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Autore: slytherin ele    28/12/2013    3 recensioni
Alypios è un ragazzino di origine greca dall’aspetto strano, ma con una mente sveglia e con molta voglia di studiare ed apprendere. Non ricorda granché della sua terra natia, né di sua madre… Vivrà la sua vita agli ordini di Appio Claudio Pulcro, istruito e ben trattato… Il suo problema è il figlio del padrone: Publio.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Antichità greco/romana
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Nome su EFP e sul forum dell’autore: slytherin ele

Titolo della storia: Servus et Dominus

Lunghezza della storia: One-shot; 3617 parole; 5 pagine

Genere: Romantico, Triste

Rating: Arancione

Avvertimenti: Slash, Lime, Death-fic

Note: Nessuna

Introduzione(breve): Alypios è un ragazzino di origine greca dall’aspetto strano, ma con una mente sveglia e con molta voglia di studiare ed apprendere. Non ricorda granché della sua terra natia, né di sua madre… Vivrà la sua vita agli ordini di Appio Claudio Pulcro, istruito e ben trattato… Il suo problema è il figlio del padrone: Publio.

(Eventuali) Nda: La storia è ambientata  a Roma, durante il primo consolato di Appio Claudio Pulcro. I personaggi romani nominati, sono storici e, quindi, realmente esistiti: Appio Claudio Pulcro e i due figli, Appio e Publio, il proconsole Quinto Fulvio Flacco e il console (che nella storia è il figlio di Quinto, ma non lo è nella realtà; nella storia non è ancora un console, ha sedici anni soltanto.) Marco Fulvio Flacco.

Tutti gli altri personaggi sono stati inventati da me, così come il carattere e l’aspetto fisico di quelli sopra.

 

 

 

 

 

Servus et Dominus.

 

Erano pochi gli avvenimenti della sua vita di cui Alypios aveva memoria prima di entrare a far parte degli schiavi di Appio Claudio Pulcro, console romano.

Viveva in una cittadina greca a qualche miglia da Sparta, sua madre era una sarta che vendeva i suoi elaborati al mercato e tutti gli abitanti tendevano ad additarlo e sparlare alle sue spalle. Il motivo di tali indignazioni e perse in giro era il suo aspetto, non tanto gli occhi azzurri come il cielo avevano destato la loro curiosità e, in seguito, la loro disapprovazione, quanto i capelli blu cobalto che divenivano ancora più chiari se illuminati dal sole. Erano nate storie diverse sulla sua provenienza, lui ne ricordava solo due: la prima parlava della madre, di come ella si fosse concessa a un messaggero di Poseidone, la seconda raccontava della dea Selene e di come suo padre l’avesse ingannata e avuta con la forza. Entrambe avevano la stessa conclusione: la maledizione degli dei, chi diceva di Nettuno chi di Selene, che aveva fatto ammalare mortalmente il padre, morto a due anni dalla sua nascita.

Di due cose era da sempre certo Alypios: lui aveva paura dell’acqua e temeva la notte scura, senza stelle né luna.

Era successo tutto troppo velocemente per essere sicuro degli avvenimenti: un mercante di schiavi era arrivato, aveva lanciato qualche moneta sul pavimento dell’unica stanza in cui lui e la madre vivevano e aveva minacciato la donna in un greco maccheronico che il bambino aveva fatto fatica a capire. Poi, si era ritrovato su una barca a remi, insieme con altri cinque bambini e bambine, a causa dello spazio angusto e della sua repulsione per l’acqua era svenuto dopo pochi minuti. Si era risvegliato, sudicio e incatenato a un muro di una nave, dove non avrebbe voluto essere con la nausea e una voglia di piangere che non sapeva come trattenere. Un uomo aveva parlato in greco, dicendogli che avevano due settimane, il tempo che avrebbero impiegato per giungere alle coste di Napoli, per imparare le basi del latino e che avrebbe ucciso chi non si fosse fatto trovare preparato all’arrivo.

Alypios non aveva avuto grandi difficoltà, sua madre era una donna che teneva molto alla sua istruzione, nonostante fosse povera, e nei suoi dieci anni di vita gli aveva insegnato alcune parole in latino nella speranza che lo potesse aiutare in futuro, di sicuro non perché potesse essere uno schiavo istruito.

