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Autore: Harriet    29/12/2013    1 recensioni
Amir è un giovane pakistano appena arrivato a Londra. La sua storia cambierà drasticamente quando entrerà in contatto con il Sunflower, un teatro periferico, bruttino e pieno di fantasmi.
Nel futuro straordinario di Amir ci sono incontri sovrannaturali, guai quotidiani e molti spettri da liberare. Anche quelli che affollano la mente di Joel Bennett, il proprietario del teatro.
Londra, le sue storie e un mondo di stranezze e meraviglie. Il Sunflower ha aperto le sue porte anche per voi.
[XXX: Capitolo finale!]
Genere: Drammatico, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo II
Figure in un sogno


He made harp pins of her fingers fair
With a hey ho and a bonny o
He made harp strings of her golden hair
The swans swim so bonny o
He made a harp of her breast bone
With a hey ho and a bonny o
And straight it began to play alone
The swans swim so bonny o


(Ballata tradizionale inglese, rielaborata da Loreena McKennitt nella canzone The Bonny Swans)


Londra, 13 maggio 2008

Era una giornata così mite e soleggiata che perfino il Sunflower sembrava un posto sano, e tutta la sua secolare umidità prosciugata all'improvviso.
- Magari quelle quindici persone che stasera verranno allo spettacolo se ne torneranno a casa senza un raffreddore omaggio.- Joel Bennett si affacciò in platea, dette un'occhiata e si ritrasse subito.
- Perché è così poco ottimista, signor Bennett?- Sospirò Amir, con le braccia gravate dal peso di un misterioso scatolone. - D'accordo, è la serata di riapertura di un posto piccolo e sconosciuto, e non abbiamo fatto esattamente una gran pubblicità, ma...
- Mi stavo solo preparando al peggio. È un esercizio che comporta dei vantaggi.- Rispose lui, imperturbabile come sempre. - Cos'hai in quella scatola?
- Era all'ingresso, con un biglietto da parte della signorina Raymond che chiedeva di portarlo nei camerini. Ci sono dei costumi, dentro, a quanto c'è scritto.
- La band di Ophelia Raymond è già qui?
- Immagino di sì. Ho visto almeno due ragazze in giro.
- Bene. Adesso devo andare. Ci vediamo questa sera per lo spettacolo. Puoi cavartela da solo con le musiciste e tutto il resto, vero?
- Certo. Non si preoccupi.
Il signor Bennett fece uno dei suoi sorrisi rilassati, lo salutò con un cenno della testa e si allontanò in fretta.
- Poteva anche fare una pubblicità migliore.- Brontolò Amir, imboccando la via dei camerini.
Si fermò davanti alla porta che avrebbe dovuto aprire per giungere alla sua meta, intenzionato a posare il suo carico, e la porta gli fu aperta da una ragazza – una piccola persona con gli occhi chiari e le lentiggini. Gli sorrise e gli indicò dove posare la scatola, senza dire una parola.
- Oh. Salve. Lei è una dei membri della band della signorina Raymond, giusto?
La ragazza sorrideva in maniera gentile, ma continuava a non dire nulla. Lui abbandonò la scatola dove gli veniva indicato, sorridendo di rimando, piuttosto confuso.
- Posso fare qualcosa per voi?
Cenno di diniego. Un sorriso, un piccolo inchino, e poi la ragazza svanì dietro una porta. Amir, perplesso, per un istante ponderò di cedere alla curiosità e sbirciare i costumi nello scatolone, ma si trattenne, inorridendo un attimo dopo al suo stesso pensiero.
Appena fuori incontrò un'altra delle artiste.
- Salve. Benvenuta. Ha bisogno di qualcosa?
La ragazza scosse la testa e i lunghi capelli neri raccolti in una coda lenta. Fece per superarlo, poi però si fermò un istante e gli sorrise in risposta.
In corridoio incontrò una donna con i capelli rossi, infagottata in una veste che sembrava più adatta a un eremita del deserto che a una musicista britannica. Appena le passò accanto, prima che potesse dirle anche solo una sillaba, la donna piegò la testa, come per rendergli omaggio, mantenendo la sua espressione severa. Amir rimase immobile e muto, mentre lei si allontanava.
Forse quel silenzio era contagioso.

