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Autore: R e d_V a m p i r e     31/12/2013    1 recensioni
[Spamano - Attuale (?)]
Eppure in quella camera padronale, in ombra per via delle pesanti tende che ricoprono gli ampi finestroni e permettono unicamente a tenui fasci di luce impolverati che trovano spiragli fra questi di riversarsi in pozze più chiare sul pavimento scuro, non c'è il cattivo odore che aveva temuto di trovarvi una volta messo piede lì dentro.
Non c'è il nauseante puzzo di morte che si aspettava, ma la calda se pur sottile fragranza della terra buona battuta dal sole cocente. La stessa che sentiva sempre, da bambino, quando entrava lì dentro. Ma anche se adesso, respirando piano, non ne avverte che quello che è solo un ricordo della sua infanzia, è quasi sollevato di poter risentire quel profumo nostalgico dopo tanto tempo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autore: R e d_ V a m p i r e
Titolo: Dove si trova il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore
Personaggi: Lovino Vargas/Italia del Sud, Antonio Fernandez Carriedo/Spagna
Generi: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale
Avvertimenti: What if...?, Shonen- ai
Rating: Verde
Credits: Titolo preso in prestito da ''Harry Potter e i doni della morte'' di Joanne Kathleen Rowling e prima ancora dal Vangelo di Matteo 6,19-23. I personaggi e bla bla bla non mi appartengono, ma sono di Hidekaz Himaruya-san e io non ci guadagno niente con questa cosetta qui.
Note: Il titolo è stato scelto completamente a caso, non badateci troppo perchè non sono affatto brava a tirarne fuori di decenti. Il tutto è ambietato nei giorni nostri, come si può notare dal discorso fra Romano e Antonio e dalle descrizioni, prendendo spunto dalla crisi (che la infilano sempre ovunque, perchè non anche in una fanfiction, dico io. Almeno è buona a qualcosa - ecco); io c'ho provato, non credo di esserci riuscita perfettamente, ma vabbè. Non sto a spiegare la citazione di Romano per quanto riguarda Antonietta (Maria Antonietta), mentre i tre attentati di cui parla a Ivan riprendono quelli che ci sono stati negli ultimi giorni a Volgograd. Le frasi in spagnolo sono made in google translate, quindi non ci faccio troppo affidamento. E niente. E' più che altro un esperimento e un regalo che mi sono voluta fare per l'ultimo dell'anno. E che faccio anche a voi. Spamano l'ultimo dell'anno, Spamano tutto l'anno (?) <3.






Dove si trova il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore






L'aria che si respira nella stanza di un malato è strana.
C'è quell'angoscia che ti serra il petto in una morsa feroce, quasi impedendoti di respirare. Poi c'è la tristezza, che pungola in maniera fastidiosa e illucidisce gli occhi, facendo raccogliere le lacrime ai lati di questi senza che vengano però versate. C'è anche la rabbia, la rabbia che ribolle dentro e viene trattenuta dai lacci dell'impotenza, in grado di tagliare la carne e irrigidire i muscoli, ben più dolorosi ed insopportabili di ferite fisiche. E poi c'è la puzza che ristagna nell'aria, per quanto si ci affaccendi a farla cambiare, e ti rivolta lo stomaco come un calzino costringendoti a combattere contro le ondate di nausea.
Ma non c'è solo questo.
C'è un sentore più lieve, qualcosa di indefinito e impalpabile che non riesci a cogliere appieno, sfuggente com'è: la speranza. La speranza si infratta in ogni angolino, si nasconde nella piega di ogni cuscino e fra le lenzuola. Tu non riesci a vederla, ma c'è. E questa ti permette di rimanere nella stanza e al contempo ti invoglia a fuggirne il più presto possibile. Può essere così crudele, menzognerà com'è, la speranza.
Eppure in quella camera padronale, in ombra per via delle pesanti tende che ricoprono gli ampi finestroni e permettono unicamente a tenui fasci di luce impolverati che trovano spiragli fra questi di riversarsi in pozze più chiare sul pavimento scuro, non c'è il cattivo odore che aveva temuto di trovarvi una volta messo piede lì dentro.
Non c'è il nauseante puzzo di morte che si aspettava, ma la calda se pur sottile fragranza della terra buona battuta dal sole cocente. La stessa che sentiva sempre, da bambino, quando entrava lì dentro. Ma anche se adesso, respirando piano, non ne avverte che quello che è solo un ricordo della sua infanzia, è quasi sollevato di poter risentire quel profumo nostalgico dopo tanto tempo.
