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Autore: cranium    01/01/2014    2 recensioni
Il sessantotto, nella mia testa, rimane il ricordo grumoso, di sangue e saliva, di una Milano, che stava per cedere sotto il peso opprimente di quegli anni cupi.
Soffriva la mia città, il grigiore della nebbia soffocante ci impediva la fuga, e che potevamo fare se non restare a combattere?
Se mi chiedessero cosa la ragione e il tempo -grande nemica la memoria-, hanno salvato di quel periodo direi tutto: negli occhi tengo ancora i capelli lunghi e folti dei miei compagni, nelle narici l’odore dei cassonetti in fiamme, nelle orecchie il suono dei passi, delle grida nei cortei, e sulle labbra il sapore dei baci rubati nelle aule della Cattolica occupata.
Il problema è sempre stata la lotta: di partito, ideologia, contro i padri, contro il mondo, contro tutti. Ce l’avevamo nel sangue, scorreva insieme all’ossigeno e alla bile del fegato, tanto che ci siamo spaccati tutte le ossa contro i manganelli della polizia, vero Yahiko?
Ma in fondo, noi, che cazzo ne sapevamo del Vietnam e dei Vietcong?

Storia partecipante al "Crack Pairing" contest sul forum di Efp da stella98f, con la coppia KonanxYahiko, ambientata nel '68 italiano.
Peace, Love and Ame Orphans Team!
Genere: Angst, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Konan, Nagato Uzumaki, Yahiko
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Angolino autrice: salve stelline del cielo! Un augurio di buon anno a tutti voi, che avete avuto il coraggio di aprire questa cosa e un sacco di dolci a chi  arriverà fino all'ultimo, magari lasciando un segno del suo passaggio. L'ambientazione è storica e la storia si delinea intorno ai tre orfani della pioggia, che si trovano ad affrontare il '68 in Italia da universitari. La trama tratta anche di tematiche politiche (ho tentato di rimanere sul leggero naturalmente) e degli ideali di dei ragazzi, che scivolano in una Milano nebbiosa e piovosa, con i loro problemi e i loro amori. Questa One shot partecipa al contest "Crak pairing" di stella98f sul forum di Efp, con la coppia KonanxYahiko, e visto che sono romantica come uno scolapasta e che non si chiedeva espressamente una storia fluff o dolce, ho puntato su qualcosa di Angst e vagamente Drammatico. I'm in love with them! Yeah! Comunque a parte gli sproloqui, mi sono "divertita" a scriverla, perché sono troppo bellini loro! Cioè sarebbero il triangolo perfetto! Ma io ho scritto una KonanxYahiko, e mi sono accorta di aver inserito alla fine un briciolo, briciolino di KonanxNagato, e sarebbe stata cosa buona e giusta mettere un po' di slashhhh tra i due rossi, ma per dovere di trama ho evitato e inserito Sasori/Deidara per la mia felicità *-*! Niente da aggiungere sulla storia se non: leggete e fatemi sapere:) 

Il titolo è preso da "Cade la pioggia" dei Negramaro e Jovanotti, le altre citazioni prese dalle canzoni sono tutte segnalate. I personaggi non appartengono a me, ma a quel genio di Kishimoto.

Se volete chiacchierare, mandarmi messaggi minatori, dirmi che mi odiate, mi volete bene, eccetera, questo è il mio profilo Facebook

Peace, Love and Ame Orphans Team!

QUESTA PACE È SOLO ACQUA SPORCA E 

BRACE.

Il sessantotto, nella mia testa, rimane il ricordo grumoso, di sangue e saliva, di una Milano, che stava per cedere sotto il peso opprimente di quegli anni cupi.

Soffriva la mia città, il grigiore della nebbia soffocante ci impediva la fuga, e che potevamo fare se non restare a combattere?

Se mi chiedessero cosa la ragione e il tempo -grande nemica la memoria-, hanno salvato di quel periodo direi tutto: negli occhi tengo ancora i capelli lunghi e folti dei miei compagni, nelle narici l’odore dei cassonetti in fiamme, nelle orecchie il suono dei passi, delle grida nei cortei, e sulle labbra il sapore dei baci rubati nelle aule della Cattolica occupata.

Il problema è sempre stata la lotta: di partito, ideologia, contro i padri, contro il mondo, contro tutti. Ce l’avevamo nel sangue, scorreva insieme all’ossigeno e alla bile del fegato, tanto che ci siamo spaccati tutte le ossa contro i manganelli della polizia, vero Yahiko?

Ma in fondo, noi, che cazzo ne sapevamo del Vietnam e dei Vietcong?

 

* *

 

La prima volta che sentii parlare di comunismo, fu da mio padre.

La sua mano grossa e sporca, accarezzava la mia testa, distratta, incurante dei capelli, che si scompigliavano.

Il piccolo schermo della nostra televisione in bianco e nero passava qualche comizio di sinistra, i giornalisti commentavano irrequieti, qualcosa di strano aleggiava nell’aria, tra quelle persone strette in un abbraccio scuro intorno al palco, da dove il politico urlava ed esaltava la folla.

Mio padre indicò il telegiornale, annuì con il suo cipiglio severo, le sopraciglia folte, scurissime, si inarcarono quasi di scatto.

– Konan – borbottò, appoggiando il bicchiere vuoto al tavolo ancora apparecchiato – a quelle persone bisogna stare attenti! Che si mangiano i bambini, neh!

Ma io non lo ascoltavo già più, presa da tutte quelle parole, che non avevo neppure idea di come si scrivessero. “Rivoluzione” sentivo “uguaglianza, classe operaia, padroni” mi sembravano parole da non ripetere neppure per scherzo.

Non avrei mai pensato, che neppure dieci anni dopo, mi sarei trovata nella stessa piazza stracolma, stretta da un’ideologia da molti disprezzata e da una bandana al collo.

Al momento capivo solo che rosso era sbagliato, totalmente sbagliato, il giorno successivo, però, conobbi Yahiko, poco dopo anche Nagato Uzumaki, e da allora quel colore ha iniziato inesorabilmente a far parte della mia vita.

Il primo mi travolse una mattina, mentre, ferma sul pianerottolo, aspettavo mia madre per le commissioni. Correva come un indemoniato, giù per le scale del condominio, con una grossa fetta di pane e marmellata.