Considerando la sua propensione allo studio, il mercante aveva deciso di farlo salire su un carro diverso, un volta giunti a Napoli, c’erano solo altri due bambini, più grandi di lui su quella vettura, e gli altri schiavi avevano più di vent’anni e gli spiegarono che sarebbero giunti a Roma in quattro giorni al massimo.

 

Lì ebbe inizio la sua vera vita, nel mercato centrale dell’Urbe, nel momento in cui un uomo con una toga purpurea, i capelli brizzolati e gli occhi scuri gli si parò davanti, sorridendogli e facendo segno al mercante. Non ci furono parole, solo lo scambio di alcune monete e il tintinnio delle sue catene, mentre saliva su un altro carro.

La villa era grande, il più grande edificio che avesse mai visto e gli schiavi erano tanti, tutti in fila all’arrivo del padrone.

Fu portato in una stanza minuscola, dove due schiave lo lavarono con dei panni ingialliti e cominciarono a istruirlo celermente.

“Il padrone si chiama Appio Claudio Pulcro, tu dovrai rivolgerti a lui solo con il nome di padrone, ma è meglio esserne al corrente. Ha due figli: padrone Appio non vive più qui, si è sposato da un anno e abita con la moglie e il figlioletto nella villa di fronte, ma lo vedrai presto, Publio ha dodici anni e penso che avrai molto a che fare con lui, rivolgiti a lui con l’appellativo di padroncino e non disturbarlo se legge, almeno che la villa non gli stia crollando addosso o sarai punito. Qualcosa non ti è chiaro?”

Alypios fece segno di diniego, rivolgendosi alla schiava più giovane, dai capelli ramati e gli occhi verdi che lo stava fissando. La vide sorridere e sentì la sua mano accarezzarlo lievemente. “Non avere paura, siamo fortunati… se non fari nulla di esageratamente sbagliato chiuderanno un occhio… sei solo un bambino… io sono Chandra.”

“Alypios…” rispose il greco con voce fievole, prima che un ragazzino non richiamasse l’attenzione della donna, appostandosi sul ciglio della stanza degli schiavi.

“Dov’è il vino che aveva chiesto il proconsole e dov’è mio padre? Un’altra ora con quel vecchio ammiccante e suoi soci che non sanno tenere le mani dove dovrebbero non la reggo, non m’interessa se mio fratello è a Napoli, né se mio padre aveva impegni improrogabili, ci tengo a rimanere puro o per lo meno a non perdere la mia verginità per mano di un vecchio.”

Fu questa la prima situazione in cui il piccolo greco conobbe quello che sarebbe stato il suo reale padrone, il figlio del console: Publio Appio Pulcro, un ragazzo dai capelli biondo grano e gli occhi ambrati, con gli stessi lineamenti dolci del padre ma un che di maligno nell’espressione.

“Il padrone è appena tornato dal mercato, padroncino… ha acquistato due nuovi schiavi: il qui presente, Alypios…” spiegò Chandra, con fare sicuro, indicando il ragazzino che abbassò il capo sotto lo sguardo scrutatore del più grande. “E un certo Lapius, che sarà addetto ai lavori manuali più pesanti, ma non l’ho ancora incrociato, padroncino…”

“Va bene…” disse Publio e Alypios capì che quello era il segno che la schiava poteva congedarsi, infatti la donna prese una brocca di vino e uscì dalla stanza.

Il biondo si avvicinò a lui, sedendosi su uno dei giacigli della schiavitù. “Alypios, greco suppongo… sembri capire quello che dico, ti hanno insegnato il latino? Uno dei tuoi genitori lo era? Di che colore sono i tuoi capelli? Sono strani!” Parlò velocemente, Alypios si perse qualche parola, ma capì il senso del discorso. Non disse nulla fino a che il ragazzo non lo guardò fisso, facendo un cenno con la mano ed esalando un “parla” annoiato.