L'ha così tante volte ricercato, dopo essere andato via. Ma per quanto calde, le estati della sua Sicilia non sono mai riuscite a donare alla propria terra quella stessa fragranza che ha sopperito al profumo di una madre mai avuta, nei suoi ricordi.
E' un colpo di tosse a riscuoterlo dai suoi pensieri, costringendolo a strizzare gli occhi per poter vedere in quell'infida penombra. Anche se non ci riesce perfettamente, ricorda bene quella camera. E la sente così tristemente vuota, quando un tempo era invece così ricca di tutto. Sono rimasti pochi spartani mobili ad arredarla, quelli che il padrone di casa è riuscito a salvare come non è stato in grado di fare con il resto della sua dimora.
L'immenso armadio di noce pregiata, scurissimo e solcato da venature più chiare, in cui da bambino amava nascondersi per poi frugare fra gli eleganti vestiti che sembravano quasi nascosti lì dentro, come parte di un segreto, chiedendo poi ad alta voce perchè non venissero indossati al posto di quegli abiti da contadinotto che prendevano solo un'anta del vecchio mobile. Spesso in risposta otteneva solo una risata e poi che venisse tirato fuori da quelle mani brune e grandi, sempre calde e profumate di terra e sole. «Quel che importa veramente eso es lo que hay en ti. E' ciò che sta dentro, mi pequeño» a quel tempo non capiva cosa volessero dire quelle parole e si limitava a scalciare per farsi lasciare e strillare insulti, ricevendo in cambio solo altre risate e una carezza a scompigliare i capelli ramati.
Se volge di poco lo sguardo verso destra può scorgere il baluginare del proprio riflesso; ma è distorto, rimanda solo un'ombra scura che non può davvero credere appartenga a sè. Avvicinandosi noterebbe come il vetro sia impolverato, infranto in una rete di piccole crepe macchiate di chiazze scure. Probabilmente è solo un miracolo che lo tiene ancora insieme ed impedisce alla superficie di crollare in mille pezzi, abbandonando la cornice di puro argento annerito dal tempo e dall'incuria in cui è ancora incastonata.
Ma non sono l'armadio, lo specchio o lo scrittoio di chissà quale epoca - proprio non ricorda - ad attirare la sua attenzione. Questa è tutta per ciò che sta al centro della stanza, e che viene baciato da qualche tenue fascio di luce. Quel tanto che gli basta per accorgersi del rosso cupo, delle frangette dorate rovinate, di quelle pesanti tende che si aprono come su di un palcoscenico, mostrando invece gli intarsi nel legno del letto a baldacchino. E gli occhi si arrampicano lungo le coperte fin troppo candide, tanto da ferire lo sguardo anche nel buio, sentendo l'ansia montare e il cuore battere più forte, al punto da credere di avercelo in gola, per ogni centimetro guadagnato.
E' tentato ad indietreggiare ed indietreggia, in virtù di una codardia che l'ha sempre contraddistinto, accucciandosi alla porta da cui è entrato e stringendo forte il pomello su cui ancora posa una mano, come a voler assicurarsi una via di fuga. Quasi temesse che abbandonandolo e addentrandosi lì dentro, questa si richiudesse alle sue spalle per non aprirsi più e quella stanza finisse per fagocitarlo e non lasciarlo più andare.
«...non pensavo saresti venuto.»
E' una semplice considerazione, esalata da una voce greve ma sempre la stessa, anche se fiaccata dalla malattia. Capace però di fare male al pari di una coltellata in pieno petto e privarlo del respiro, malgrado la tosse che senta ancora rimbombare nel silenzio non sia la propria, ma quella dell'altro.
«Non sono venuto per te, bastardo»
Fa strano, deve ammetterlo, chiamarlo così dopo tanto tempo. Magari non è poi una gran novità, perchè ha questa tendenza ad usare ugual premura con tutti. Ma non ha mai usato quel particolare tono di voce, nell'appellare allo stesso modo il crucco mangia-patate, ad esempio.
Questo il malato deve saperlo, perchè un sorriso compare nell'ombra, si affaccia timidamente dalle labbra che sembrano non piegarsi a tale uso da tanto ed aver quasi dimenticato come si faccia. E se solo l'altra Nazione potesse vederlo, è quasi certo che scapperebbe davvero senza voltarsi più indietro.
«No, ovviamente. Perdóname, sono muy grosero. Ma ho qualche - cough, piccolo problema logistico. Non ti dispiacerà se non mi alzo per salutarti come si deve.»