– Te ne faccio assaggiare un morso, se non lo dici a nessuno. – mi sorrise, bellissimo nei suoi capelli rossi e con il nasino all’insù..

Quando scese una signora ancora giovane, dalla stessa zazzera sbarazzina, negai con tutte le mie forze di aver visto suo figlio, anche se gli angoli della bocca, sporchi di confettura, dicevano tutto il contrario.

Nagato lo trovammo rannicchiato dietro un cespuglio del cortiletto recintato, una sera prima di cena, durante la nostra caccia alle lucertole giornaliera, la fronte coperta dalla lunga frangia ramata, gli occhi pieni di lacrime ed un grande bisogno di amici.

Da quel giorno fummo inseparabili come pappagallini colorati, appollaiati allo stesso terribile filo della sorte.

Abitavamo in un grande casermone in periferia, in piccoli appartamenti separati da tante rampe di scale; non eravamo ricchi, le nostre erano famiglie operaie, figlie di valori pesanti, che non ci sentivamo di condividere, come neppure il futuro in cui ci avevano confinato.

Eravamo solo un gruppo di sbandati, noi, con mille idee in testa, ma ne avessimo mai avuta una buona.

Mangiavamo Milano a pedalate, dalle nostre case fino alla Cattolica, dall’Università fino al bar “Ame”, dove lavoravamo per mantenerci gli studi.

Sempre e solo noi tre, i lati imperfetti di un triangolo isoscele: io e Yahiko alla base, a sostenere il tutto e Nagato sopra di noi, ad un’identica distanza, perché il bene che gli volevamo era il medesimo, come lui ci amava entrambi allo stesso e malato modo.

Inforcavamo le bici e ce ne andavamo, ci aspettava il mondo fuori da quei condomini grigi di cemento, la vita, l’indipendenza di quel Caffè, la speranza riposta in quel corso di laurea in Scienze Politiche.

– Konan – mi dicevano – con quel fiore in testa sembri una brava ragazzina borghese!  – e ridevano mentre asciugavano i bicchieri dietro il bancone.

Allora io lasciavo che i loro occhi vagassero sulle mie gambe lisce, bianche come il latte, coperte solo da una minigonna di jeans nuova di negozio, mentre andavo a servire i clienti.

Non mi vergognavo affatto quando Nagato abbassava gli occhi grigi, cercando di pensare a qualcos’altro, neppure quando Yahiko si sporgeva per lasciarmi un occhiolino complice.

Quelle furono le diecimila lire meglio spese della mia vita.

Scoprimmo presto, però, che la nostra piccola fiammella di gioia, sarebbe stata spenta dalla pioggia di un novembre troppo nuvoloso.

 

* *

Il bar “Ame” era un piccolo buco, incastrato all’incrocio tra sue vie trafficate, dalle pareti tinte di un blu acceso, con tavolinetti bassi all’orientale e dai dipinti di ispirazione giapponese.

Il proprietario, un uomo di mezza età chiamato Jiraya, era una brava persona, che ci aveva preso a lavorare con sé da tre anni.

Nel tempo libero scriveva porcate e qualche editore gliele aveva pure pubblicate, ma non avevano fatto molto successo, eppure teneva tutti i suoi harmony in bella vista sul bancone, e credeva che la sua saggezza popolare potesse essere spacciata per filosofia scolastica.

Un giorno, dal nulla, si sedette sul bancone, accarezzando i lunghi capelli bianchissimi con le dita, ci chiamò tutti intorno, e iniziò a sventolare il giornale fresco di stampa, che teneva sotto il braccio. Ci guardava come si guarda il cavallo zoppo, che il padrone manda al macello, un misto di pena e rabbia, con due occhi quasi in fiamme.

– ‘Sti figli di buona donna! Lo sapete che hanno fatto?

Nagato sospirò, credendo ci avesse beccato a lasciare il locale incustodito per la nostra pausa sigaretta, ma poi tornò serio per comprendere perché Jiraya fosse così preoccupato.

– Vogliono aumentare le tasse per voi studenti universitari! Raddoppiare! Raddoppiare! Si raddoppiassero un po’ i calci da prendere nel c… – si fermò prima di terminare la frase, notando le occhiate dei clienti infastiditi dal suo tono e dalle sue parole.

Noi lo sapevamo benissimo, erano giorni che parlavamo solo del modo in cui chiedere al capo un aumento per continuare gli studi, perché in quel modo non saremo riusciti a pagarci i libri di testo ed aiutare le nostre famiglie.

Di spese futili da tagliare non ne avevamo, tranne il fumo, ma per quello ci sarebbe voluto troppo tempo e troppa voglia di farlo, che sicuramente non avremo trovato. Se ci fossimo proposti di lavorare qualche ora in più, non avremmo avuto modo di studiare a sufficienza per avere buoni risultati agli esami. E questi problemi si accumulavano su una pila, già consistente.

– Io posso provare ad aiutarvi ragazzi, tanto gli affari vanno bene, ma di certo così non si risolve la situazione – disse e a queste parole le nostre orecchie si fecero più attente – migliaia di altri giovani avranno lo stesso problema, non tutti saranno così fortunati da riuscire a continuare gli studi in questo modo. A cosa servono secondo voi tutte queste tasse? A governare un popolo di capre, perché è più facile, ma non bisogna permetterglielo. Siamo formiche rispetto a loro, la nostra parola non vale nulla se paragonata alla loro, noi, però, siamo milioni, loro pochissimi.

Yahiko pendeva dalle sue labbra, gli occhi sbarrati e una mano sul petto, come a impedire al cuore di uscire dalla gabbia toracica, sotto il golfo scuro e infeltrito.

Potevo sentirne i battiti persino sotto la mia camicia, si fondevano con i miei, si rincorrevano con quelli di Nagato, che mi era accanto.

– Cambierò lo stato delle cose, cambierò lo Stato. – ci disse, mentre Jiraya gli scompigliava i capelli complimentandosi per la sua audacia, ed io e l’Uzumaki annuimmo meccanicamente, di fronte a quello che sarebbe diventato il nostro comune fine.

 

“And when your fears subside and shadows still remain, oh yeah. 
I know that you can love me when there's no one left to blame,
 
So never mind the darkness we still can find a way
 
'Cause nothin' lasts forever even cold November rain.”