- Se quell'idiota di Joel Bennett spera di mettere insieme abbastanza pubblico da ripagare sia le spese che la compagnia, è davvero più stupido di quanto sembri.
- Io penso che il signor Bennett abbia fatto dei calcoli piuttosto realistici.
- Tu pensi proprio male.
Amir si impose di rimanere calmo e sopportare quella persona terribilmente molesta. Il signor Bennett aveva detto che era un vecchio amico. Il signor Bennett tendeva ad avere moltissimi vecchi amici assai discutibili. Ma non per questo Amir poteva permettersi di essere scortese con loro.
- Questo posto farebbe bene a bruciare.
- Signor Richard, posso sapere perché tutto questo astio verso il Sunflower?
- Perché ci strappavo i biglietti dieci anni fa e quel pazzo di Headley a malapena lo teneva in piedi. E prima di lui, quella visionaria della Wilmore era quasi costantemente in perdita. E per quanto questo posto stia a galla quanto il Titanic, non so perché tutti i suoi proprietari sono convinti che debba andare avanti.
- Evidentemente ci sono legati.
- Evidentemente sono dei rimbecilliti.
Amir pensò che il signor Richard conosceva davvero moltissime parole che esprimevano il concetto di stupidità.
- Che poi, il tuo amico Bennett ha una faccia tosta inimmaginabile, credimi.- Riprese l'uomo, dopo qualche minuto di silenzio nel quale si era dedicato a disporre in modo diverso i pochi mobili presenti nell'atrio del teatro. - Lo sai che il suo caro vecchio Headley mi aveva licenziato? Non me ne sono andato di mia spontanea volontà. E ora ha il coraggio di richiamarmi!
- Forse si è reso conto che lei è una persona affidabile.
- Forse è un cretino che aveva bisogno di qualcuno a salvargli il culo a poche ore dalla riapertura di questo posto, eh?
- Perché il signor Headley l'aveva licenziata?
- Per un'accusa infamante e assolutamente falsa.
Amir studiò per qualche istante la figura mingherlina del vecchio, un omino che sembrava fatto di fil di ferro, con un mastodontico cespuglio di capelli ricci e candidi.
- Non vuoi sapere cos'era successo?- Incalzò il signor Richard, che evidentemente moriva dalla voglia di raccontarlo.
- Certo.
- Sono stato accusato di un assassino.
Amir si lasciò sfuggire di mano lo sgabello che stava trasportando (per rimetterlo al suo posto e toglierlo dal cestino dei rifiuti, dove l'aveva incastrato a forza il signor Richard.)
- Che cosa?
- Fui accusato della morte di due conigli di Patrick Brennan, un prestigiatore.
Amir si lasciò cadere sullo sgabello redivivo, rilassandosi.
- Per quale ragione avrebbe dovuto uccidere due conigli?
- Ah, lo dovrebbe chiedere all'assistente di quel pazzoide, una tizia vestita in modo improponibile che mi denunciò a Headley e Bennett, accusandomi sulla base del ritrovamento di un oggetto nel mio ripostiglio. Oggetto che, secondo le sue ineffabili deduzioni, provava chiaramente la mia colpa.
- Ovvero?
- Un barbecue.
- Mi sta dicendo che fu accusato di aver arrostito i conigli qui dentro al teatro?
- Qualcuno testimoniò di aver visto il fumo da fuori. Poi che quell'intrigante di Vivien, la figlia di Headley, trovò delle macchie d'olio sul divanetto là nell'angolo, e per questo fui dichiarato colpevole!
- Ehm...
- Licenziato, così, per niente. Mi dovetti abbassare ad andare a strappare biglietti a un cinema, che non è per niente la stessa cosa che un teatro. Ah, questo posto è marcio, te lo dico io. Ma insomma, ragazzo, queste musiciste arrivano o no?
- Ci sono già.
- Io non le ho viste! Eppure sono sempre stato qui.
- Saranno entrate dall'ingresso secondario.
- Quella tizia che fuma, la signorina Raymond, è arrivata in pompa magna dall'ingresso principale: lei l'ho vista. Ma tutte le altre? Pare che siano più di venti. E non sento nemmeno le voci. Secondo me non ci sono e tu hai solo sognato di vederle.
- Sarebbe grave, se avessi sognato di vederle. Ne ho incontrate tre, e ci ho anche parlato.
In realtà, no, non ci ho parlato: non parlano affatto. Però le ho viste.
Adesso il signor Richard si era messo a cercare di grattare via dal bancone di legno una vecchia macchia, e pretendeva di farlo con un enorme trincetto arrugginito. Amir decise che era il momento buono per andare a controllare che tutto fosse in ordine.

