Angolino autrice: salve stelline del cielo! Un augurio di buon anno a tutti voi, che avete avuto il coraggio di aprire questa cosa e un sacco di dolci a chi arriverà fino all'ultimo, magari lasciando un segno del suo passaggio. L'ambientazione è storica e la storia si delinea intorno ai tre orfani della pioggia, che si trovano ad affrontare il '68 in Italia da universitari. La trama tratta anche di tematiche politiche (ho tentato di rimanere sul leggero naturalmente) e degli ideali di dei ragazzi, che scivolano in una Milano nebbiosa e piovosa, con i loro problemi e i loro amori. Questa One shot partecipa al contest "Crak pairing" di stella98f sul forum di Efp, con la coppia KonanxYahiko, e visto che sono romantica come uno scolapasta e che non si chiedeva espressamente una storia fluff o dolce, ho puntato su qualcosa di Angst e vagamente Drammatico. I'm in love with them!♥ Yeah! Comunque a parte gli sproloqui, mi sono "divertita" a scriverla, perché sono troppo bellini loro! Cioè sarebbero il triangolo perfetto! Ma io ho scritto una KonanxYahiko, e mi sono accorta di aver inserito alla fine un briciolo, briciolino di KonanxNagato, e sarebbe stata cosa buona e giusta mettere un po' di slashhhh tra i due rossi, ma per dovere di trama ho evitato e inserito Sasori/Deidara per la mia felicità *-*! Niente da aggiungere sulla storia se non: leggete e fatemi sapere:)
Il titolo è preso da "Cade la pioggia" dei Negramaro e Jovanotti, le altre citazioni prese dalle canzoni sono tutte segnalate. I personaggi non appartengono a me, ma a quel genio di Kishimoto.
Se volete chiacchierare, mandarmi messaggi minatori, dirmi che mi odiate, mi volete bene, eccetera, questo è il mio profilo Facebook.
Peace, Love and Ame Orphans Team! ♥
QUESTA PACE È SOLO ACQUA SPORCA E
BRACE.
Il
sessantotto, nella mia testa, rimane il ricordo
grumoso, di sangue e saliva, di una Milano, che stava per cedere sotto
il peso
opprimente di quegli anni cupi.
Soffriva
la mia città, il grigiore della nebbia
soffocante ci impediva la fuga, e che potevamo fare se non restare a
combattere?
Se
mi chiedessero cosa la ragione e il tempo -grande
nemica la memoria-, hanno salvato di quel periodo direi tutto: negli
occhi
tengo ancora i capelli lunghi e folti dei miei compagni, nelle narici
l’odore
dei cassonetti in fiamme, nelle orecchie il suono dei passi, delle
grida nei
cortei, e sulle labbra il sapore dei baci rubati nelle aule della
Cattolica
occupata.
Il
problema è sempre stata la lotta: di partito,
ideologia, contro i padri, contro il mondo, contro tutti. Ce
l’avevamo nel
sangue, scorreva insieme all’ossigeno e alla bile del fegato,
tanto che ci
siamo spaccati tutte le ossa contro i manganelli della polizia, vero
Yahiko?
Ma
in fondo, noi, che cazzo ne sapevamo del Vietnam
e dei Vietcong?
*
*
La
prima volta che sentii parlare di comunismo, fu
da mio padre.
La
sua mano grossa e sporca, accarezzava la mia
testa, distratta, incurante dei capelli, che si scompigliavano.
Il
piccolo schermo della nostra televisione in
bianco e nero passava qualche comizio di sinistra, i giornalisti
commentavano
irrequieti, qualcosa di strano aleggiava nell’aria, tra
quelle persone strette
in un abbraccio scuro intorno al palco, da dove il politico urlava ed
esaltava
la folla.
Mio
padre indicò il telegiornale, annuì con il suo
cipiglio severo, le sopraciglia folte, scurissime, si inarcarono quasi
di
scatto.
–
Konan – borbottò,
appoggiando il bicchiere vuoto al tavolo ancora apparecchiato
– a quelle
persone bisogna stare attenti! Che si mangiano i bambini, neh!
