Il pronto soccorso dell’ospedale era
affollato. Infermieri e medici dai camici bianchi e rossi correvano cercando di
salvare la maggior parte dei pazienti arrivati con le ambulanze nei minuti
precedenti: un incidente stradale. Una autobus aveva sbandato finendo fuori dal
gardrail. Solo feriti, nessun morto. Nessuno di loro gli importava, solo lei.
Vittoria si fece spazio fra i medici, ne
superò qualcuno velocemente, ricevendo un gran numero di gomitate. Camminò
sicura verso il reparto di chirurgia generale anche se l’orario di visita era
finito da un pezzo. Imboccò il corridoio e proseguì. Vide un infermiera ma la
superò senza pensarci due volte. Non la notò nemmeno, nemmeno uno sguardo. Era
come invisibile ma fatta lo stesso di carne ed ossa, come tutti. Giunse di
fronte all’ascensore, aspettò che le porte automatiche si aprissero ed entrò.
Sesto piano. Vittoria in quel momento si sentiva la creatura più sola dell’universo non
per quello che affrontava ogni giorno ma per quello che l’aspettava.
Il corridoio di chirurgia era vuoto, le
stanze chiuse e nessun rumore. Si bloccò davanti alla camera 301, appoggiò la
mano sulla maniglia ed entrò nella stanza: piccola con le pareti colorate da uno
scialbo giallo canarino, il soffitto era scrostato. Un letto singolo occupava
la stanza, posta di fianco solo una sedia imbottita nera. Vittoria si avvicinò
al letto, il corpo addormentato di una giovane donna: bocca semi aperta, pugni
chiusi e ginocchia vicino al ventre. Il bip monotono delle macchine. Appoggiò
una mano sul cuscino bianco creando un dislivello alla testa della donna.
Cecilia si mosse, si girò verso la parte di Vittoria. Anche se aveva
ventiquattro anni abbondanti e una fluente chioma bionda in testa Cecilia ne
dimostravano molti di meno, piccola di statura e magra e con un cancro
aggressivo allo stomaco. I capelli biondi e annodati in verità erano solo una
parrucca. La sera prima aveva compiuto gli anni e la famiglia, pensando che
fosse il suo ultimo anno gli aveva organizzato una perfetta festa con tanto di
ghirlande e sorrisi finti da parte di tutti i parenti. Cecilia strizzò gli
occhi impastati per il sonno, gli sfregò con i pugni serrati e mise a fuoco
l’immagine di Vittoria. Non disse nulla ma il suo viso diventò improvvisamente
scuro e triste.
-Ciao Cecilia- disse passandogli una mano
tra i capelli biondi. La donna se la tolse e si allontanò dalla mano di
Vittoria che la ritirò.
-So perché sei qui, di nuovo- disse
arrabbiata.
-Lo so- affermò abbassando il viso. Si
vergognava del fatto di essere lì.
-Sto morendo allora-
-Si- Vittoria chiuse gli occhi, solo per
un secondo. I macchinari iniziarono ad emettere suoni sempre più veloci. Bip,
bip, bip… l’elettrocardiogramma iniziò ad appiattirsi fino ad arrivare ad una
linea retta senza cuspidi. Un bip prolungato invase la stanza. Medici ed
infermiera la riempirono, praticarono massaggi cardiaci e iniettarono
medicinali nelle flebo. Nulla. Quando aveva riaperto gli occhi Vittoria vide che
la donna era entrata in arresto, aveva le compulsioni e gli occhi si erano
capovolti all’indietro diventando vitrei.
Stava soffrendo. Vittoria non si mise a piangere o a imprecare per tutto il
dolore che provava nel guardarla soffrire. Si sentiva la persona più sola
dell’universo perché anche il dolore e la sua unica briciola di umanità
l’avevano abbandonata. Con lentezza sfiorò il manico, mise la mano intorno ed
afferrò saldamente la falce nera. Si fece spazio tra gli infermieri. Non
potevano sentirla e tanto meno vederla. Prese la basa delle testa, fece passare
la lama sotto al collo. Un solo colpo secco e preciso. –Mi dispiace così tanto.
Cecilia morì, l’anima spirò e la sua danza di compulsioni finì. Ora la
vedeva davanti a se inerme, come tutto quello fosse solo un incubo da cui
volersi risvegliare. L’anima della donna, evanescente con le sue stesse
sembianza di quando era in vita, la fissò. Vittoria non disse nulla.
-Perché? – le domandò rivolgendo uno sguardo al suo corpo morto – Perché
sono morta? Perché io? Ci sono così tante persone messe peggio di me… perché
io?
Vittoria ripose la falce. –Non sono io che decido chi o perché qualcuno
deve morire. Mi dispiace.
L’anima si fece irrequieta. –Mi dispiace, è il massimo che mi puoi dare
come risposta!?
Vittoria abbassò lo sguardo. –Perché non ci sono risposte alla morte.
Accettalo. Hai due opzioni: la prima trapassare ed accettare la propria
predestinazione. La seconda non prendere nessuna decisione. A te la scelta.
L’anima fissò gli occhi scuri di Vittoria. –A cosa sono predestinata?
Vittoria strinse i pugni. Non aveva riposta alla sua domanda come a
nessuna, infondo.
-Non lo posso sapere fino a quando non ti trapasso. Dall’altra parte
deciderai tu stesso che cammino intraprendere. Luce o buio?
-Come faccio a saperlo cosa voglio veramente?
-In questo né io né i miei fratelli ti possono aiutare. La scelta è solo
dell’anima, non del suo conduttore.
-Cosa sei veramente?
Vittoria la guardò con tristezza. –Sono un mietitore. E puoi immaginare
quale sia il mio ruolo in tutto questo.
Cecilia sussurrò un mi dispiace, si avvicinò a Vittoria e gli afferrò una
mano.
-Trapassami.
Il corpo di Vittoria iniziò a decomporsi fino a
diventare solo un ombra nera amorfa. Passò attraverso il corpo dell’anima.
Rivide la vita di Cecilia: sofferenza che aveva causato e che gli avevano
restituito. Vittoria sapeva solo che era destinata ad una vita felice, non alla
perdizione eterna, il tormento. E l’aveva scelto, accettato come se fosse la
scelta più semplice. Il suo corpo si ricompose. Sparì dalla stanza, nell’aria
echeggiò il nitrito di un cavallo.