November Rain, Guns’n’Roses

 

La sera del 16 novembre, ci chiudemmo nella cantina fumosa di nostro amico Itachi Uchica, dove abitava da quando lo avevano buttato fuori di casa, sdraiati su vecchi divani polverosi, con le molle rotte, che ci bucavano la schiena.

Suo padre era un poliziotto e non aveva apprezzato molto quando il figlio aveva lasciato l’accademia, per fare l’hippie e mantenersi vendendo maglie fatte con il Tie & Dye, psichedeliche come i sogni chimici impachettati e nascosti dentro le T-shirt piegate.

I giovani come lui si incontrano poche volte nel corso di un secolo, era uno di quelli che la vita a ventitre anni se la sono già vista scorrere tutta come un film e possono trascinarsi avanti a avanti, avendo già visto tutto, già conosciuto tutto.

Eppure sotto le piccole rughe, che già gli segnavano il volto, c’era sempre un qualcosa di straordinario da afferrare, come il lieve sorriso malinconico in cui si apriva quando parlava del fratello minore.

Apriva il portafoglio e mostrava una foto, lasciata a spiegazzare tra le lire.

– L’ho lasciato da solo. Mi odia, ma è giusto così. – e riprendeva a parlare d’altro.

Passò una sigaretta a Yahiko, che aspirò e mi soffiò il fumo tra i capelli, sulla rosa rossa stropicciata. Straiati su un sofà verde e lercio, probabilmente comprato a poco da un rigattiere, ci abbracciavamo stretti, per confortarci dal freddo, che stava mangiando tutti lì dentro, riscaldati solo dal fumo e da plaid tarmati.

Ascoltai il battito del suo petto, appoggiandovi l’orecchio, accelerare sempre di più, mentre anche il mio seguiva lo stesso ritmo, come sempre in sua presenza.

Che lo amassi non era una novità, che lui ricambiasse era la mia gioia.

– Dobbiamo fare la rivoluzione! Farli saltare tutti in aria! KABOOM! –  Deidara, un biondino un po’ matto, saltò sul tavolinetto basso al centro della stanza e gridò, agitando le braccia come per spiccare il volo, di fronte ai poster di Hendrix.

Gonfiò le guance, rosse come pomodori maturi, spostando un ciuffo di capelli con uno soffio. Sembrava stesse per implodere su se stesso, ma il suo ragazzo, un certo Sasori, che si era unito a noi da poco, lo tirò giù dal suo palcoscenico prendendolo per i fianchi magri e portandoselo, improvvisamente, tanto da farlo gridare per la sorpresa

– Vuoi stare un po’ tranquillo? – gli sussurrò con la sua voce troppo pacata e l’altro non se lo fece ripetere due volte, accoccolandosi al suo collo.

– Se proprio insisti. – gli rispose, facendo tirare a noi un sospiro di sollievo.

Itachi rifletteva tranquillo, gli occhi neri resi più scuri dalle venature rosse, gli effetti dell’erba in circolo e le guance scavate. Chissà che gli passava per la testa.

– La rivoluzione non dev’essere per forza armata, Deidara, hai presente Gandhi? La grande anima dell’India? Ha tolto il suo Paese agli Inglesi con la non violenza, ed è quello che dobbiamo fare noi. Se non cooperiamo con il governo loro dovranno ascoltarci.  – ci disse con l’aria assente.

Il ragazzo biondo dall’altra parte della stanza sbuffò cupo.

– Non capisci nulla, tu. – ribatté per poi mordere la mano di Sasori, che gli voleva tappare la bocca con un bacio.

– Itachi, “ la rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un'altra”, non la possiamo prendere così alla leggera! Se ha funzionato per l’India, non vuol dire che avrà lo stesso esito per l’Italia! Anzi, credo proprio il contrario. Lì i padroni, quelli veri, si trovavano dall’altra parte del mondo, noi li abbiamo sotto casa. La terra indiana non era degli Inglesi, fu molto più facile per loro. – fu Yahiko a prendere la parola, e lo fece con una voce, che non avrei mai detto sua.

Mi sciolsi dall’abbraccio in cui mi teneva stretta e lo guardai per qualche secondo, Nagato alzò lo sguardo dal tappeto, dove stava straiato e leggeva Diabolik, per posarlo anche lui sull’amico.

– E questo chi lo dice? – l’Uzumaki sembrò tremare di fronte alla frase precedente dell’amico e non poté fare a meno di intervenire.

L’atmosfera si incupì di colpo, mentre Itachi continuava a sussurrare – Se voi possedeste un briciolo di buon senso. – ancora preso dai suoi pensieri.

A Yahiko brillavano gli occhi, c’era qualcosa in lui di nuovo e bellissimo: sembrava una stella in procinto di scoppiare.

E in quel luccichio mi persi anche io, come lo fece Nagato, ma non avevamo idea che ci avrebbe condotti tutti e tre nel baratro.

Frugò nella tasca del suo eskimo verde, lasciato sul pavimento, ne tirò fuori un piccolo libro dalla copertina di pelle rosso fuoco e lo lanciò all’amico.

  È tutto scritto qui!

– “Citazioni delle opere del Presidente Mao Tse-tung”? Non dirai sul serio? – lo teneva in mano come qualcosa di estraneo, a cui approcciarsi con la massima cautela, e forse non aveva tutti i torti.

È per il nostro futuro, Nagato. Vi fidate di me?

Con il senno di poi, con quelle pagine, avrei fatto mille origami da gettare nel fuoco, ma è facile parlare a posteriori, in quel momento l’unica cosa che feci, fu rigettarmi nell’abbraccio caldo di Yahiko e nel suo golfo scuro.

Giù dal precipizio, intanto, ci saremo finiti insieme.

 

Portammo i consigli di Jiraya all’estremo, la mattina dopo, quando, invece di recarci a lezione, ci recammo nella grande “Gemelli”.

Yahiko trascinò lì me e Nagato, seguendo altri studenti, che si accalcavano per entrare nell’aula, già strapiena. Ci tirava per i giacconi, rideva, lui, e farfugliava qualcosa di incomprensibile – Gliela faremo pagare noi a quei fascisti, vedrai, Konan, vedrai! – fu quel poco che riuscii a sentire in quel turbine di parole.