Ma
io non lo ascoltavo
già più, presa da tutte quelle parole, che non
avevo neppure idea di come si
scrivessero. “Rivoluzione” sentivo
“uguaglianza, classe operaia, padroni” mi
sembravano parole da non ripetere neppure per scherzo.
Non
avrei mai pensato,
che neppure dieci anni dopo, mi sarei trovata nella stessa piazza
stracolma,
stretta da un’ideologia da molti disprezzata e da una bandana
al collo.
Al
momento capivo solo
che rosso era sbagliato, totalmente sbagliato, il giorno successivo,
però,
conobbi Yahiko, poco dopo anche Nagato Uzumaki, e da allora quel colore
ha
iniziato inesorabilmente a far parte della mia vita.
Il
primo mi travolse una mattina, mentre, ferma sul
pianerottolo, aspettavo mia madre per le commissioni. Correva come un
indemoniato,
giù per le scale del condominio, con una grossa fetta di
pane e marmellata.
–
Te ne faccio assaggiare un morso, se non lo dici a
nessuno. – mi sorrise, bellissimo nei suoi capelli rossi e
con il nasino
all’insù..
Quando
scese una signora ancora giovane, dalla
stessa zazzera sbarazzina, negai con tutte le mie forze di aver visto
suo
figlio, anche se gli angoli della bocca, sporchi di confettura,
dicevano tutto
il contrario.
Nagato
lo trovammo
rannicchiato dietro un cespuglio del cortiletto recintato, una sera
prima di
cena, durante la nostra caccia alle lucertole giornaliera, la fronte
coperta
dalla lunga frangia ramata, gli occhi pieni di lacrime ed un grande
bisogno di
amici.
Da
quel giorno fummo
inseparabili come pappagallini colorati, appollaiati allo stesso
terribile filo
della sorte.
Abitavamo
in un grande
casermone in periferia, in piccoli appartamenti separati da tante rampe
di
scale; non eravamo ricchi, le nostre erano famiglie operaie, figlie di
valori
pesanti, che non ci sentivamo di condividere, come neppure il futuro in
cui ci
avevano confinato.
Eravamo
solo un gruppo
di sbandati, noi, con mille idee in testa, ma ne avessimo mai avuta una
buona.
Mangiavamo
Milano a
pedalate, dalle nostre case fino alla Cattolica,
dall’Università fino al bar
“Ame”, dove lavoravamo per mantenerci gli studi.
Sempre
e solo noi tre,
i lati imperfetti di un triangolo isoscele: io e Yahiko alla base, a
sostenere
il tutto e Nagato sopra di noi, ad un’identica distanza,
perché il bene che gli
volevamo era il medesimo, come lui ci amava entrambi allo stesso e
malato modo.
Inforcavamo
le bici e
ce ne andavamo, ci aspettava il mondo fuori da quei condomini grigi di
cemento,
la vita, l’indipendenza di quel Caffè, la speranza
riposta in quel corso di
laurea in Scienze Politiche.
–
Konan – mi dicevano –
con quel fiore in testa
sembri
una brava ragazzina borghese! –
e
ridevano mentre asciugavano i bicchieri dietro il bancone.
Allora
io lasciavo che
i loro occhi vagassero sulle mie gambe lisce, bianche come il latte,
coperte
solo da una minigonna di jeans nuova di negozio, mentre andavo a
servire i
clienti.
Non
mi vergognavo
affatto quando Nagato abbassava gli occhi grigi, cercando di pensare a
qualcos’altro, neppure quando Yahiko si sporgeva per
lasciarmi un occhiolino
complice.
Quelle
furono le
diecimila lire meglio spese della mia vita.
Scoprimmo
presto, però,
che la nostra piccola fiammella di gioia, sarebbe stata spenta dalla
pioggia di
un novembre troppo nuvoloso.