Sembra quasi una domanda, anche se non viene pronunciata con quell'intenzione. C'è quasi la reminiscenza della stessa scanzonatura con il quale gli si approcciava un tempo, ma è troppo fragile e ostentata per poter essere vera. E poi c'è la cortesia, che non sembra abbandonare l'iberico nemmeno quando è costretto a letto in quel modo tanto meschino.
L'italiano stringe forte la mano che non artiglia la maniglia della porta, volta il viso ed emette uno sbuffo stizzito. In realtà cerca solo di nascondere l'indecisione che lo morde e gli impedisce di muoversi; non avanzare, non tornare indietro. Incapace come sempre di prendere una vera e propria posizione.
«Stai zitto, deficente. Sprechi solo fiato.»
Il sorriso nell'ombra tremola un po', fino a sparire del tutto sostituito da un sospiro sofferto, che aleggia nell'aria. Sembra quasi accarezzarlo, raggiungerlo e sussurrargli di rassegnazione e disperazione. L'italiano è quasi del tutto certo che l'aria satura di quella stanza lo stia facendo completamente uscire di senno.
«Roma... Romano ven aquì» lo chiama, ed è un battito saltato il suo cuore. Ancora un colpo di tosse, e finalmente può scorgere quegli occhi così verdi fissarlo con vero dolore «Por favor»
Suona tanto come una preghiera, più che una richiesta. Italia del Sud non ci riflette, non ci pensa proprio mentre la sua mano abbandona l'ultima ancora, immergendosi nella stessa oscurità che ammanta l'altro. Rabbrividisce quasi, sfiorando con la punta delle dita le coperte, intravedendo il profilo del corpo magro da esse celate; anche se non dovrebbero, rimangono un piacevole contrasto con quella pelle più scura, di sangue non proprio puro. Del sangue di un figlio bastardo della propria terra, a cui ha dato tutto e da cui poi è stato prosciugato.
Il viso che ha davanti ha ancora la bellezza di un tempo, se pur sofferta. C'è ancora, nei lineamenti scavati, nei segni scuri che ombreggiano gli occhi. Nel pallore che rende innaturalmente più chiaro, quell'incarnato che dovrebbe essere invece cotto dal sole.
E sono proprio gli occhi a catturare l'attenzione dell'italiano, occhi verdi che ardono e non sa se è follia o dolore o speranza, ciò che li anima. Forse tutte e tre le cose.
Quello sguardo capace di catturarlo ed annientarlo come nessuna guerra è stata in grado di fare. E che lo incatena a lui ancora una volta, anche quando pensava di essere ormai libero da tempo.
«Sono felice che tu sia qui»
«Sei ridotto malissimo, bastardo»
Questa è una sua propria considerazione, volta a distogliere l'attenzione dall'altro da una questione ben più spinosa che non sia la propria salute. L'iberico fa spallucce, accenna un altro sorriso e poi allunga a fatica una mano oltre il bordo delle coperte, con il palmo rivolto verso l'alto.
Romano rimane a fissarla per lunghi istanti prima di deciderci ad appoggiarci sopra la propria, avvertendone un calore quasi bruciante al contatto delle pelli. Sentendosi ardere, dove quelle lunghe dita da musicista lo sfiorano. Quasi tentato di ritirarla bruscamente per far cessare di tremare il suo corpo. O forse solo il suo cuore.
«Neanche tu sei messo troppo bene, mi pequeño» fa notare semplicemente lui, con un candore ed una serietà che oggi come ieri sono in grado di spiazzarlo.
Lo stupore viene cacciato presto, sostituito dall'irritazione ed un altro sbuffo; come se non si fosse visto allo specchio, lui. Come se non notasse quanto è dimagrito, malgrado si sforzi di mantenere un'apparenza curata, con i capelli ramati in ordine e il ricciolo svettante al lato del capo, senza mai un filo di barba e di nuovo nella sua divisa militare, usata fin'ora solo nelle parate e nelle grandi occasioni. Non pensava sarebbe mai dovuto tornare a indossarla, questa volta per combattere una guerra interna. Una guerra ancora agli inizi, combattuta per strada dal popolo contro il popolo. Spera che non debbano mai arrivare a vederla nascere davvero.