Ci riunimmo in “assemblea”, parola che, fino a quel momento, per me non era significata nulla; discutemmo dell’Università, di come era ingiusto che le tasse ne precludessero l’accesso a chi non aveva la possibilità economica, di come i nostri programmi fossero obsoleti, i professori mediocri e di parte.

Noi prendemmo la parola su palchetti improvvisati, fatti con la cattedra, con i banchi, gridammo, facemmo sentire le nostre opinioni e ci sentivamo unici, splendidi. Eravamo pieni di idee da appiccicare al nostro muro dell’utopia, e le urlammo tutte, nessuna esclusa.

La stanza era piccola per ospitare tanti giovani quanti eravamo, ma il respiro non mi mancò neppure una volta, non vidi nessuno uscire per un giramento di testa o un mancamento.

Tutti lì, chiusi e stretti come sardine, tra quelle pareti chiare, i cuori, che battevano forte e all’unisono, l’adrenalina nelle vene insieme all’hashish e alla lotta.

Oh sì, la lotta. Capì seriamente cosa volesse dire “voler prendere il mondo a pugni” solo in quel momento: lo sentivo chiaro sottopelle, un istinto animale, che saliva, spingeva per uscire, per spaccare tutto e costruirlo daccapo.

Qualcuno gridò all’occupazione, lo seguimmo tutti a ruota.

 

“Maybe I've been here before,
I know this room, I've walked this floor.
I used to live alone before I knew you.
I've seen your flag on the marble arch,
love is not a victory march
It’s a cold and it’s a broken hallelujah.”

Hallelujah, Jeff Buckley

 

Yahiko mi spinse contro la parete del bagno dell’Università. Sentivo le fughe graffiarmi la schiena, facendomi male, ma mi ci sarei seppellita dentro, se fosse servito a tenermi lui ancora più vicino. Le sue labbra tiepide sfiorarono le mie, le leccarono, succhiarono, ed io non potei far altro che appiccicarmelo di più addosso, stringendogli la maglia nei miei pugni piccoli, affamati della sua presenza.

Sollevò un poco la mia camicia, per poter toccare i fianchi nudi, la pelle liscia della pancia e il piercing, che avevo conficcato nell’ombelico, e non avvertivo neppure le piastrelle gelide dietro la schiena, tanto lui riusciva a rendere tutto intorno a noi surreale, bollente.

Respirò sulla mia fronte, sussurrò qualcosa di incomprensibile, mentre prendeva i miei capelli scuri e se li passava tra le dita, come fossero fili d’oro.

– La Cattolica è nostra, Konan, domani ci prendiamo tutta Milano!

Sembrava fare le fusa contro il mio collo, rideva, soffiava via le parole, che a me, invece, mancavano. Le cercavo in lui, eppure non risultavano mai altrettanto belle, piene.

– Facciamo la rivoluzione – mi disse guardandomi negli occhi – facciamo la rivoluzione e poi ti sposo!

Mi prese il viso tra le mani, come avrebbe potuto fare con un bocciolo di rosa, delicato, deciso, con quelle dita, che avrebbero potuto scolpire la “Pietà” o ridipingere la Sistina.

– Sei la cosa più bella del mondo, potresti essere un angelo. Potresti esserlo sul serio, se io non ti tenessi qua con me. Ti fidanzeresti con un riccone, di quelli che ti porterebbero ovunque, ti regalerebbero di tutto, solo per un minuto in tua presenza. Sei così… – mi accarezzò le guance rosse con i polpastrelli ruvidi, leggeri, sospirando contro il mio naso – chiunque ucciderebbe per un tuo sorriso. E invece sei a pomiciare in un bagno lercio con un lavapiatti, per giunta del bar più sfigato di tutta Milano!

Rise sguaiato, come se tutta la sua sicurezza si fosse dispersa nei nostri respiri.

– Non potrei essere in altro posto se non qui, con te. Non senza i nostri sogni, le nostre speranze, il nostro futuro! Come potrei chiedere qualcosa di più, qualcosa che non mi sono guadagnata, come questo momento. Non voglio neppure pensare a dove sarei senza di te, adesso. Sei l’equilibrio, che credevo di non trovare mai nella mia vita. L’unica persona, che sia riuscita a tirarmi fuori dal cemento, per farmi avere una vita migliore. – gli risposi, la voce impastata dalle lacrime, che acide bruciavano, pendendo dalle mie ciglia. Mi chiuse la bocca con un altro bacio, lunghissimo, tenero, masticando un “ti amo” sulle mie labbra, un altro ancora, altri cento.

Ed io mi riempivo di tutta quella bellezza, di tutte quelle emozioni, lo tenevo stretto, lo abbracciavo dolcemente, confusa e cullata dalle sue braccia grandi e forti.

Erano quasi le tre di notte, ma i nostri occhi rimanevano vigili, arrossati, innamorati.

– Promettimi che sarà così per sempre. Promettimi che al nostro matrimonio ti vestirai di rosso – e annuì serio, come se stesse dicendo qualcosa di intelligente, di molto importante – così mi diventerai l’angelo del comunismo, oppure potresti metterti quella minigonna, che mi piace tanto, tantissimo. –

Arrossivo, mentre lui sfiorava con i polpastrelli il tessuto grezzo dei miei jeans larghi.

– Però piace anche a Nagato, ma come dargli torto! Mica è scemo!

Un rumore forte ci interruppe, tante voci diverse si accavallarono, forti, sempre di più, rumore di passi su per le scale, concitati, vicinissimi.

L’Uzumaki spuntò dalla porta, le gambe ancora distese per lo sforzo, boccheggia, respirava a fatica, con una bomboletta spray in mano e i capelli appiccicati alle tempie .

– Ragazzi, la polizia, ci voglion far sgomberare! – ci disse affannato e, senza perdere neppure un secondo, Yahiko mi prese per mano, trascinandomi dietro di lui, giù per le scale, fino nell’atrio, dove alcuni tra i nostri già stavano creando problemi.

Venivamo spinti, a destra, a sinistra, indietro dalla calca, che cercava di mandare fuori le forze dell’ordine. C’era scompiglio, caos, qualcuno urlava, ci tiravano ovunque, venivamo schiacciati, pressati, ma il mio migliore amico mi teneva stretta, mentre Yahiko avanzava, insieme a quelli più avventati. Cercavo di riportarlo con noi, vinta da un terrore, che non credevo di poter contenere.