Verso la metà del pomeriggio pensò di lasciare il teatro e fare un giro nei dintorni, ma poi rinunciò. Non sentiva il bisogno di allontanarsi. Stava bene. Stare lì dentro, in quel posto dalle luci strane e l'atmosfera ovattata, lo metteva a suo agio. Camminava rasente le pareti, lungo i corridoi, divertendosi a studiare le vecchie locandine appese ovunque, o gli intricati ricami della carta da parati. Voleva stare lì.
Lungo le ore che trascorse in compagnia del teatro incontrò altre due donne della band di Ophelia Raymond. Una di loro aveva i capelli stretti in due trecce che le scendevano ai lati del viso scavato, e scappò subito appena lo vide avvicinare. L'altra, rotonda e graziosa, gli fece un sorriso, mentre correva via – e Amir non riuscì a vedere che direzione avesse preso.

Forse avrebbe dovuto capirlo allora, quando si aprì il sipario e si fece avanti la ragazza piccolina con le lentiggini, avanzando con gli occhi bassi e una grazia strana, quasi innaturale, per sedersi di fronte all'arpa posta in un angolo del palco. Ma era troppo impegnato a guardarsi attorno, compiaciuto e sollevato per il buon afflusso di pubblico, per capire. Quasi non si rese conto che la ragazza aveva cominciato a suonare, finché la voce cupa di Ophelia arrivò a strapparlo da altri pensieri, per catalizzare l'attenzione su di sé.

Per strade invisibili, in mezzo alle ombre
Il loro corteo accompagno
Per strade notturne, dirette all'aurora
Il loro silenzio accompagno
Ascolto le loro parole non dette:
Esplodono in me, fiori e stelle
Se loro non possono più raccontare
Ancora io posso cantare


La ballata scivolò dalla dolcezza inquietante delle prime note ad un ritmo più concitato, la poesia diventò una storia di abbandono e dimenticanza. Incantato dalla melodia, Amir ascoltò fino all'ultima nota del racconto. Alla fine, la piccola arpista venne alla ribalta e fece appena un cenno con la testa, correndo via subito dalla scena.
Entrò un'altra ragazza, alta e robusta, con i capelli corti, e imbracciò una chitarra, sedendosi accanto ad Ophelia. La cantante aveva tra le mani lo stesso strumento. Iniziarono a suonare nello stesso istante, facendo dialogare le chitarre e scambiandosi uno sguardo, ogni tanto. Fu ancora Ophelia a cantare. Il pezzo sembrava più allegro, ma Amir era certo di cogliervi una sfumatura che spezzava il cuore, da qualche parte, tra le note.
La ragazza magrissima e quella paffuta salirono sul palco insieme, portando ognuna un tamburo. Ophelia cantò una sorta di danza che pareva non finire mai, accompagnata solo dalle percussioni. Le sue parole evocarono una donna abbandonata per un'altra, che però, in qualche modo, era ugualmente tradita. Alla fine le ragazze si presero per mano, fecero un inchino e se ne andarono. Un'altra percussionista arrivò insieme ad una violinista, e quando la musica si trasformò da tenue ballata in danza sfrenata, sul palco giunsero otto danzatrici, che si rincorsero a lungo, giocando con le loro vesti fatte di velo.
Ogni canto sembrava regalare un altro frammento di storia. Allo stesso tempo, ogni canto sembrava portare via qualcosa.
Dopo, forse avrebbe intuito qualcosa. Anche se avrebbe dovuto accorgersene, che le ragazze se ne andavano in maniera strana: entravano nell'ombra delle quinte, ma quelle non si muovevano, come accade quando qualcuno vi passa accanto. Non c'era spostamento d'aria. Le quinte restavano immobili. Come se le donne non avessero avuto un corpo solido, ma fossero state fatte di niente. L'ultima fu una ragazzina sui dodici anni: si sedette accanto a Ophelia e posò il viso sulle sue ginocchia. La cantante, senza alcuno strumento, le mormorò una ninna nanna. Amir fu sicuro di non ricordare affatto il momento in cui la ragazzina se n'era andata dalla scena.
Infine si fece buio. E dall'oscurità emerse la voce di Ophelia, accompagnata solo da qualche accordo straziante.