«Chi è messo bene, in questo fottuto periodo? Forse solo quel bastardo magia-patate di Ludwing. E quello scemo di mio fratello gli va ancora dietro... proprio un bel momento, doveva scegliere quel crucco di merda per ''aiutarlo a camminare sulle sue gambe''. Parla tanto di rigore e tolleranza, lui...» sputa fuori, proprio non riesce a trattenerle le parole amare nel ripensare a Germania e quello che sta facendo a Veneziano. E tutti loro. Ma onestamente a lui non frega niente, il problema è il suo sciocco fratellino; non sa come ne uscirà dalla crisi con quella testa di cazzo bionda tutta birra e wurstel.
«...di certo non quel pervertito di Francis. Dovresti vederlo, quante arie si dà. Come se avesse la soluzione in tasca, lui. Gli finirà come ad Antonietta, te lo dico io» nel parlare finisce per sedersi sul materasso, al fianco del malato che si limita ad ascoltare il suo sfogo, stringendogli la mano. «Persino Ivan! Cazzo... l'hai sentito, no? Neanche l'essere il diavolo in persona lo salva dal venire preso di mira... tre attentati in così pochi giorni... forse ha smesso di fare paura come un tempo. Non ci giurerei, è ancora fottutamente inquietante...»
«I tempi cambiano, Romano» mormora dolcemente il ragazzo seduto contro i cuscini, sfiorandogli il dorso della mano con un pollice. Un sopracciglio rossastro freme, ed una smorfia si disegna amara sulle labbra dell'altro.
«I tempi sono sempre gli stessi, si limitano a cambiare e ritornare ciclicamente. Non è niente che non abbiamo già visto. Per questo mi fa incazzare tanto il fatto che torniamo a caderci.»
Di nuovo un sorriso si apre sulle labbra smunte dell'altro, facendo reagire il Sud Italia con uno scatto nervoso di capo e spalle.
«Che hai da ridere, bastardo?»
Spagna scuote appena il capo, i riccioli neri che gli incorniciano il bel viso lo mettono in ombra per un istante, ricadendogli più lunghi e disordinati sulle spalle. Questo lo fa sembrare ancor più dolorosamente bello, e costringe l'italiano a distogliere lo sguardo.
«Sei cresciuto, mia piccola Italia... forse l'Indipendenza ti ha fatto bene, alla fine.»
Quello è un tasto dolente. Anche Antonio può leggerlo negli occhi nocciola, screziati di verde, della Nazione più giovane. E' una ferita aperta per entrambi. Nel silenzio rotto solo dai loro respiri - quello affrettato dell'italiano e quello profondo e affaticato dell'iberico - possono entrambi risentire gli echi del passato. Il suono di una porta chiusa, che non riesce a coprire il «Me ne vado». La disperazione davanti ad Austria, nel rivendicare testardamente il possesso su un territorio non più proprio.
Il primo a muoversi è proprio Romano. Allunga la mano libera con incertezza, esitando nel posarla su una guancia magra dell'altro. Quasi temendo un contatto così diretto, o ritrovarsi di nuovo incatenato a quegli occhi.
«Non ha fatto bene a te, España»
La Nazione più grande sorride ancora, piegando il capo ed appoggiando la propria mano su quella dell'italiano per premersela contro e impedirgli di sfuggire. Sembra quasi riprendere colore, solo grazie a quel gesto.
«Si accetta sempre la sofferenza per il bene di chi si ama, mi niño»
E Romano Vargas vorrebbe solo piangere, adesso. Piangere e rifilare una testata allo stomaco di quel grandissimo idiota che continua a sorridere, ma si trattiene solo perchè non è più un bambino e perchè significherebbe aggravare ancor di più le condizioni di salute dell'altro.
E allora si limita a sollevare le coperte e lasciarsi scivolare lì sotto, al fianco dell'iberico sorpreso, accucciandosi contro di lui e nascondendo il viso contro il suo petto, ostinatamente, come faceva da bambino.
«Romano...»
«Sta zitto, i-idiota»
Ci vuole qualche istante per assicurarsi che quello non sia un sogno e riprendersi dallo stupore, ma poi le braccia di Spagna lo avvolgono, lo tengono strette e lo cullano.
Risente ancora il profumo della terra baciata dal sole, dei campi di pomodoro in estate, il suono della musica allegra a riempire le sere troppo calde e troppo lunghe. E sente di poter riposare, di avere una preoccupazione in meno. Di essere nel posto giusto.
Spagna sorride contro il suo capo, preme le labbra screpolate contro i suoi capelli morbidi, attento a non toccare quel ricciolo dispettoso, quasi cede ad un sonno che dopo lungo tempo sa potrà essere ristoratore.
«Te quiero, Romano»
«Sono a casa, Antonio»
   
 
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