“Sono… Greco, sì…” disse incerto, torturandosi le mani e non riuscendo ad incrociare lo sguardo del più grande. “Mia madre… e gli schiavisti mi hanno insegnato il latino… i miei capelli sono blu, non so perché… sono così… da sempre, credo…”

“Guardami.” Sentì ordinare e tentennando incrociò gli occhi ambrati del ragazzo che lo scrutavano con fare interessato. “Parli bene, mio padre vorrà istruirti sicuramente, così quando avrai vent’anni e il figlio di mio fratello ne avrà undici e i miei chissà, avremo un’insegnate in casa, niente più maestri privati da pagare o luoghi pubblici del Ludus Magister Marius.” Non capì perché, ma sentì una nota di disprezzo alla pronuncia di quel nome, evidentemente un insegnante che non aveva gradito: forse aveva osato abusare di lui? No, impossibile! Si disse Alypios, lo aveva sentito con le sue orecchie dire di essere ancora puro. Arrossì a causa dei suoi stessi pensieri, scuotendo lievemente il capo e facendo ridere il padroncino.

Si soffermò a guardarlo mentre sorrideva sincero e ammise che era davvero un bel ragazzo e che gli piaceva la sua voce, ovviamente avrebbe evitato di esternare questi pensieri, già vedeva la sua testa mozzata sul pavimento, altrimenti.

 

Come aveva immaginato, la sua vita era trascorsa dietro le pretese, gli ordini, le risate e i segreti sussurrati alle sue orecchie di Publio. Il padrone Appio si era occupato della sua istruzione, affiancandolo delle volte alle lezioni del figlio, ma non aveva avuto altri contatti con lui.

Di anno in anno, Alypios aveva visto crescere il suo padrone, vedendolo diventare ogni giorno più attraente e intelligente; Publio aveva dimostrato che la sua lingua tagliente e la sua oratoria potevano essere efficaci a convincere proconsoli e senatori che si trattenevano nella villa per i banchetto organizzati dal padre. Alypios si scoprì orgoglioso di essere schiavo di Publio e ,in fondo, il suo unico vero amico anche se era una considerazione che faceva soltanto con se stesso.

Era fiero di essere parte della vita di Publio, era felice di essere ai suoi ordini, di sapersi essenziale per la sua sopravvivenza.

Fu, durante uno di quei banchetti pomposi, che scoprì di provare un altro sentimento nei confronti del suo padrone: gelosia.

Guardava Publio, dalla solita postazione, a qualche metro di distanza, parlare con uno dei figli del console Quinto Fulvio Flacco, per poi vederlo appartarsi con lui in una delle stanze adiacenti al salone. Li seguì, anche se sapeva di non doverlo fare, non c’era stato quel tacito scambio di sguardi che voleva fargli intendere di seguirlo. Publio voleva stare solo, con quel Marco, così gli era parso di capire che si chiamasse.

Vide il suo padrone spingere il ragazzo bruno contro un muro per poi baciarlo con impeto, vide le toghe di entrambe cadere ed ebbe la forza di andarsene poco prima di vedere Publio violare l’altro ragazzo. Era consapevole che il suo padrone avesse quei tipi di rapporti ormai da qualche anno; aveva compiuto il sedicesimo anno di età il mese prima ed era plausibile che nel giro di due, massimo tre anni si sposasse, ma la scena a cui aveva assistito lo aveva colpito in ogni caso, come una pugnalata dritta al cuore; forse sperava che, un giorno, Publio lo avrebbe fatto suo, lo avrebbe preteso come sua proprietà, ma senza la brutalità che altri padroni avrebbero usato con il loro schiavo. Non era certo di che cosa provocasse in lui tanto sgomento, sapeva solo di stare male, molto male.

Mentre correva verso la stanzetta degli schiavi, incrociò Chandra ma non sentì le sue parole; si rifugiò nel suo giaciglio, sentendo il suo cuore spezzarsi, le lacrime cominciare a scendere e la sua voce interiore che lo insultava. Come aveva potuto illudersi che il rapporto tra lui e Publio andasse oltre l’essere schiavo e padrone?

