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Autore: Mellis_    30/12/2013    1 recensioni
"Quel bagno era diventato il suo migliore amico. E l’ago della bilancia si piegava sempre più al suo desiderio di apparire. Ma più che apparire, scompariva, lentamente."
Questo è il quaderno di Alisa Thomson, e le sue cicatrici non possono più essere curate.
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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IL QUADERNO DI ALISA THOMSON.

Il suo corpo era più freddo di ieri. Le mani più gelide, le gambe ancora più sottili.
E i capelli. I capelli sempre più lunghi, fino al fondoschiena. Neri, lucenti.
Forse era l’unica cosa che restava “viva” di lei. E il resto le marciva dentro, si sgretolava a poco a poco, perdeva quella sua luce.
Erano due anni che andava avanti così.
Erano due anni che si sforzava di reggersi in piedi, ma continuava a cadere. Spesso non aveva nemmeno la forza per rialzarsi, e così aspettava per terra, che qualcuno la riportasse in piedi.
Il problema è che nessuno si preoccupava davvero per lei. Nessuno le aveva ancora baciato le ferite dicendole “Andrà tutto bene”.  Così non le restava altro che aspettare, e nel frattempo il suo corpo diventava di ghiaccio. E tutti sappiamo che il ghiaccio, quando cade, si rompe in mille piccoli pezzi.
 
