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Autore: emotjon    28/12/2013    33 recensioni
Heidi, 20 anni. Zayn, 22 anni.
Lei, cieca. Lui, grande osservatore.
Lei gli insegnerà ad ascoltare.
Lui le insegnerà a vedere.
E insieme impareranno ad amare.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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*credo di essere particolarmente imperdonabile stavolta.
quindi, penso che eviterò di chiedervi scusa per il ritardo.
penso anche che vi augurerò buone feste, vi ringrazierò e vi lascerò leggere il capitolo in pace.
quindi, buone feste, grazie per tutto e buona lettura c:
alla prossima, al prossimo anno... xx Fede.*



16.


HEIDI'S POINT OF VIEW.

Due settimane di pace. Pace apparente? No. Pace. Vera e propria pace. Nel senso di benessere. Di allegria. Sorrisi, abbracci, carezze. Senza la minima preoccupazione a turbare la quiete, nonostante Zayn sia ancora turbato per Nathan.
Sono convinta che gli passerà, prima o poi. Anzi, devo ammettere che se si parlassero come persone civili una volta per tutte, e magari riuscissero a chiarire… avrei un motivo in più per sorridere. Non che non abbia un motivo per sorridere, certo. Ma mi sentirei decisamente meglio se tutta questa storia e quest’odio che si portano dietro, finissero.
«Andiamo, non fare la scema!». Scema? Mi riprendo sentendo la voce di Charlotte chiamarmi in quel modo, allora mi blocco in mezzo al marciapiede e inarco un sopracciglio. La sento sbuffare. E forse potrebbe anche avere ragione. Forse. «Stiamo girando intorno all’ospedale da quasi un’ora Heidi, dai…». Sì, ha ragione. Sto facendo la scema.
«Ho paura degli ospedali, te l’ho detto», cerco di giustificarmi, senza troppo successo. Sospiro, passandomi poi la mano libera dalla sua presa tra i capelli. Non è strano che una ragazza cieca abbia paura degli ospedali? Insomma, ormai dovrei averci fatto l’abitudine. E invece niente, continuo ad esserne terrorizzata.
«Mi spieghi perché non hai chiesto a Zayn di accompagnarti?». Ed eccola, la domanda che mi aspettavo. La domanda che Charlie avrebbe dovuto farmi fin da subito, quando è venuta a prendermi a casa. Sorrido appena, trattenendo a malapena le lacrime, quando lei mi prende delicatamente il viso tra le mani. «Heidi…».
«Il mal di testa… non è mai passato», le dico semplicemente, lasciando scorrere una lacrima. Ed è per quello che sono spaventata, non per l’ospedale. Mi sono imbottita di antidolorifici per due settimane, sperando di sentirlo meno. Ma il mal di testa era sempre lì, forte e continuo, senza migliorare né peggiorare. Sempre lì e sempre uguale. «Ho detto a Zayn che stavo meglio perché…».
«Non vuoi che si preoccupi, ho capito», mi dice in un soffio, abbracciandomi. «Ora però mi fumo una sigaretta e andiamo dal medico, okay?». La sento sorridere, prima che mi lasci un bacio sulla guancia e sciolga l’abbraccio, per riprendermi per mano e ricominciare a camminare.
E annuisco, non riuscendo a fare nient’altro di concreto.
Tanto prima o poi avrei dovuto dirlo a qualcuno, parlarne, o avrei rischiato di esplodere. Solo, davvero non pensavo di poterlo dire ad una ragazza che praticamente non conosco. Pensavo di trovare il coraggio per dirlo a Vicki, a Louis… o a Zayn. Charlotte è davvero l’ultima persona a cui avrei pensato.
«Andiamo, mia piccola Stevie Wonder?», mi chiede Charlotte dopo un po’. Mi soffia l’ultimo tiro di sigaretta in faccia, prima che mi possa rendere conto di come mi ha chiamata. Stevie Wonder? Oddio. Tra tanti doveva proprio paragonarmi ad un cantante cieco?
Ma non riesco a fare a meno di ridacchiare e annuire, senza nemmeno protestare per l’odore di fumo in cui mi ha praticamente immersa. Non è poi tanto male. Ma solo perché mi ricorda Zayn. Solo per quello.
E mi accorgo a malapena di camminare tra i corridoi di quell’ospedale che tanto odio. Tengo addirittura le palpebre abbassate, lasciando che la migliore amica del mio ragazzo mi trascini dove vuole. Lascio che mi spinga delicatamente in ascensore, sfiorando con calma un tasto dopo l’altro, fino a trovare quello per il quarto piano.
Sento Charlotte sorridere appena e scuotere la testa. È sorpresa, direi.