Non avrebbe saputo dire quanto tempo avesse passato a piangere e singhiozzare, coperto da una coperta sudicia e strappata in più punti, l’andirivieni di molti schiavi aveva fatto da sottofondo alla sofferenza muta del suo cuore, sino a che non era giunto alle sue orecchie l’urlo di una donna. Avrebbe dovuto alzarsi, andare ad assicurarsi che nessuno si fosse fatto del male, ma e sue gambe avevano minacciato di cedere dopo il terzo passo e si era accasciato contro il muro, mentre due schiavi, Lapius e Caesus, avevano portato Chandra nella stanza. Quel giorno, la schiava che era stata per lui una madre era morta, dando alla luce un bambino dai capelli castani e gli occhi scuri, Alypios non nascose la sua felicità nel vedere quanto poco assomigliasse a Publio, non avrebbe retto il dover crescere il figlio della persona che amava.

                                                                                                 

Dopo quel giorno di infausti eventi, se ne susseguirono altri tre: la morte del proconsole Gaio Claudio Pulcro, cugino del padrone Appio e quella dello stesso padrone, a causa di una malattia che era stata mal curata; nessuno si stupì dell’atto violento di Publio ai danni dei medici che avevano ucciso prematuramente il padre. Furono giornate nere, durante le quali Alypios si sentì ancora più in colpa per aver anteposto i suoi problemi di cuore a quelli ben più gravi del padrone: semplicemente gli era impossibile mentire o far finta di nulla, quindi giorno dopo giorno si era allontanato sempre più da Publio, divenendo lo schiavo che avrebbe dovuto essere dal principio.

Sapeva di star destando molti sospetti, non solo con il padrone ma anche con gli altri schiavi, ma non se curava. Decise di seguire gli ordini alla lettera, come quello di allevare Ilio come se fosse suo figlio, di istruirlo, di amarlo e così fece.

 

Per alcune settimane sembrò che la sua tattica avesse preso piede, Publio si era arreso all’evidenza che quella complicità non sarebbe mai tornata, che il ragazzino di dieci anni che gli sorrideva consapevole fosse sparito, almeno Alypios si era autoconvinto di sperare che fosse così.

Poggiò il piccolo Ilio tra le braccia di Elsia, la serva che lo allattava, e vide il piccolino allungarsi verso di lui, cercarlo con gli occhi, come impaurito dalla presenza di una terza persona. Vide la donna cullarlo, mentre lo portava, sussurrando qualcosa di simile a “adesso Alypios ha dei compiti da svolgere ma tornerai presto da lui. Il greco sorrise, passandosi una mano tra i capelli color cobalto e si chiese se Publio avesse fatto bene ad affidare proprio a lui, a un quattordicenne, un bambino così piccolo. Se avessero avuto il rapporto di un tempo gli avrebbe confidato le sue perplessità senza timore, aspettando la risposta che gli avrebbe aperto gli occhi sulla sua decisone e che gliela avrebbe fatta considerate come la più giusta da prendere; inutile illudersi, si sarebbe limitato ad eseguire l’ordine, perché di quello si trattava, mentre Publio era occupato a prendere in mano le redini della casa patronale.

 

Stava scrivendo la lettera di condoglianze a una famiglia di cui non conosceva neanche il nome, si ricordava che erano dei patrizi, anche se i rapporti tra loro e i Pulcri non erano mai stati dei migliori; almeno così aveva dedotto dal commento di un mese prima del padrone.

“Vecchi ricchi, pomposi che pretendono che tutti s’inginocchino quando camminano, solo perché l’antenato del trisavolo del cugino di quattordicesimo grado pareva essere discendente della ninfa Egere…

Fesserie, io penso… l’uomo crea da solo la sua fama, non sono eventuali discendenze a fare di te un generale o un semplice legionario, non sei d’accordo, Alypios?” Lo aveva guardato, rivolgendogli il suo solito sorrisetto sghembo, ma il greco non aveva avuto il tempo di rispondere. Il padrone Appio aveva assestato uno scappellotto al suo secondo genito per poi aggiungere: “Non che io non sia d’accordo conte, figlio mio… ma rammenta che i patrizi come loro hanno spie ovunque… non farti sentire o la tua testa salterà prima che tu possa vedere la mannaia alzarsi… ora torna ai tuoi studi e dimostra che la fama della tua famiglia non ti porterà in alto, ma ci arriverai da solo…”

Il padrone era buono, così se lo ricordava Alypios, aveva sempre una parola di incoraggiamento per i figli e una di conforto per i poveri e le vedove. La sua dipartita aveva segnato una grave perdita nel cuore di Publio, assai peggiore della morte della madre avvenuta quando aveva solo tre anni. Suo padre ero lo scoglio al quale sapeva di potersi appendere durante la tempesta più nera, era la rete che lo avrebbe preso in ogni momento, senza paura di lacerarsi in più punti.