La strada è finita e l'alba è vicina
I passi dispersi nel vento
Nell'aria schiarita si perdono i visi
Rimangono solo i sorrisi
Nel sole rinato svanisce ogni pianto
Rimane un ricordo del canto


Quando ci fu di nuovo un po' di luce, Ophelia era sola al centro del palco. Fece un rapido inchino al pubblico e se ne andò, senza prestare alcuna attenzione agli applausi.

Corse nel retropalco spinto da una sensazione e nient'altro, ma di rado aveva sperimentato qualcosa di tanto urgente. Voleva capire il perché di tutta quella tristezza. Voleva capire se si stava lasciando contagiare da qualche psicosi, o se la sensazione che aveva avvertito nello stomaco ogni volta che una delle donne usciva dal palco era vera.
Trovò Ophelia inginocchiata in un angolo, in lacrime. Quando lo vide si sforzò di sorridere.
- Grazie. Senza di te, non avrebbero potuto farlo.
- Signorina Ophelia, si sente bene?
- Sì. Ora sì. Hai capito perché avevo bisogno di questa serata, vero? Erano così tante. Vado in giro e le raccolgo, ma hanno bisogno di una voce e un palco, per potersi liberare. Loro si lasciano chiamare, e mi seguono dove c'è qualcuno disposto ad ascoltare.
- Io non capisco cosa stia dicendo, mi dispiace.
- Davvero?- La donna si sollevò in piedi e gli si fece vicina. - Eppure c'è una lanterna appesa fuori dalla porta di questo teatro. Pensavo fosse lì per te.
- Per me? Cosa significa?
- Significa la disponibilità a prendersi a cuore le storie di quelli a metà.
Lui scosse la testa, combattuto tra il desiderio di riempirla di domande e quello di implorarla di smettere di dire cose sciocche e insensate.
- Alcune persone sono predilette dalle ombre. Tu le hai viste, no? Le ragazze.
- Tutti le hanno viste.
- Sul palco, sì. Ma prima dello spettacolo, loro si sono fatte vedere solo da te.
Stava per ripetere che non capiva, quando all'improvviso realizzò quanto fosse totale il silenzio. Avevano visto almeno una ventina di donne, sul palco, eppure nei camerini non si sentiva nemmeno una voce, né i suoni di una presenza.
- Dove sono, tutte quante?
- Se ne sono andate subito dopo aver suonato. So che te ne sei accorto, in qualche modo. Sono andate dove dovevano andare. Succede così, a quelli che restano sospesi tra gli strati della vita. Il vostro teatro le ha aiutate a trovare pace.
- Non credo di...
Lei sorrise e gli posò una mano sulla spalla.
- Vai a casa. Dormi. Sogna. Stai tranquillo. La prossima volta che ne vedrai uno, ci crederai.

