrizi, anche se i rapporti tra loro e i Pulcri non erano mai stati
dei
migliori; almeno così aveva dedotto dal commento di un mese
prima del padrone.
“Vecchi
ricchi, pomposi che pretendono che tutti s’inginocchino
quando camminano, solo
perché l’antenato del trisavolo del cugino di
quattordicesimo grado pareva
essere discendente della ninfa Egere…
Fesserie,
io penso… l’uomo crea da solo la sua fama, non
sono eventuali discendenze a
fare di te un generale o un semplice legionario, non sei
d’accordo, Alypios?”
Lo aveva guardato, rivolgendogli il suo solito sorrisetto sghembo, ma
il greco
non aveva avuto il tempo di rispondere. Il padrone Appio aveva
assestato uno
scappellotto al suo secondo genito per poi aggiungere: “Non
che io non sia
d’accordo conte, figlio mio… ma rammenta che i
patrizi come loro hanno spie
ovunque… non farti sentire o la tua testa salterà
prima che tu possa vedere la
mannaia alzarsi… ora torna ai tuoi studi e dimostra che la
fama della tua
famiglia non ti porterà in alto, ma ci arriverai da
solo…”
Il padrone
era buono, così se lo
ricordava Alypios, aveva sempre una parola di incoraggiamento per i
figli e una
di conforto per i poveri e le vedove. La sua dipartita aveva segnato
una grave
perdita nel cuore di Publio, assai peggiore della morte della madre
avvenuta
quando aveva solo tre anni. Suo padre ero lo scoglio al quale sapeva di
potersi
appendere durante la tempesta più nera, era la rete che lo
avrebbe preso in
ogni momento, senza paura di lacerarsi in più punti.
Immerso
com’era nei suoi pensieri
non sentì i passi veloci di una persona nella stanza,
né la porta chiudersi
velocemente; sentì la voce di Publio alle sue spalle quando
ormai era troppo
tardi per svignarsela o chiedere perdono a causa di impegno che lo
avrebbe
portato altrove.
“Alypios
finirai dopo di scrivere
la lettera ai Sesti.” Disse Publio, strappandogli il foglio
dalle mani e poggiandolo
su una mensola troppo alta per lo schiavo.
“Padrone…”
sussurrò il greco, alzandosi
e inchinandosi al suo cospetto.
“Guardami,
Aly…” disse dolce
Publio. “Cos’è cambiato fra
noi?” chiese poi, come se stesse parlando a un
amico fidato piuttosto che alla schiavo personale, quando
incrociò i suoi occhi
color zaffiro. Non ricevendo risposta ma solo uno sguardo triste in
cambio, si
sentì autorizzato a continuare. Si sedette su una sedia,
appoggiata la uro e
sospirò.
“Perché
adesso? Proprio ora,
Alypios? Ho bisogno di te, lo sai meglio di chiunque… quanto mi
senta perso senza
mio padre e tu mi abbandoni in questo modo? Senza una parola, senza una
spiegazione.” Il greco provò a parlare per
scusarsi, ma Publio lo interruppe. “
Non dire che ti dispiace... non dire che non è vero!”
urlò, stringendo i pugni. “
Sfuggi ai miei sguardi, fai in modo che ci sia sempre
un’altra persona con noi,
che sia uno schiavo qualunque o il piccolo Ilio non ha
importanza… anzi,
sembra che quel bambino sia diventato lo scudo perfetto per dividerci,
per proteggerti!
Dimmi perché? Solo questo, non pretendo che tutto torni come
pria, ma voglio un
motivo valido…” Alypios sentì le gambe
tremare quando il padrone alzò lo
sguardo lucido su di lui, sapeva di valere qualcosa nella vita di
Publio, ma
non pensava arrivasse a piangere per lui.
“Hai
paura?” continuò Publio, alzandosi,
avvicinandosi allo schiavo e prendendogli il volto fra le mani.
“Hai paura che
ora che mio padre non c’è più ti
farò del male? Abuserò di te?” chiese
con voce
fievole. Poi poggiò la fronte sulla sua. Alypios
sentì un brivido, mentre il
respiro caldo del suo padrone si infrangeva sulle sue labbra, le
ginocchia
cedettero e trasportò Publio con sé a terra,
cingendolo con le braccia e
lasciando che appoggiasse la testa sulla sua spalla e si sfogasse.
“Perdonami,
Publio…” disse con
voce rotta. “Mi dispiace, non volevo farti soffrire di
più di quanto già
soffri, non ti temo, non temo le tue mani su di me… io le
desidero.” Disse
senza rendersi conto del significato ultimo delle sue parole.
Capì
che non aveva pensato solamente
quando Publio unì le loro labbra in un bacio che Alypios
aveva desiderato da
molto tempo.