«Che c’è?», le chiedo senza riuscire a trattenere una risatina.
«Niente, è che sei sorprendente, bionda», ribatte aumentando appena la presa sulla mia mano. Mi viene spontaneo sorridere, scuotendo delicatamente la testa, appena prima che l’ascensore ci avverta di essere arrivate al piano. «Non c’è da stupirsi che Zayn tenga tanto a te», aggiunge a voce tanto bassa che quasi non riesco a sentirla.
«Penso che lo prenderò come un complimento, Char».
E appena fuori dall’ascensore, mi arriva addosso l’odore penetrante e fin troppo forte del dopobarba del dottor Harrison. Segno evidente che gli siamo vicine, parecchio. Oppure che è appena passato di fronte all’ascensore da cui io e Charlotte siamo appena uscite. Buona la prima. «Heidi», mi sento chiamare. La sua voce ha una sfumatura di sorpresa, che non prova nemmeno a nascondere.
Ed è normale, considerando che avrei dovuto essere in ospedale non prima della prossima settimana, per gli esami e tutto il resto. Tutto solo per quelle due o tre volte in cui mi è sembrato di vedere qualcosa.
«Ha un minuto, dottore?», gli chiedo con un mezzo sorriso. Charlie mi stringe la mano, segno che devo iniziare a muovere un passo dietro l’altro, seguendo lei e il mio oculista. Deve essersi preoccupato, chissà come, e deve aver fatto un segno alla ragazza al mio fianco, di sicuro.
Una cinquantina di passi lungo il corridoio, sempre dritti. Poi una svolta sulla sinistra, e altri venti passi. Attraversiamo la porta di quello che so perfettamente essere il suo studio, e sento la porta chiudersi alle nostre spalle, prima che Charlie possa aiutarmi a mettermi seduta sul solito lettino coperto dal solito lenzuolo di carta sterile.
«Ti aspettavo la prossima settimana». La voce del dottor Harrison rompe il silenzio, che era interrotto solo dal masticare nervoso di Charlotte. Dovrei essere io quella nervosa, non lei. «E hai portato un’amica… che non conosco», aggiunge facendomi sorridere.
Non ha tutti i torti. Non ho mai portato nessuno che non fossero Vicki, Liam, Louis o mia madre. Ed è incredibile come in poco più di un mese sia cambiato tutto. Prima Zayn, e ora Charlotte. Sì, il mio oculista deve essere davvero sorpreso.
Sento appena Charlie che si allunga verso di lui per stringergli una mano e presentarsi. Io, dal canto mio, non posso far altro se non massaggiarmi le tempie, cercando di placare l’ennesima fitta alla testa. E sento il medico trattenere il fiato qualche secondo, notando evidentemente quello che sto facendo.
«So che mi sta guardando male dottore, non sono stupida».
Sbuffa, prima di alzarsi in piedi e avvicinarsi al lettino su cui sono seduta. Charlotte si è allontanata per fargli spazio. E sento che il dottor Harrison ha tirato fuori dalla tasca del camice la solita torcia elettrica, di quelle che usano gli oculisti per vedere i riflessi della pupilla, credo.
Sento che me la punta contro, tenendomi aperto prima un occhio e poi l’altro.
Ma niente, continuo a vedere solo il buio. Il buio più totale.
«Da quanto hai questo mal di testa?», mi chiede alla fine, sospirando.
«Dal giorno in cui ci siamo visti per la visita…». Mi sento terribilmente in colpa. Perché avrei dovuto chiamarlo subito, il pomeriggio stesso, e dirglielo. Perché ho fatto finta di stare bene due settimane. Perché non ho detto niente a Zayn. Sono decisamente una brutta persona.
«Due settimane… è interessante». Inarco un sopracciglio, confusa. Mi aspettavo una sfuriata, lo ammetto. Mi aspettavo che mi incolpasse di non aver detto niente a nessuno, di non essermi fatta vedere prima. E invece niente. Interessante? No, davvero non capisco. «Devo ricoverarti Heidi, facciamo tutti gli accertamenti e cerchiamo di capire se il mal di testa ha a che fare con le ombre che mi hai detto di aver visto…».
Mi irrigidisco sensibilmente, già alla parola “ricoverarti”. Per poi rabbrividire alla parola “accertamenti”. Ma l’unica cosa che posso fare è annuire, anche se contrariata, e seguire il volere del medico. Perché non ci vedo. Non posso saltare giù dal lettino e correre via, prendere l’auto di Charlotte e tornare a casa.
Non posso. Anche se vorrei farlo, terribilmente.