– Porta fuori Konan, io rimango qua. – gridò, affinché riuscissimo a sentirlo nella confusione opprimente, e Nagato mi trascinò fuori dall’Università.

Riprendemmo fiato, quel che bastò per iniziare a correre verso casa, eppure mi girai di nuovo, il viso sudato verso l’edificio.

Aspettavo di vedere uscire la testa rossa di Yahiko da un momento all’altro, ma attesi invano. Il sole, appena sorto alle mie spalle, illuminava i tetti di Milano, e toccava con i primi raggi la facciata della Cattolica, dove sul bianco candido della pietra, si ergeva una grande nuvola rossa, dai contorni definiti e dal colore brillante. L’Uzumaki mi sventolò davanti agli occhi la bomboletta, che teneva in mano, vantandosi del lavoro ben riuscito e recitando le parole scritte sotto il graffito: “Questa sarà la nostra alba rossa.”

 

* *

 

Riuscii a dormire un paio d’ore sul divano, con i miei genitori, che si alzavano per andare a lavorare senza chiedermi nulla, la testa appoggiata alla spalla di Nagato, i suoi capelli ramati a torturarmi il sonno.

Pensavo a Yahiko, a dove fosse, in quale condizione. Se stesse pensando a noi, a quanto fossimo preoccupati ad aspettare il suo ritorno. Chiusi gli occhi e vidi il mondo: il mio ragazzo con una gamba rotta all’ospedale, in una cella buia e fredda della caserma. L’ansia crebbe, ma la stanchezza per la giornata trascorsa vinse su tutto.

Avevamo fatto la cosa giusta?

Venni svegliata poco dopo, da un sorriso dolce e rassicurante, e un bacio leggero sulla fronte.

– Non volevo svegliarti. – mi sussurrò, indicando il nostro amico, con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta.

Mi allungai un poco, cercando di non infastidirlo e di non disfare l’abbraccio in cui mi teneva stretta.

Yahiko, uno zigomo tumefatto e le guance arrossate, si sedette vicino a noi, facendoci stringere sul sofà e poggiando la testa sullo schienale scomodo.

– Ci hanno fatto un po’ di domande e ci hanno rimandato a casa. – disse, neanche stesse leggendo quello che mi domandavo, ancora un po’ intorpidita e stanca – Ho conosciuto dei tipi interessanti, sai? Ci hanno dovuto portare via per i piedi, Konan! Non sai quanto li abbiamo fatti incazzare! È perfetto! È tutto così dannatamente perfetto! Dobbiamo scendere in piazza… oggi pomeriggio e stasera torniamo ad occupare. Finché non mi puntano una pistola alla tempia io non mi muoverò.

Le mie labbra si schiusero in una “o” dolcissima, di acclamazione e stupore. Nella mia testa, il ragazzo, era immerso in una luce splendida, chiarissima, sembrava un dio, sceso a punire i maligni, e ad eleggere noi, simili a lui, nella sua bellezza incontaminata. Ci innalzava, portandoci all’inferno.

Un mugolio alla mia sinistra, appurò il destarsi di Nagato dal suo dormiveglia.

– Sei qui – pigolò subito, notando la presenza dell’altro, che subito gli scompigliò i capelli – non lasciarci più. – erano innaturali certe parole dette con la sua voce bassa e roca, eppure tanto mie, che non mi sentii di aggiungere nessuna delle banalità nella mia testa.

Lo abbracciai forte, sentendo le costole sporgenti del mio amico, bucarmi la schiena, ma andava bene così, andava tutto straordinariamente bene.

Nagato, la mattina dopo, trovò un gatto dal pelo corto, ispido e rossiccio, vicino ad un cassonetto dietro il nostro condominio; girava intorno alla spazzatura, si strusciava contro le nostre caviglie, cercava qualcosa da mangiare, e da quel giorno gliene portammo sempre.

Yahiko ci convinse che “Mao” sarebbe stato un nome perfetto per il nostro nuovo piccolo amico, ma scoprimmo presto, che si trattava di una micia: dolcissima e incinta.

Le regalammo una scatola di cartone per proteggersi un po’ dal freddo, e una vecchia sciarpa di lana, ancora calda, le costruimmo una cuccia, per superare l’inverno come avremo dovuto fare noi.

Chi si affezionò di più a lei fu sicuramente l’Uzumaki: ogni mattina scendeva per le scale di fretta, scordandosi persino di passare a chiamarci, e si precipitava a sincerarsi delle sue condizioni.

Il suo era un modo per proteggere qualcuno, per sentirsi talmente importante da essere indispensabile, voleva essere lui a portarle gli avanzi, a farle le carezze per primo.

Voleva comportarsi come Yahiko faceva con noi, il suo modo dolce per sentirsi come lui, ma questo me lo confessò solo in seguito.

– Sta bene – ci rassicurava – sta diventando grossa come la signora portinaia.

E questo non poteva essere che un buon segno.

Un giorno trovammo i cuccioli: due topi spelacchiati, attaccati alla madre spossata e addormentata: fu una delle cose più belle che vidi in tutta la mia vita.

“Hendrix” chiamammo il maschietto tigrato, che appena aprì gli occhietti rivelò due iridi chiare e delle orecchie basse, la femminuccia, invece, “Peace” era nera come la notte e aveva delle unghie piccole e affilatissime.

Mao li spostava ogni mattina, per poi riportarli nella scatola il pomeriggio, perché noi potessimo vederli. Ricambiava la nostra generosità nell’unico modo che un gatto conosce: la fiducia.

Come noi la riponevamo in Yahiko.

Tre settimane dopo trovammo la gatta a terra sul ciglio della strada, la pancia squarciata dalla ruota di una macchina, le interiora più fuori che dentro il suo corpicino, il pelo rosso di sangue rappreso e ghiacciato dalla brina, mentre i suoi piccoli tentavano di portarla nel cortile, tirandola per le orecchie mangiucchiate.

Ma lei rimaneva immobile, morta, fredda, e la loro disperazione divenne anche la nostra: quella piccola macchia di colore, che si aggirava sempre irrequieta, tra il cemento di quel condominio, si era spenta come una piccola stella.