 

Immerso com’era nei suoi pensieri non sentì i passi veloci di una persona nella stanza, né la porta chiudersi velocemente; sentì la voce di Publio alle sue spalle quando ormai era troppo tardi per svignarsela o chiedere perdono a causa di impegno che lo avrebbe portato altrove.

“Alypios finirai dopo di scrivere la lettera ai Sesti.” Disse Publio, strappandogli il foglio dalle mani e poggiandolo su una mensola troppo alta per lo schiavo.

“Padrone…” sussurrò il greco, alzandosi e inchinandosi al suo cospetto.

“Guardami, Aly…” disse dolce Publio. “Cos’è cambiato fra noi?” chiese poi, come se stesse parlando a un amico fidato piuttosto che alla schiavo personale, quando incrociò i suoi occhi color zaffiro. Non ricevendo risposta ma solo uno sguardo triste in cambio, si sentì autorizzato a continuare. Si sedette su una sedia, appoggiata la uro e sospirò.

“Perché adesso? Proprio ora, Alypios? Ho bisogno di te, lo sai meglio di chiunque… quanto mi senta perso senza mio padre e tu mi abbandoni in questo modo? Senza una parola, senza una spiegazione.” Il greco provò a parlare per scusarsi, ma Publio lo interruppe. “ Non dire che ti dispiace... non dire che non è vero!” urlò, stringendo i pugni. “ Sfuggi ai miei sguardi, fai in modo che ci sia sempre un’altra persona con noi, che sia uno schiavo qualunque o il piccolo Ilio non ha importanza… anzi, sembra che quel bambino sia diventato lo scudo perfetto per dividerci, per proteggerti! Dimmi perché? Solo questo, non pretendo che tutto torni come pria, ma voglio un motivo valido…” Alypios sentì le gambe tremare quando il padrone alzò lo sguardo lucido su di lui, sapeva di valere qualcosa nella vita di Publio, ma non pensava arrivasse a piangere per lui.

“Hai paura?” continuò Publio, alzandosi, avvicinandosi allo schiavo e prendendogli il volto fra le mani. “Hai paura che ora che mio padre non c’è più ti farò del male? Abuserò di te?” chiese con voce fievole. Poi poggiò la fronte sulla sua. Alypios sentì un brivido, mentre il respiro caldo del suo padrone si infrangeva sulle sue labbra, le ginocchia cedettero e trasportò Publio con sé a terra, cingendolo con le braccia e lasciando che appoggiasse la testa sulla sua spalla e si sfogasse.

“Perdonami, Publio…” disse con voce rotta. “Mi dispiace, non volevo farti soffrire di più di quanto già soffri, non ti temo, non temo le tue mani su di me… io le desidero.” Disse senza rendersi conto del significato ultimo delle sue parole.

Capì che non aveva pensato solamente quando Publio unì le loro labbra in un bacio che Alypios aveva desiderato da molto tempo.

“Aly…” sussurrò. “Non osare mai più allontanarti da me, mai! O ti farò uccidere e poi mi farò frustrare fino a dissanguarmi… hai capito?” Il greco incrociò lo sguardo serio del romano, annuendo. Era più impaurito dalla prospettiva di causare la morte del suo amato che la sua, ma ricacciò le parole in gola, stringendosi a lui e sentendosi sollevare fino a trovarsi seduto sul tavolo. Publio si trovava tra le sue gambe aperte e lo guardava malizioso. Arrossì fino alla unta dei capelli, mentre Publio ci passava una mano all’interno e lo baciava con trasporto. Si lasciò andare serrando le cosce intorno al suo bacio e sperando che quel momento non finisse mai.

“Questa notte, fatti trovare nelle mie stanze… voglio averti sul mio letto, tra le lenzuola di lino e i cuscini vellutati non su un tavolo scomodo.” Gli lasciò un ultimo bacio sulla fronte e poi sciolse il contatto uscendo dalla stanza e lasciando Alypios felice ma ancora eccitato e insoddisfatto.