***

ZAYN'S POINT OF VIEW.

Grazie a chissà quale miracolo arrivo in orario al lavoro. Niente più spaccio. Ho solo trovato un lavoro in un bar vicino al liceo. Mamma lavora, certo, ma la pagano talmente poco che non è la prima volta che devo trovarmi un lavoretto per aiutare a pagare le bollette. Solo, niente più droga, alcool… niente più Nathan.
E in fondo servire caffè e cornetti non mi viene tanto male. Basta prenderci la mano. Basta avere una buona memoria coi clienti, e sorridere, sempre e comunque. Beh, è proprio quella parte del lavoro che mi viene meglio.
Mi basta immaginare di avere Heidi davanti. Lei e il suo bellissimo sorriso.
E viene spontaneo sorridere, come respirare.
«Zayn, il tavolo cinque… un the alla vaniglia e due pancakes al cioccolato», mi dice sorridente Helene, la mia collega. Ha qualche anno più di me, le labbra tinte di rosso e i capelli color cioccolato, lunghi fin sotto la vita e liscissimi, con qualche meches blu elettrico qua e là. «So di essere bellissima, piantala di fissarmi», aggiunge arrossendo appena e passandosi una mano tra i capelli.
Alzo le mani come per arrendermi, prendo il vassoio che mi porge e mi volto, camminando ancora divertito verso il tavolo cinque. Poso tutto sul tavolo e lascio il conto ad una signora dai capelli castani, sui quarant’anni. Familiare, è l’unico aggettivo che mi viene per descriverla. E quando alza lo sguardo e mi sorride, capisco di averla già vista.
E se ne accorge anche lei, dato che il sorriso le si spegne, come una lampadina sovraccarica che si è appena fulminata. Si porta una mano alla bocca, cambiando totalmente espressione.
Dolore. Tristezza. Ricordi che vengono a galla.
Finché non capisco perché mi è tanto familiare. Era al processo di Nathan, quello per l’incidente di Doniya. Era a quel processo, come me, come parte lesa. Sua figlia era sull’altra auto, finita in coma dopo un trauma cranico. «Si ricorda, immagino…», riesco a dire con un sorriso triste non appena lei fa cenno di sedermi.
La vedo annuire, mentre si porta la tazza di the alle labbra. Le tremano le mani.
«Io… scusa se ho reagito in quel modo poco fa… è che…». Annuisco, tentando un sorriso, che ricambia timidamente. La capisco, eccome. Quel che non capisco è come possa essermi familiare la sua voce, considerato che non ci siamo mai detti una parola. È un tono di voce dolce, allegro… terribilmente familiare. «Ho sentito che il ragazzo dell’incidente è uscito di prigione».
«Sì, l’erba cattiva non muore mai», borbotto passandomi una mano tra i capelli e tirandone leggermente le punte. Scuoto appena la testa. Non voglio parlare di Nathan. Fa male a me, e a lei. E mi farebbe solo incazzare, in fin dei conti. «Sua figlia…». Lascio volutamente la frase in sospeso, e quando la vedo sorridere, mi sento meglio.
Molto meglio, eccome.
«E’ ancora viva, per fortuna… a proposito, mi dispiace per tua sorella».
Ed ecco. All’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, mi si accende una lampadina. Ma più che altro è un’idea folle, da pazzo. È solo che il modo in cui ha pronunciato le ultime parole… non posso far altro se non pensare ad Heidi. L’ha detto esattamente come lei, con lo stesso tono di voce, la stessa inflessione e lo stesso dispiacere.
Con lo stesso lampo negli occhi celesti. Celesti, come quelli della mia ragazza.