Questo avrebbe dovuto farci presagire qualcosa.

 

* *

 

La cantina di Itachi divenne il nostro ritrovo abituale.

Le discussioni si accendevano come fiammelle, per poi aizzarsi e spegnersi nel freddo e nelle nuvolette che emettevamo respirando. I più esaltabili rimanevano Yahiko e Deidara, mentre Nagato e Sasori erano troppo impegnati a fumare o a cercare di mantenere la calma generale, per impicciarsi nelle discordie.

Io rimanevo in disparte, eletta a giudice imparziale della situazione, a godermi le attenzioni di tutti: l’unica donna ammessa a quel terribile giro.

Stavo con le gambe incrociate su un tappeto pulcioso, di quelli di finta fattura indiana, coloratissimo e che mi pizzicava i palmi delle mani.

Tenevo un libro sulle cosce, ma non riuscivo a leggerne neppure una riga, presa come ero dalle conversazioni dei miei amici, tanto da non accorgermi neppure della presenza dell’Uchica dietro di me, finché non sentii le sue ginocchia stringermi i fianchi.

Sentivo il suo respiro tra i capelli, pesante, di alcool e nicotina, e le sue mani sulle mie spalle magre.

– Guardali, non sono buffi? – disse, con quel suo sorriso un po’ inquietante, che sentivo dietro la nuca – Hanno trovato la loro strada, e per quanto sarà difficile e impervia, la continueranno, qualsiasi sia il costo. Noi, invece? Per quanto possiamo stringere il coraggio tra le dita, riusciremo mai a finire ciò che abbiamo iniziato? Io rimpiango la mia famiglia tutti i giorni, eppure la libertà mi è così cara, forse è perché credo di stare per morire.

Mi voltai verso di lui, i suoi occhi scuri più malinconici, non avevo notato quanto fosse dimagrito, quanto si fossero scavate le sue guance, quanto le dita gli tremassero, eppure non riuscivo a credere alle sue parole. Che cosa si era fumato?

– A volte bisogna saper tornare sui propri passi, non eccedere. – sospirò cupo, per poi riprendere – Credo che passerò a salutare mia madre e mio fratello, uno di questi giorni… e anche mio padre, se mi vorrà rivedere. Anche tu dovresti ripensarci, fare un passo indietro. Farebbe bene ad entrambi…

Mi è difficile ancora adesso, riuscire a capire come fece ad indovinare la mia condizione, perché posò le dita sulla mia pancia per accarezzarla dolcemente, come poteva sapere che sotto i suoi polpastrelli, sotto la mia carne, batteva un altro piccolo cuore, ancora inascoltabile. Rimasi a bocca aperta, cercando delle parole difficili, impastandomi nella mia stessa saliva.

– Yahiko sarà molto contento, sono felice per voi. – continuò, per poi alzarsi e defilarsi fino alla porta, con la scusa di andare a prendere le sigarette: non lo vidi più.

Rimasi sola con i miei terribili dubbi e le mie angosce, tutti incatenati dentro la gabbia toracica, che sembrava voler esplodere.

Qualcuno entrò nella stanza, portando inevitabilmente un’ondata di freddo, come se non ve ne fosse già abbastanza.

La testa rossa di Sasori sbucò sotto un cappello di lana grigia e una sciarpa dello stesso colore, nascosta subito da quello di Deidara, che era corso ad abbracciarlo.

Osservavo tutto come da dentro un flashback velato, i contorni sfocati di tutti si univano alle voci ovattate, e agli scricchiolii. Le labbra di Yahiko si contrassero in un sorriso tiepido, quando il nuovo arrivato gli disse di essere riuscito a convincere gli altri operai della fabbrica dove lavorava, a manifestare con noi studenti il giorno successivo.

– Perfetto – lo sentii pronunciare – più siamo, più riusciremo a fare!

Intanto tutto aveva iniziato a girare intorno a me, niente di fisso, immobile, tutto in un costante e irritante movimento, che mi dava la nausea.

Quasi non vidi la mano di Sasori sostare sotto il pastrano scuro, e passare poi una pistola in quella morbida e gentile del ragazzo che amavo, quasi, perché il ricordo di quel momento è ancora fisso nella mia mente, appiccicato con una puntina dolorosissima.

L’atmosfera gelò improvvisamente, la testa iniziò a battermi all’impazzata, un martellamento difficile da contrastare, che finì con il farmi rigettare tutta la cena.

 

“I, I can remember

standing, by the wall.

And the guns shot above our heads

And we kissed,

as though nothing could fall

And the shame was on the other side

Oh we can beat them, forever and ever

Then we could be Heroes,

just for one day

Heroes, David Bowie

 

Sui tetti di Milano risuonava la melodia della pioggia, che batteva violenta, sempre in crescendo, quasi tentasse di perforare i cappucci calati dei nostri eskimo verdi e incerati.

Era il marzo del ’68, a Roma la battaglia impazzava, e i futuri architetti bruciavano la Valle Giulia, con il loro coraggio e la loro determinazione, mentre noi rimanevamo inglobati nella nebbia umida, pronti ad emularli in qualsiasi momento.

Avanzammo per le vie, stretti gli uni agli altri, fino ad aprirci a ventaglio in Piazza Duomo, che ci pompò come un cuore lungo delle arterie di sasso e malta. Eravamo una tossina, che stava infettando il sangue fumoso della nostra città.

Non ci avrebbe fermato nulla, non quel giorno, non con l’adrenalina al massimo. No, assolutamente no.

I megafoni conducevano migliaia di persone, mai viste così tante, noi in prima fila, a dettare il ritmo dei passi, sotto il peso dell’acqua e di centinaia di responsabilità, con Deidara, che ci aveva abbandonati per unirsi con il suo ragazzo e la manifestazione degli operai, dietro la nostra.

Il cielo denso, gravava su di noi come un’oscura predizione, scuro, basso e l’umidità ci impediva di respirare regolarmente, ma noi continuavamo imperterriti, con le bandiere rosse in mano.

Cantavamo della rivoluzione, con le sciarpe a coprirci il viso fin sopra il naso, lasciando scoperti solo gli occhi vigili, sempre attenti.