*
*
Il
bar “Ame” era un
piccolo buco, incastrato all’incrocio tra sue vie trafficate,
dalle pareti
tinte di un blu acceso, con tavolinetti bassi all’orientale e
dai dipinti di
ispirazione giapponese.
Il
proprietario, un
uomo di mezza età chiamato Jiraya, era una brava persona,
che ci aveva preso a
lavorare con sé da tre anni.
Nel
tempo libero
scriveva porcate e qualche editore gliele aveva pure pubblicate, ma non
avevano
fatto molto successo, eppure teneva tutti i suoi harmony in bella vista
sul
bancone, e credeva che la sua saggezza popolare potesse essere
spacciata per
filosofia scolastica.
Un
giorno, dal nulla,
si sedette sul bancone, accarezzando i lunghi capelli bianchissimi con
le dita,
ci chiamò tutti intorno, e iniziò a sventolare il
giornale fresco di stampa,
che teneva sotto il braccio. Ci guardava come si guarda il cavallo
zoppo, che
il padrone manda al macello, un misto di pena e rabbia, con due occhi
quasi in
fiamme.
–
‘Sti figli di buona
donna! Lo sapete che hanno fatto?
Nagato
sospirò,
credendo ci avesse beccato a lasciare il locale incustodito per la
nostra pausa
sigaretta, ma poi tornò serio per comprendere
perché Jiraya fosse così
preoccupato.
–
Vogliono aumentare le
tasse per voi studenti universitari! Raddoppiare! Raddoppiare! Si
raddoppiassero un po’ i calci da prendere nel c…
– si fermò prima di terminare
la frase, notando le occhiate dei clienti infastiditi dal suo tono e
dalle sue
parole.
Noi
lo sapevamo
benissimo, erano giorni che parlavamo solo del modo in cui chiedere al
capo un
aumento per continuare gli studi, perché in quel modo non
saremo riusciti a
pagarci i libri di testo ed aiutare le nostre famiglie.
Di
spese futili da
tagliare non ne avevamo, tranne il fumo, ma per quello ci sarebbe
voluto troppo
tempo e troppa voglia di farlo, che sicuramente non avremo trovato. Se
ci
fossimo proposti di lavorare qualche ora in più, non avremmo
avuto modo di
studiare a sufficienza per avere buoni risultati agli esami. E questi
problemi
si accumulavano su una pila, già consistente.
–
Io posso provare ad
aiutarvi ragazzi, tanto gli affari vanno bene, ma di certo
così non si risolve
la situazione – disse e a queste parole le nostre orecchie si
fecero più
attente – migliaia di altri giovani avranno lo stesso
problema, non tutti
saranno così fortunati da riuscire a continuare gli studi in
questo modo. A
cosa servono secondo voi tutte queste tasse? A governare un popolo di
capre,
perché è più facile, ma non bisogna
permetterglielo. Siamo formiche rispetto a
loro, la nostra parola non vale nulla se paragonata alla loro, noi,
però, siamo
milioni, loro pochissimi.
Yahiko
pendeva dalle
sue labbra, gli occhi sbarrati e una mano sul petto, come a impedire al
cuore
di uscire dalla gabbia toracica, sotto il golfo scuro e infeltrito.
Potevo
sentirne i
battiti persino sotto la mia camicia, si fondevano con i miei, si
rincorrevano
con quelli di Nagato, che mi era accanto.
–
Cambierò lo stato
delle cose, cambierò lo Stato. – ci disse, mentre
Jiraya gli scompigliava i
capelli complimentandosi per la sua audacia, ed io e
l’Uzumaki annuimmo
meccanicamente, di fronte a quello che sarebbe diventato il nostro
comune fine.
“And when your fears subside and
shadows still
remain, oh yeah.
I know that you can
love me when there's no one left to blame,
So never mind the
darkness we still can find a way
'Cause
nothin' lasts
forever even cold November rain.”
November
Rain,
Guns’n’Roses
La
sera del 16
novembre, ci chiudemmo nella cantina fumosa di nostro amico Itachi
Uchica, dove
abitava da quando lo avevano buttato fuori di casa, sdraiati su vecchi
divani
polverosi, con le molle rotte, che ci bucavano la schiena.