- È stato molto bello, vero?- La voce del signor Bennett era insolitamente quieta. Una dolcezza strana sembrava aver avvolto ogni cosa attorno a lui. La macchina lo cullava, facendogli venire voglia di chiudere gli occhi, come fosse stato un bambino.
- Sì.
- Erano canzoni malinconiche. Chissà perché così tante ballate parlano di morte, perdita, abbandono.
- Forse perché una vita piena di queste cose fa paura. Ma se queste cose diventano una canzone, un po' di paura se ne va.
- Già. Forse.

A trovare il negozio di giocattoli ci mise molto meno di quanto aveva impiegato a raggiungere il Sunflower. Però anche il negozio aveva lo stesso aspetto poco attraente del teatro, a un primo colpo d'occhio. La vetrina era piccola, incastonata in una facciata vecchia e trasandata, con un'insegna quasi indecifrabile. L'interno, però, faceva perdonare tutto il resto. Lo spazio era piccolo e gremito di manufatti, ma c'erano così tante forme, colori, scintillii e piccole sorprese di ogni genere da riempire completamente la vista e far sembrare quel posto infinito.
Dietro il bancone, il sorriso di Angela.
- Che piacere vederti qui, Amir.
- Buongiorno, signorina Angela. Spero non le dispiaccia se mi sono fatto spiegare dal signor Bennett dove si trova il suo negozio.
- Nessun problema. Anche se questa premessa, insieme alla tua aria colpevole, mi fanno sospettare che tu non sia qui per acquisti o per compagnia.
Si allontanò qualche istante nel retrobottega e ricomparve con una brocca piena di un succo color arancio e dei bicchieri.
- Togliti il pensiero e dimmi da cosa sei turbato.
- Ha notato niente di strano ieri, durante lo spettacolo?
- Certo.
- Cosa?
- Sai quante cose che la gente comune cataloga abitualmente come “strane” ci sono, attorno a noi, ogni momento?
- Intendevo dire qualcosa...
- Di strano anche per me?
La donna si appoggiò al bancone, regalandogli una prospettiva ravvicinata del suo viso serio e pallido, quasi bello, con i capelli mossi color miele rossiccio.
- Il mondo è così ricolmo di cose invisibili che ovunque, con un po' di attenzione, potremmo trovarne traccia. E penso che ieri sera, durante lo spettacolo, alcune di queste cose invisibili fossero lì davanti ai nostri occhi.
- Lei ha visto le musiciste sul palco?
- Le ho viste.
- E prima, oppure dopo?
- No. Suppongo che le abbiano viste in pochi, prima e dopo.
- Avevano qualcosa di... Insomma, erano...
- Già.
- “Già” che cosa?
- Sei tu che hai lasciato in sospeso la frase. Come avresti voluto concluderla?
Sorrise in maniera malvagia e deliziosa allo stesso tempo, e Amir non riuscì ad essere arrabbiato con lei, nonostante l'esasperazione.
- Erano vive?- Riuscì a dire, sentendosi molto stupido per averlo anche solo pensato. Rimase con il fiato sospeso, in attesa della risata di Angela, di una sua eventuale parola di scherno...
- Immagino di no. Ma potrei anche sbagliarmi. Forse si trattava solo di musiciste molto silenziose e molto riservate.
- Perché non parla chiaramente?
- Perché sei tu a dover decidere se credi a certe cose oppure no.
Si sporse ancora di più sul bancone. I riccioli color miele scivolarono lungo le spalle scoperte. La casacca di seta blu che indossava assunse una piega tale da lasciargli intravedere il collo bianco e lungo, e un accenno dei seni. Angela sollevò una mano e gliela agitò davanti agli occhi, come per trarlo fuori dalla confusione in cui era finito.
- E se decidessi che erano solo musiciste riservate?
- Nessuna ombra verrebbe più a trovarti.
- Lei cosa ne sa, delle ombre e di queste certe cose?
- Se deciderai di crederci, magari in futuro ne riparleremo.