“Aly…”
sussurrò. “Non osare mai
più allontanarti da me, mai! O ti farò uccidere e
poi mi farò frustrare fino a
dissanguarmi… hai capito?” Il greco
incrociò lo sguardo serio del romano,
annuendo. Era più impaurito dalla prospettiva di causare la
morte del suo amato
che la sua, ma ricacciò le parole in gola, stringendosi a
lui e sentendosi
sollevare fino a trovarsi seduto sul tavolo. Publio si trovava tra le
sue gambe
aperte e lo guardava malizioso. Arrossì fino alla unta dei
capelli, mentre
Publio ci passava una mano all’interno e lo baciava con
trasporto. Si lasciò
andare serrando le cosce intorno al suo bacio e sperando che quel
momento non
finisse mai.
“Questa
notte, fatti trovare
nelle mie stanze… voglio averti sul mio letto, tra le
lenzuola di lino e i
cuscini vellutati non su un tavolo scomodo.” Gli
lasciò un ultimo bacio sulla
fronte e poi sciolse il contatto uscendo dalla stanza e lasciando
Alypios
felice ma ancora eccitato e insoddisfatto.
Adempì
a tutti i suoi compiti,
sperando che la giornata passasse in fretta, l’intero suo
corpo fremeva
all’idea di poter toccare, baciare Publio e soprattutto di
sentirlo dentro di
sé: volva diventare un tutt’uno con il suo amato,
non stava più nella pelle
all’idea.
Arrivò
ben prima del previsto
nella camera di Publio e non sapendo cosa fare nell’attesa si
versò un
bicchiere d’acqua e lo bevve tutto d’un sorso.
Sobbalzò quando sentì qualcuno
alle spalle.
“Tranquillo,
sono io…” disse
Publio, abbracciandolo da dietro e facendo sì che i suoi
nervi si distendessero
in un attimo. “Sei in anticipo…” Lo
fermò prima che potesse chiedere perdono.
Va bene. Pensavo di farti mio nella vasca, ho ordinato di
riempirla, sarà
piacevole…” Alypios vide Publio scostare la tempa
e incamminarsi verso la
piccola vasca privata delle sue stanze, ma rimase immobile: la paura
dell’acqua
non gli era mai passata, non voleva rovinare tutto, ma non si sentiva
la
sicuro.
“Vieni…”
La voce di Publio gli parve
come una benedizione, mentre vedeva la toga scivolare dalle sue spalle.
Si
perse nel memorizzare ogni più piccolo dettaglio del suo
corpo. Per un attimo,
si vergognò del suo aspetto, ma quando il padrone lo
chiamò nuovamente, la sua
voce aveva una nota spazientita all’interno, non si fece
pregare. Si svestì
velocemente e si immerse nell’acqua avvicinandosi al suo
amato che lo circondò
con le braccia, sussurrandogli di non temere nulla, che sarebbe stato
bello.
Così
fu, Publio si dimostrò
esperto nell’arte dell’amore ma anche dolce e
delicato. L’intrusione all’inizio
gli provocò un po’ di dolore ma bastò
la sicurezza che vide negli occhi del
ragazzo più grande a farla sparire del tutto e a
trasformarla nel più grande
dei piaceri.
Quando
Publio uscì da lui, sentì
come un senso di vuoti era ormai notte fonda e non riusciva a vedere
nulla
perché le candele che gli schiavi avevano accesso qualche
ora prima si era
ormai consumate.
“Vado
a prendere degli
asciugamani per coprirci.” La voce di Publio lo raggiunse
roca, ma allo stesso
tempo dolce e sentì l’acqua muoversi piano. Si
rilassò, chiudendo gli occhi e
pensando che il connubio fra le due cose che lo avevano sempre
terrorizzato,
acqua e buoi, non gli faceva più paura.
Sentì
l’acqua muoversi di nuovo e
aprì le braccia per accogliere il suo amato e
sussurrò: “Publio, vieni qui…”
“Non
solo il padrone!” Una voce
femminile gli rispose con odio, un attimo prima di spingerlo sotto la
superfice
dell’acqua e cingergli il collo con entrambe le mani.
Alypios si
sentì soffocare,
mentre l’acqua gli entrava dalle narici e dalla bocca. Gli
occhi gli briciavano
e cerco di divincolarsi, ma f tutto inutile. La donna, appoggiata sul
suo
bacino, doveva pesare almeno il doppio di lui. Diede uno strattone,
facendola vacillare
un attimo e pensò di potersi liberare, quando la mano destra
lasciò il suo
collo. Il dolore lancinante allo stomaco che sentì un attimo
dopo gli disse che
la donna era armata, vide l’acqua colorarsi del sua sangue,
mentre il respiro
cominciava a venirgli meno, sentì una lacrima scorrere dai
suoi occhi, mentre
l’immagine di Publio si mostrava davanti a lui, sorridente e
bellissimo come
sempre, anche il piccolo Ilio gli comparve dinnanzi.
L’ultimo
pensiero, mentre Ade lo
chiamava a sé fu: avevo
ragione ad aver paura
dell’acqua e del buio… Sono un connubio letale.
Avrei solo voluto amarti
ancora, Publio. Rivederti un’ultima volta, Madre. Poterti
crescere, Ilio. E
sapere perché i miei capelli hanno lo stesso colore del mare
in tempesta o
della notte più buia.