Avevamo il mondo sotto i piedi e neanche ce ne accorgevamo, lo tenevamo in bocca, pronti a masticarlo e sputarlo fuori, pulito da tutte le divisioni e tutte le ingiustizie, un mondo dove crescere una generazione nuova, spensierata.

Pensai alla vita, che mi cresceva dentro, pensai a Yahiko, che quella mattina cercava di convincermi a non scendere in piazza, a non andare con loro per le strade, ma non li avrei lasciati soli neppure un istante.

Nagato di fianco a me, urlava, le labbra aperte e screpolare per il freddo, il cappuccio, calcato sulla testa, gli spettinava la frangia lunga, che gli copriva gli occhi grigi intensissimi.

In mano uno striscione, con la scritta scura: “No, alla cultura dei padroni”.

Le stelle che muoiono fanno un rumore strano, non si spengono lentamente, lo fanno di botto e quasi non te ne accorgi, finché non le conti nel cielo e ne trovi una in meno, ma questa non è una lezione da ripassare per il test. È una legge durissima, che imparai solo in seguito, in quel momento l’unica cosa che contava era essere lì, fare la storia.

Yahiko si avvicinò a me con uno scatto, aveva le guance rosse per il freddo, secche, le avrei baciate fino a seppellirmi dentro.

Non importava che fosse mattina presto, piovesse a dirotto, ci fossero zero gradi, nonostante il mese, che la sera prima non avessimo dormito per niente, lui era lì, e c’era veramente, con la sua presenza dura,  mascolina, che mi faceva venir voglia di stargli attaccata tutto il tempo.

– Sta andando tutto bene, Konan, nessun problema, neppure tra gli operai. Neppure tra quelli dell’MSI. Andrà tutto benissimo. Oramai siamo al capolinea.

Aveva ragione.

Ci bastò un attimo per distrarci, per perdere la cognizione dello spazio. Non ci accorgemmo neppure di trovarci davanti alla Cattolica, che ci aveva sbattuto fuori.

La guardammo, continuando a camminare malinconici, con la speranza di riprendercela al più presto, ma non tutti erano della nostra opinione.

Presto l’odore della benzina e della plastica in fiamme ci violentò le narici, poco dietro di noi un’auto ribaltata prendeva fuoco. La polizia si allarmò e divenne il caos. Davanti a noi decine e decine di agenti, schierati con le visiere basse, i manganelli in mano, che ci avvertivano di indietreggiare.

Il cuore iniziò a battere troppo forte, superando quasi la soglia del dolore. Lo sentivo pompare come mai, nonostante non fossero i nostri primi problemi con le forze dell’ordine, forse perché avevo qualcosa da perdere ‘sta volta.

Yahiko, davanti a me, faceva da muro contro qualsiasi problema, peccato non riuscisse a bloccare il fumo, che mi faceva girare la testa. Portai una mano al ventre gonfio, pieno, da salvare a qualsiasi costo.

“Andiamocene” pensavo “scappiamo via” eppure non riuscivo a pronunciare una sillaba, tanto ero impegnata a trattenere i conati, i palmi delle mani graffiati dall’asfalto, i granelli scuri impiantati dentro alla carne.

Di fronte a me tutto era un vortice, il cui fulcro ero io. Tutto sembrava avvicinarsi, schiacciarmi, comprimermi, mentre Nagato mi accarezzava la schiena, cercando di consolarmi.

– C’è lui con noi. Andrà tutto bene.

E, come in una profezia, lo vidi allontanarsi, lasciarci in mezzo al delirio, per avvicinarsi ai poliziotti, che malmenavano uno studente. Il giovane, raggomitolato a terra, stringeva la testa con gli avambracci, i gomiti nudi lividi, la schiena percossa da calci.

Vidi dissolversi la scena come in un film: Yahiko che tentava di allontanare gli agenti dal ragazzo, spinte, la pistola estratta dalla tasca dell’eskimo per difesa, una mano più veloce, che compiva un gesto gemello, ma premeva il grilletto con forza.

Il suo viso venne attraversato dalla sorpresa e dal dolore, tutto così in fretta, che, ne io ne Nagato,  riuscimmo a capacitarcene in tempo.

Lo vedemmo crollare, come un’imponente statua di marmo a cui hanno tolto la base, lo vedemmo a terra, e le nostre urla si fusero in un unico rantolo di gola, gridato al cielo.

 – Un’ambulanza! Chiamate un’ambulanza! – disse l’uomo in uniforme davanti al suo corpo, rendendosi conto di quello che era successo, ma non fece in tempo a muoversi che Nagato gli si era scaraventato addosso, tutta la forza della disperazione in quel gesto impetuoso.

Sopra di noi, il cielo, aveva iniziato a rischiararsi, lasciando che la luce del sole filtrasse da qualche crepa della cappa di nuvole. La pioggia, intanto, continuava a cadere fitta, dolorosissima, e si univa al sangue di Yahiko, creando disegni sull’asfalto, sulle nostre guance bagnate e salate.

Gli tenevamo le mani strette nelle nostre, ma scivolavano via. Tentavamo di tenerlo sveglio, supplicandolo di tenere gli occhi aperti, e noi lo guardavano sfuggirci lentamente, morirci davanti agli occhi.

– State bene. – soffiava via tra le labbra – Voi state bene.

Ed era questa la cosa importante, per lui era sempre stato così.

–Ti amo, Konan. Nagato, ti prego, prenditi cura di loro.

Il mondo avrebbe perso la sua stella più bella.

 

“Nuvole che passano e scaricano pioggia come sassi
e ad ogni passo noi dimentichiamo i nostri passi,
la strada, che noi abbiamo fatto insieme,
gettando sulla pietra il nostro seme,
a ucciderci a ogni notte dopo rabbia
gocce di pioggia calde sulla sabbia.”

“Cade la pioggia, Negramaro e Jovanotti”

 

– Auguri mamma! – strilla Jiraya, mi abbraccia la vita e la stringe possessivo.

La cucina è un caos: il tavolino è ricoperto di farina, gusci d’uovo e crema, il forno emette gridolini disperati, probabilmente sta cercando di autodistruggersi, per mantenere un briciolo di dignità.

Yahiko si avvicina saltellando, i capelli rossi spettinati, il viso sporco e le mani che tremano per l’emozione.