Amir sospese il vorticare dei pensieri e si concentrò sul luogo magico attorno a lui, sulla donna e i suoi occhi scuri, pieni di una consapevolezza che spaventava quasi.
- Joel ti ha offerto di continuare a lavorare per lui al Sunflower?- Gli chiese Angela, spezzando la tensione e versandogli da bere.
- Sì. È soddisfatto del mio lavoro.
- E tu?
- Anch'io lo sono. Mi è piaciuto svolgerlo. Mi piace il teatro. Ma non so per quanto tempo il signor Bennett sia intenzionato a tenermi tra i piedi in casa sua. Non si spiega mai, quando glielo chiedo.
- È segno che non sei così tanto di disturbo. Sai, mi ha raccontato di come vi siete conosciuti.
- E quindi?
- E quindi, Joel non parla mai dei suoi conoscenti. Al massimo ti dice che qualcuno è un suo vecchio amico. Se si è spinto fino a raccontarmi dello scorso dicembre, significa che devi averlo colpito. È contento che lavori per lui e si fida di te.
- Me lo auguro davvero.- Bevve un sorso e scostò bruscamente il bicchiere dalle labbra. - E questo cos'è?
- È tanto disgustoso?
- No. Solo che non riconosco il sapore.
- Non dovrebbe essere un problema, per te. Mi sembri il tipo che non si fa spaventare da ciò che non conosce.
Amir guardò il succo dal colore acceso, fece un sospiro e lo finì. In effetti era intenso e dolce, molto buono. Niente di cui essere spaventato.
- Ophelia Raymond mi ha detto che fuori dal teatro c'è una lanterna, e che è stata quella a richiamarla lì.
- Non credo. Non l'hai appesa tu.
- Però ne ho una simile. Era del signor Headley, l'ho ritrovata, e siccome il signor Bennett mi ha chiesto di custodirla con attenzione, in attesa di trovarle una sistemazione l'ho messa in camera.
Angela lo guardò con un certo stupore, prima di mettersi a ridere.
- Hai aperto lo sportellino, per caso?
- Mi si è aperto per sbaglio.
- Ora è tutto chiaro.
- Non per me!
- È quella lanterna ad aver attirato Ophelia e le sue donne. E non sarà la prima stranezza che dovrai affrontare, se continuerai a tenerla con te.
- Ma perché? Cosa significa?
- Decidi e saprai. Si torna sempre lì.
- Insomma... La scelta è tra una vita di lanterne e stranezze, e una vita tranquilla?
- E noiosa.
- Questo è un commento di parte!
- In effetti, sì.
Rise, poggiando il mento su una delle mani bianche, dalle unghie smaltate di blu. Sembrò molto più giovane dell'età che doveva avere, per un attimo. Di nuovo, Amir ebbe l'istinto di risentirsi con lei, ma qualcosa in quel modo di fare fece svanire ogni traccia di irritazione.
- Solo un'ultima cosa. Perché proprio io? Sarebbe stato lo stesso se quella lanterna l'avesse aperta chiunque altro?
- No. Ci sono persone che entrano in risonanza con i luoghi e le cose, te l'ho già detto. Così come ci sono persone con dei doni specifici. Joel l'ha avuta in casa per anni e non l'ha mai trovata. Tu, appena sei entrato, te la sei ritrovata tra le mani, e per sbaglio l'hai aperta.
- Da questo, cosa dovrei dedurre?
- Deduci quel che vuoi, a seconda della tua visione della vita e delle cose, mio caro amico. Oh, un cliente. Mi vedo costretta a concludere la nostra discussione. In attesa di riprenderla in futuro.
- Sembra certa di sapere già cosa deciderò.
- Niente affatto. Sto solo sperando per il meglio.
Mentre usciva dal negozio, sollevò la testa e solo allora se ne accorse. Accanto all'insegna illeggibile, una piccola lanterna dai vetri rossi e blu dondolava nella brezza.






***

Grazie a chi è qui. Un flashback sul passato del teatro e una love story improbabile in arrivo nel prossimo capitolo.

   
 
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