Suo
padre era un
poliziotto e non aveva apprezzato molto quando il figlio aveva lasciato
l’accademia, per fare l’hippie e mantenersi
vendendo maglie fatte con il Tie
& Dye, psichedeliche come i sogni chimici impachettati e
nascosti dentro le
T-shirt piegate.
I
giovani come lui si
incontrano poche volte nel corso di un secolo, era uno di quelli che la
vita a
ventitre anni se la sono già vista scorrere tutta come un
film e possono
trascinarsi avanti a avanti, avendo già visto tutto,
già conosciuto tutto.
Eppure
sotto le piccole
rughe, che già gli segnavano il volto, c’era
sempre un qualcosa di straordinario
da afferrare, come il lieve sorriso malinconico in cui si apriva quando
parlava
del fratello minore.
Apriva
il portafoglio e
mostrava una foto, lasciata a spiegazzare tra le lire.
–
L’ho lasciato da
solo. Mi odia, ma è giusto così. – e
riprendeva a parlare d’altro.
Passò
una sigaretta a
Yahiko, che aspirò e mi soffiò il fumo tra i
capelli, sulla rosa rossa
stropicciata. Straiati su un sofà verde e lercio,
probabilmente comprato a poco
da un rigattiere, ci abbracciavamo stretti, per confortarci dal freddo,
che
stava mangiando tutti lì dentro, riscaldati solo dal fumo e
da plaid tarmati.
Ascoltai
il battito del
suo petto, appoggiandovi l’orecchio, accelerare sempre di
più, mentre anche il
mio seguiva lo stesso ritmo, come sempre in sua presenza.
Che
lo amassi non era una
novità, che lui ricambiasse era la mia gioia.
–
Dobbiamo fare la
rivoluzione! Farli saltare tutti in aria! KABOOM! – Deidara, un biondino un
po’ matto, saltò sul
tavolinetto basso al centro della stanza e gridò, agitando
le braccia come per
spiccare il volo, di fronte ai poster di Hendrix.
Gonfiò
le guance, rosse
come pomodori maturi, spostando un ciuffo di capelli con uno soffio.
Sembrava
stesse per implodere su se stesso, ma il suo ragazzo, un certo Sasori,
che si
era unito a noi da poco, lo tirò giù dal suo
palcoscenico prendendolo per i
fianchi magri e portandoselo, improvvisamente, tanto da farlo gridare
per la
sorpresa
–
Vuoi stare un po’ tranquillo? – gli
sussurrò con
la sua voce troppo pacata e l’altro non se lo fece ripetere
due volte,
accoccolandosi al suo collo.
–
Se proprio insisti. – gli rispose, facendo tirare
a noi un sospiro di sollievo.
Itachi
rifletteva tranquillo, gli occhi neri resi
più scuri dalle venature rosse, gli effetti
dell’erba in circolo e le guance
scavate. Chissà che gli passava per la testa.
–
La rivoluzione non dev’essere per forza armata,
Deidara, hai presente Gandhi? La grande anima dell’India? Ha
tolto il suo Paese
agli Inglesi con la non violenza, ed è quello che dobbiamo
fare noi. Se non
cooperiamo con il governo loro dovranno ascoltarci.
– ci disse con l’aria assente.
Il
ragazzo biondo dall’altra parte della stanza
sbuffò cupo.
–
Non capisci nulla, tu. – ribatté per poi mordere
la mano di Sasori, che gli voleva tappare la bocca con un bacio.
–
Itachi, “ la
rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza con il
quale una
classe ne rovescia un'altra”, non la possiamo prendere
così alla leggera! Se ha
funzionato per l’India, non vuol dire che avrà lo
stesso esito per l’Italia!
Anzi, credo proprio il contrario. Lì i padroni, quelli veri,
si trovavano
dall’altra parte del mondo, noi li abbiamo sotto casa. La
terra indiana non era
degli Inglesi, fu molto più facile per loro. –
fu Yahiko a
prendere la parola, e lo fece con una voce, che non
avrei mai detto sua.