– Sorpresa! – grida, e se intende che dopo sei ore di ufficio devo anche ripulire tutto quel disastro, non posso non congratularmi per la sorpresa ben riuscita. Apre il frigorifero come se fosse il portale magico tra due mondi, con il pathos che solo lui riesce a dare in certi momenti. Dentro, sopra le verdure e la zuppa di farro di ieri, c’è una torta o almeno dovrebbe esserlo.

– Buon compleanno alla donna più bella del mondo! – mi dice, sovrastandomi con la sua altezza, mentre Jiraya fa spazio sul tavolo, spazzando via tutto di fretta e sistemando quattro piattini spaiati sulla superficie appiccicosa.

– Sei sempre il solito stupido tu. – lo sgrido, ricordandomi poi che non è più un ragazzino e gli lascio un bacio sulla tempia, alzandomi sulle punte.

– Dov’è papà? Lo ha fermato ancora quel Naruto? Non ne ha mai abbastanza di riunioni di condominio quello.

– Cosa vuoi farci – sospiro – deve avere una vita molto triste. Con la moglie che si ritrova non mi stupirei se cercasse ogni minuto buono per starle lontano! Alla sua età farsi i capelli rosa!

– Parla quella con una rosa tra i capelli come le ragazzine! – risponde prontamente l’altro mio figlio. Non riesco a capire da chi abbia preso, da due persone silenziose e riservate non può essere uscito un ragazzo così esuberante. Ha i miei capelli neri, gli occhi grigi di Nagato e la stessa corporatura nervosa e magra, unite a una vera passione per tutto ciò che è distruggere, pasticciare o a modo suo fare arte. Non mi stupirei se l’idea della torta fosse sua.

Stretto nel suo golfino panna, il cullo alto, che gli graffia il mento, ha già tirato fuori lo spumante migliore dalla dispensa e sistemato la sua creazione al centro della tavola.

Yahiko mi culla ancora un po’ tra le sue braccia grandi e forti, così simili alle sue, a quelle di suo padre. A volte mi perdo nei suoi grandi occhi, per rivederlo e riflettere i miei nei suoi un un’ultima volta, poi mi accorgo che sono due persone completamente diverse. Lui, a ventotto anni, ha un’idea tutta sua di come salvare il mondo, nel reparto di pediatria, a contatto con la nuova generazione da sanare.

E non c’è nulla che possa rendermi più fiera.

La porta sul pianerottolo si apre e spunta un musino peloso e spaesato, subito dopo una valigetta scura e Nagato.

– E questo che è? – gli chiedo, osservando un micio che mi annusa le scarpe impaurito. Dopo Mao, mio marito, non ha più voluto animali, dopo Yahiko non ha più voluto amici. E, nonostante che io cerchi continuamente di schiodarlo dal nostro pesante passato, lui vi rimane ancorato come un bambino capriccioso. Questa palla di pelo non ha nulla del nostro gatto precedente, neppure dei suoi cuccioli, che portammo al bar dal nostro datore di lavoro. È rotondo e immagino che, accovacciato, sembri proprio una piccola sfera, con un pelo folto e arruffato.

– Il nostro regalo di compleanno – mi risponde con un bacio – il nostro vicino di casa ne ha una cucciolata e li stava vendendo.

I miei occhi rimangono fissi sul gatto, che si avvicina timoroso e si lascia prendere in braccio per delle coccole. Forse riusciremo a gettare tutto lontano, finalmente.

– Non dimentichiamoci della torta, pà! – lo correggono subito, costringendoci a  metterci a tavola.

– Come potrei farlo – ride – sembra così invitante!

Non lo è per niente, e il sapore è persino peggiore, eppure non riesco a non sorridere come una bambina tutto il tempo.

Cinquanta anni non si compiono tutti i giorni.

Ed è da qualche giorno che provo a stendere un bilancio della mia vita, senza, tuttavia, aver alcun risultato. Siamo sotto la terribile ombra degli anni zero, qualcuno dice che non arriveremo al nuovo millennio, ma se avesse vissuto come me, saprebbe che si sopravvive a tutto, niente escluso.

Ho perso tutte le persone a cui tenevo, ho fatto la guerra, o più o meno l’abbiamo vissuta così, eppure sono ancora qua, ancora viva, con la mia famiglia, che tenta di avvelenare il nuovo arrivato, offrendogli il dolce.

Si sopravvive perché è così che funziona, lo puoi fare per gli altri, come ha fatto Nagato per me e il figlio del suo migliore amico, o perché si è troppo ancorati alla vita per lasciarsi andare.

Forse, il risultato di tutto, è che sono solo una persona egoista, fino al midollo aggiungerei. Ed è per egoismo che chiuderei la mia famiglia sotto una bolla di vetro, con tanto di neve finta: per proteggere me stessa da altro dolore. Ma se sono riuscita a sopportare tutto, significa che il dolore è accettabile.

Da quando non c’è più Yahiko, io, sopravvivo. Però lo faccio nel modo migliore possibile.

Anche Nagato ha tentennato i primi tempi, atteggiarsi a guida di un gatto è più difficile che farlo con una ragazza incinta e impaurita, ma adesso è il padre perfetto per i nostri figli.

A volte ripensiamo insieme al passato, con quella nota di malinconia, che perdura nelle nostre conversazioni, ma riavvolgendo la pellicola di un vecchio film si rovina, per questo ripassiamo sulla sua tomba, lasciando un fiore. La foto in bianco e nero ci sorride, sulla lapide di pietra chiara, ci saluta e sembra dirci: “Siate felici, vi ho amato da morire.”

Passiamo vicino anche a quella di Itachi, su cui ho visto suo fratello minore, così simile a lui, lavare il vetro dell’istantanea con le lacrime, e su quelle di Sasori e Deidara, vicinissime, scure e vuote: nessuno porterebbe mai fiori a dei terroristi, morti nel loro stesso attentato durante gli anni di piombo. Noi, invece, lo facciamo spesso, per ricordarci che non eravamo soli.

Che eravamo solo bellissime stelle, esplose troppo presto, che il cielo di Milano, la notte, è illuminato solo da lampioni e fari.

Prendo la mano di Nagato, dall’altra parte del tavolo, e sfioro con le dita la fede nuziale liscia e freddissima.

Ha mantenuto la parola data, ora tocca a me amarlo con tutta me stessa.

  
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