«Io… credo di conoscere sua figlia», butto lì. Non ne sono convinto, non al cento per cento almeno. Ma sono quasi sicuro di avere davanti la madre della ragazza cieca di cui mi sto innamorando. La vedo sgranare gli occhi, inarcando un sopracciglio.
Ma non faccio in tempo a dire altro, così come lei non fa in tempo a ribattere. Vedo il suo cellulare illuminarsi e prendere a lampeggiare, nello stesso momento in cui anche il mio prende a vibrare, nella tasca della divisa. Mi alzo, prendendo il cellulare e allontanandomi per lasciarle la sua privacy.
E alzo gli occhi al cielo, quando vedo chi mi sta chiamando.
«Dimmi tutto, rossa», dico a Charlotte con un sorriso. Me la immagino, sul divano con Harry a giocare con una ciocca dei suoi capelli, mentre sorridono e si guardano. Annoiati, ma che si bastano a vicenda. «Char?», aggiungo dopo qualche secondo, ridacchiando dei miei stessi pensieri.
«Non ti arrabbiare, ma ho accompagnato Heidi in ospedale…».
Mi irrigidisco all’istante, facendo quasi cadere il telefono, da quanto mi tremano le mani. È più forte di me. Sono terrorizzato, almeno quanto la signora del tavolo cinque, che mi lancia un’occhiata, come se sperasse di non trovare la sua stessa espressione sul mio volto. Come se sperasse che io non conosca sua figlia.
«Dammi cinque minuti…», dico nel telefono levandomi di dosso il grembiule e lasciandolo sul bancone davanti ad Helene, che mi guarda a metà tra il preoccupato e il dispiaciuto.
«Zayn, piano… lei sta bene», mi sento dire dopo qualche secondo. Allora mi blocco, senza capire. Se sta bene, perché diavolo è in ospedale? «Senti, è meglio se te lo spiega lei… ma ora è al telefono con sua madre». Mi viene da sorridere, appena, e mi volto verso la signora del tavolo cinque, che ricambia lo sguardo, spaesata.
E nemmeno mi fa strano aver conosciuto la madre di Heidi in questo modo. Per niente. Insomma, dopotutto è stato un incontro chiarificatore, da un certo punto di vista. Se Heidi è sua figlia, e lei era al processo per l’incidente che ha ucciso mia sorella… vuol dire che sono uno stupido.
Che avrei dovuto pensarci prima.
Che Heidi ha perso la vista nello stesso incidente in cui è morta mia sorella.
«Ci vediamo in ospedale, Char», dico alla mia migliore amica con voce roca, chiudendo la telefonata prima che possa fare domande. So perfettamente di essere sbiancato, ma mai quanto la madre di Heidi. È pallida come un cencio, ed è come se non riuscisse a togliermi gli occhi di dosso. «Signora Foster… io, non so che dire…», è l’unica cosa che esce dalle mie labbra, prima che lei mi abbracci, senza dire una parola.
«E’ strano conoscere il ragazzo di mia figlia così, sai?», scherza allontanandosi per rivolgermi un sorriso. Ed è il suo sorriso, la copia esatta. Ridacchio, mentre lei si asciuga una lacrima sfuggita al suo controllo.
«Pensi quanto è strano per me… vuole un passaggio?», le chiedo, dopo aver fatto cenno ad Helene che devo andare. È una specie di emergenza dopotutto, o no? La madre di Heidi mi sorride dolcemente, prima di annuire e seguirmi fuori dal bar, senza dire una parola.
«Heidi non lo sa, immagino… dell’incidente».
«Non lo sapevo nemmeno io, fino a poco fa», ammetto guardandola con la coda dell’occhio. Alza gli occhi al cielo e si passa una mano tra i capelli. E’ proprio sua madre, non c’è dubbio.


 

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(askate, vi supplico in ginocchio, lol)

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