Mi
sciolsi dall’abbraccio in cui mi teneva stretta e lo
guardai per qualche secondo, Nagato alzò lo sguardo dal
tappeto, dove stava
straiato e leggeva Diabolik, per posarlo anche lui sull’amico.
–
E questo chi lo dice? – l’Uzumaki sembrò
tremare
di fronte alla frase precedente dell’amico e non
poté fare a meno di
intervenire.
L’atmosfera
si incupì di colpo, mentre Itachi
continuava a sussurrare – Se voi possedeste un briciolo di
buon senso. – ancora
preso dai suoi pensieri.
A
Yahiko brillavano gli occhi, c’era qualcosa in lui
di
nuovo e bellissimo: sembrava una
stella in procinto di scoppiare.
E
in quel luccichio mi
persi anche io, come lo fece Nagato, ma non avevamo idea che ci avrebbe
condotti tutti e tre nel baratro.
Frugò
nella tasca del
suo eskimo verde, lasciato sul pavimento, ne tirò fuori un
piccolo libro dalla
copertina di pelle rosso fuoco e lo lanciò
all’amico.
– È
tutto scritto qui!
–
“Citazioni delle opere del Presidente Mao
Tse-tung”? Non dirai sul serio? – lo teneva in mano
come qualcosa di estraneo,
a cui approcciarsi con la massima cautela, e forse non aveva tutti i
torti.
–
È
per
il nostro futuro, Nagato. Vi fidate di me?
Con
il senno di poi,
con quelle pagine, avrei fatto mille origami da gettare nel fuoco, ma
è facile
parlare a posteriori, in quel momento l’unica cosa che feci,
fu rigettarmi
nell’abbraccio caldo di Yahiko e nel suo golfo scuro.
Giù
dal precipizio,
intanto, ci saremo finiti insieme.
Portammo
i consigli di Jiraya all’estremo, la
mattina dopo, quando, invece di recarci a lezione, ci recammo nella
grande
“Gemelli”.
Yahiko
trascinò lì me e Nagato, seguendo altri
studenti, che si accalcavano per entrare nell’aula,
già strapiena. Ci tirava
per i giacconi, rideva, lui, e farfugliava qualcosa di incomprensibile –
Gliela faremo pagare noi a quei fascisti, vedrai, Konan, vedrai!
– fu quel poco
che riuscii a sentire in quel turbine di parole.
Ci
riunimmo in “assemblea”, parola che, fino a quel
momento, per me non era
significata nulla; discutemmo dell’Università, di
come era ingiusto che le
tasse ne precludessero l’accesso a chi non aveva la
possibilità economica, di
come i nostri programmi fossero obsoleti, i professori mediocri e di
parte.
Noi
prendemmo la parola su palchetti improvvisati, fatti con la cattedra,
con i
banchi, gridammo, facemmo sentire le nostre opinioni e ci sentivamo
unici, splendidi.
Eravamo pieni di idee da appiccicare al nostro muro
dell’utopia, e le urlammo
tutte, nessuna esclusa.
La
stanza era piccola per ospitare tanti giovani quanti eravamo, ma il
respiro non
mi mancò neppure una volta, non vidi nessuno uscire per un
giramento di testa o
un mancamento.
Tutti
lì, chiusi e stretti come sardine, tra quelle pareti chiare,
i cuori, che
battevano forte e all’unisono, l’adrenalina nelle
vene insieme all’hashish e alla
lotta.
Oh
sì, la lotta. Capì seriamente cosa volesse dire
“voler prendere il mondo a
pugni” solo in quel momento: lo sentivo chiaro sottopelle, un
istinto animale,
che saliva, spingeva per uscire, per spaccare tutto e costruirlo
daccapo.
Qualcuno
gridò all’occupazione, lo seguimmo tutti a ruota.
“Maybe I've been here before,
I know this room,
I've walked this floor.
I used to live alone
before I knew you.