Adempì a tutti i suoi compiti, sperando che la giornata passasse in fretta, l’intero suo corpo fremeva all’idea di poter toccare, baciare Publio e soprattutto di sentirlo dentro di sé: volva diventare un tutt’uno con il suo amato, non stava più nella pelle all’idea.

 

Arrivò ben prima del previsto nella camera di Publio e non sapendo cosa fare nell’attesa si versò un bicchiere d’acqua e lo bevve tutto d’un sorso. Sobbalzò quando sentì qualcuno alle spalle.

“Tranquillo, sono io…” disse Publio, abbracciandolo da dietro e facendo sì che i suoi nervi si distendessero in un attimo. “Sei in anticipo…” Lo fermò prima che potesse chiedere perdono. Va bene. Pensavo di farti mio nella vasca, ho ordinato di riempirla, sarà piacevole…” Alypios vide Publio scostare la tempa e incamminarsi verso la piccola vasca privata delle sue stanze, ma rimase immobile: la paura dell’acqua non gli era mai passata, non voleva rovinare tutto, ma non si sentiva la sicuro.

“Vieni…” La voce di Publio gli parve come una benedizione, mentre vedeva la toga scivolare dalle sue spalle. Si perse nel memorizzare ogni più piccolo dettaglio del suo corpo. Per un attimo, si vergognò del suo aspetto, ma quando il padrone lo chiamò nuovamente, la sua voce aveva una nota spazientita all’interno, non si fece pregare. Si svestì velocemente e si immerse nell’acqua avvicinandosi al suo amato che lo circondò con le braccia, sussurrandogli di non temere nulla, che sarebbe stato bello.

Così fu, Publio si dimostrò esperto nell’arte dell’amore ma anche dolce e delicato. L’intrusione all’inizio gli provocò un po’ di dolore ma bastò la sicurezza che vide negli occhi del ragazzo più grande a farla sparire del tutto e a trasformarla nel più grande dei piaceri.

Quando Publio uscì da lui, sentì come un senso di vuoti era ormai notte fonda e non riusciva a vedere nulla perché le candele che gli schiavi avevano accesso qualche ora prima si era ormai consumate.

“Vado a prendere degli asciugamani per coprirci.” La voce di Publio lo raggiunse roca, ma allo stesso tempo dolce e sentì l’acqua muoversi piano. Si rilassò, chiudendo gli occhi e pensando che il connubio fra le due cose che lo avevano sempre terrorizzato, acqua e buoi, non gli faceva più paura.

Sentì l’acqua muoversi di nuovo e aprì le braccia per accogliere il suo amato e sussurrò: “Publio, vieni qui…”

“Non solo il padrone!” Una voce femminile gli rispose con odio, un attimo prima di spingerlo sotto la superfice dell’acqua e cingergli il collo con entrambe le mani.

Alypios si sentì soffocare, mentre l’acqua gli entrava dalle narici e dalla bocca. Gli occhi gli briciavano e cerco di divincolarsi, ma f tutto inutile. La donna, appoggiata sul suo bacino, doveva pesare almeno il doppio di lui. Diede uno strattone, facendola vacillare un attimo e pensò di potersi liberare, quando la mano destra lasciò il suo collo. Il dolore lancinante allo stomaco che sentì un attimo dopo gli disse che la donna era armata, vide l’acqua colorarsi del sua sangue, mentre il respiro cominciava a venirgli meno, sentì una lacrima scorrere dai suoi occhi, mentre l’immagine di Publio si mostrava davanti a lui, sorridente e bellissimo come sempre, anche il piccolo Ilio gli comparve dinnanzi.

L’ultimo pensiero, mentre Ade lo chiamava a sé fu: avevo ragione ad aver paura dell’acqua e del buio… Sono un connubio letale. Avrei solo voluto amarti ancora, Publio. Rivederti un’ultima volta, Madre. Poterti crescere, Ilio. E sapere perché i miei capelli hanno lo stesso colore del mare in tempesta o della notte più buia.

 

 

 

 

   
 
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