Quel bagno era diventato il suo migliore amico. E l’ago della bilancia si piegava sempre più al suo desiderio di apparire. Ma più che apparire, scompariva, lentamente. Non restavano altro che briciole della sua anima logorata, e un mucchio di sensazioni sparse in trentadue chili di carne, ossa e muscoli.
Ma trentadue chili non bastavano per mantenerla eretta. Oramai era sull’orlo di un bicchiere. O affogava nell’acqua, o cadeva giù. Non c’era una via d’uscita.
Aveva passato due anni della sua vita a cercarla, ma senza mai riuscire a trovarla veramente. Si era immersa in quella situazione da sola, fino al collo, e il costume iniziava a starle un po’ stretto; ma lei continuava a cucirlo per bene, a stringerlo con ago e cotone.
Voleva farla davvero finita.
Era decisa, ora più che mai.
Voleva volare via, come fanno gli uccelli. Ma lei non aveva le ali, gliele avevano tagliate, strappate via proprio due anni prima; quando nella sala operatoria due donne in camice bianco, con un’espressione triste sul volto le dissero con voce calma “E’ troppo tardi”.
Per la prima volta Alisa piangeva davvero. Per la prima volta pensò di aver perso l’unica ragione che le permetteva di volare ancora, e di scappare via ogni tanto.
“E’ troppo tardi per tuo padre”. Era lui le sue ali.
Era lui che le diceva di andare via e cercare un posto al sicuro, nascosto nelle viscere della Terra per poter sfuggire a quel mondo così masochista.
E ora non le restava più nulla. Né le ali, né quel posto segreto.
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Una piccola lacrima le scese pian piano sul viso. Percorse le guance spente e si spezzò sulle labbra opache.
Si mise a sedere sulla tavoletta del WC, con le gambe tremolanti. Una canottiera color panna e una mutandina ricamata era tutto ciò che copriva quel corpo così fragile.
La porta era chiusa a chiave. Le stanze vuote e silenziose. La casa cupa e fredda.
Il suo cuore consumato.
Così come il suo stomaco. Completamento usurato, da buttare via.
Inutilizzabile.
Schiacciato.
Povero.
Ristretto.
Chiuso.
Stanco.
Aveva una penna con sé. Nascosta nell’armadietto delle creme per il viso, in uno scatolino riposto dietro gli altri. La mamma non lo aveva mai notato, e così quella penna era ancora lì, con l’inchiostro quasi finito.
Sfogliò un quaderno pieno di disegni, e pensieri, e pagine macchiate di lettere, infinite parole.
Alcuni fogli erano ricoperti di schizzi di sangue. Come se fossero lì per testimoniare il dolore, e la sofferenza più totale di due anni passati a sperare, ma allo stesso tempo a distruggersi.
“Cara mamma.” E’ così che si inizia?.
Anzi no.
“Cara mamma, e nonna. Caro Dean. Cara Julia, Alexandra. Cari zio Pete e zia Amelia. Caro papà.
E’ così che forse doveva andare. E’ così che forse va la vita.
Vivi finché fa male. Me lo dicevi sempre tu, papà.
Ma quanto possono far male le giornate passate a piangere. Quanto possono far male i graffi, e i rifiuti, e i “ti odio”, e gli schiaffi, e i “non sei abbastanza”. Quanto dolore è in grado di sopportare il corpo umano? E il cuore? Lui non è abituato, o almeno il mio.
Il fatto è che comincia a bruciare davvero troppo. Non fa male, non poi così tanto. Ma brucia, all’interno.
Brucia tutto. Lo stomaco, il cuore, il fegato, gli occhi. Bruciano persino le lacrime. Sono come perle di fuoco che mi escono dagli occhi.
A voi hanno mai bruciato così tanto le lacrime? Forse sono pazza, ma è così.
Non sento dolore. Non l’ho mai sentito in realtà. Però mi brucia tutto.
Odio il fuoco. Forse è per questo che continuo a bruciare dentro.
Forse è per questo che il mio corpo è in fiamme, e nessuno è in grado di spegnerlo. Aspettavo che qualcuno prendesse un estintore e mi spegnesse. Ma non del tutto. Solo il fuoco nemico, quello che ti consuma.
Il fuoco che mi avvolge il cuore non è così tanto nemico. E’ un fuoco che si accende solo quando vedo lui.
Ma anche tu starai leggendo questa lettera ora, quindi ti do del “tu”.
Ti ricordi quando quella sera mi versasti il caffè caldo sul maglione nuovo, e cercasti di ripulire tutto? Te lo ricordi Dean?.
Eppure io quella sera fui più che contenta. Quella sera avrei voluto che me lo versassi altre mille e mille volte il caffè addosso; per poterti guardare ancora una volta negli occhi, e innamorarmi sempre, ogni secondo. Sei la mia foto preferita. Quella che guardo ogni sera prima di andare a dormire, e che ripongo sotto il cuscino per assicurarmi di dormire tranquilla.
Sei il sette e mezzo sul compito di matematica tanto difficile.
Sei la torta di compleanno venuta male ma dal sapore più buono che ci sia.
Non so che senso abbia questa lettera, magari già lo sai, magari te ne sei accorto o te lo hanno detto, però io ti amo. E quel maglione, sai non l’ho mai lavato. Ha ancora quella macchia di caffè, anche se un po’ sbiadita. Su quel maglione c’è il mio profumo, e la “tua” macchia. Ci siamo noi, impregnati nel tessuto.
E tu mamma. Quante volte mi hai proibito di uscire, e di andare a bere con gli amici.
L’unica cosa che bevevo quando ero in casa era il mio sangue. Lo vedevo colare dalle mie braccia come se fosse coca cola, o vino. Hanno lo stesso colore alla fine, ma sapori diversi.
Io odio il vino, ma la coca cola mi piace un sacco. Il sangue aveva un sapore misto tra i due.
Ma non piangere mamma. Asciugati le lacrime, in quel sangue ci sei anche tu. C’è il tuo DNA, c’è un ricordo di te mia cara mamma. E su queste pagine ci sono tante macchie di noi due insieme. Quando ti capiterà di pensare a me, e vorrai piangere, prendi queste pagine e guardale attentamente. Lì ci sono io, e ci sei tu. Insieme. Non siamo divise se ci pensi, siamo concentrate in quelle macchie rosse, sui fogli di un vecchio quaderno.
Julia e Alexandra. Come potrei dimenticarmi di voi.
C’eravate quando ho vomitato a scuola, quando Joona mi prendeva in giro, e quando ho preso un’insufficienza all’interrogazione di storia. C’eravate quando stavo crollando e pensavo di farla finita. Ma ora non ci siete. Non è colpa vostra, ma purtroppo non potete fare nulla. Volevo solo dirvi grazie, e lasciarvi il libro di Nicholas Sparks che mi avevate chiesto due mesi fa. E’ ancora sul terzo ripiano della libreria in cameretta. Potete prenderlo, e leggerlo quante volte vorrete. E’ vostro. E avrete un ricordo di me.
Zia Amelia e zio Pete, ho tutti i vostri regali chiusi nell’armadio. Non perché non mi piacessero, ma perché volevo conservarli bene.
Gli stivali del Natale di tre anni fa sono i miei preferiti. Li mettevo sempre sotto i vestitini, quando ancora non mi stavano larghi. Tutti mi dicevano che sembravo una principessa, così comprai una coroncina per metterla ogni volta su quei vestitini. E allora sì che mi sentivo una reale.
Nonna, tu non dimenticare la ricetta per i biscotti al cioccolato. Magari la vecchiaia ti farà scordare il procedimento, ma tu scrivilo su un foglio, così la mamma lo leggerà ad alta voce e tu li preparerai. Falli il ventotto di Luglio, il giorno del mio compleanno. Io sarò lì, ad annusare ancora il profumo di quei biscotti.
A te papà, voglio dire soltanto una cosa.
Sto per raggiungerti.”
 
Posò il quaderno con all’interno la penna che faceva da segnalibro.
Aprì la porta che era chiusa a chiave, e con un ultimo battito di ciglia assorbì il freddo di ogni singola mattonella del pavimento.
Ormai era game over.
 
 
SPAZIO DELL’AUTRICE:
Dopo quasi un anno di assenza, sono ritornata. Magari con una One-Shot un po’ troppo malinconica, ma son pur sempre ritornata. Il tema dell’anoressia, dell’autolesionismo, dei problemi sociali dei giovani, mi stanno molto a cuore.
Viviamo in una società in cui è difficile accettare sé stessi, e Alisa Thomson è uno dei tanti esempi.
Grazie per aver letto.
   
 
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