I've seen your flag
on the marble arch,
love is not a victory
march
It’s a cold and it’s
a broken hallelujah.”
Hallelujah,
Jeff Buckley
Yahiko
mi spinse contro la parete del bagno
dell’Università. Sentivo le fughe graffiarmi
la schiena, facendomi male, ma mi ci sarei seppellita dentro, se fosse
servito
a tenermi lui ancora più vicino. Le
sue labbra tiepide sfiorarono le mie, le leccarono, succhiarono, ed io
non
potei far altro che appiccicarmelo di più addosso,
stringendogli la maglia nei
miei pugni piccoli, affamati della sua presenza.
Sollevò
un poco la mia camicia, per poter toccare
i fianchi nudi, la pelle liscia della pancia e il piercing, che avevo
conficcato nell’ombelico, e non avvertivo neppure le
piastrelle gelide dietro
la schiena, tanto lui riusciva a rendere tutto intorno a noi surreale,
bollente.
Respirò
sulla mia fronte, sussurrò qualcosa di
incomprensibile, mentre prendeva i miei capelli scuri e se li passava
tra le
dita, come fossero fili d’oro.
–
La Cattolica è nostra, Konan, domani ci prendiamo tutta
Milano!
Sembrava
fare le fusa contro il mio collo, rideva, soffiava via le parole, che a
me,
invece, mancavano. Le cercavo in lui, eppure non risultavano mai
altrettanto
belle, piene.
–
Facciamo la rivoluzione – mi disse guardandomi negli occhi
– facciamo la
rivoluzione e poi ti sposo!
Mi
prese il viso tra le mani, come avrebbe potuto fare con un bocciolo di
rosa,
delicato, deciso, con quelle dita, che avrebbero potuto scolpire la
“Pietà” o
ridipingere la Sistina.
–
Sei la cosa più bella del mondo, potresti essere un angelo.
Potresti esserlo
sul serio, se io non ti tenessi qua con me. Ti fidanzeresti con un
riccone, di
quelli che ti porterebbero ovunque, ti regalerebbero di tutto, solo per
un minuto
in tua presenza. Sei così… – mi
accarezzò le guance rosse con i polpastrelli
ruvidi, leggeri, sospirando contro il mio naso – chiunque
ucciderebbe per un
tuo sorriso. E invece sei a pomiciare in un bagno lercio con un
lavapiatti, per
giunta del bar più sfigato di tutta Milano!
Rise
sguaiato, come se tutta la sua sicurezza si fosse dispersa nei nostri
respiri.
–
Non potrei essere in altro posto se non qui, con te. Non senza i nostri
sogni,
le nostre speranze, il nostro futuro! Come potrei chiedere qualcosa di
più, qualcosa
che non mi sono guadagnata, come questo momento. Non voglio neppure
pensare a
dove sarei senza di te, adesso. Sei l’equilibrio, che credevo
di non trovare
mai nella mia vita. L’unica persona, che sia riuscita a
tirarmi fuori dal
cemento, per farmi avere una vita migliore. – gli risposi, la
voce impastata
dalle lacrime, che acide bruciavano, pendendo dalle mie ciglia. Mi
chiuse la
bocca con un altro bacio, lunghissimo, tenero, masticando un
“ti amo” sulle mie
labbra, un altro ancora, altri cento.
Ed
io mi riempivo di tutta quella bellezza, di tutte quelle emozioni, lo
tenevo
stretto, lo abbracciavo dolcemente, confusa e cullata dalle sue braccia
grandi
e forti.
Erano
quasi le tre di notte, ma i nostri occhi rimanevano vigili, arrossati,
innamorati.
–
Promettimi che sarà così per sempre. Promettimi
che al nostro matrimonio ti
vestirai di rosso – e annuì serio, come se stesse
dicendo qualcosa di
intelligente, di molto importante – così mi
diventerai l’angelo del comunismo, oppure
potresti metterti quella minigonna, che mi piace tanto, tantissimo.
–
Arrossivo,
mentre lui sfiorava con i polpastrelli il tessuto grezzo dei miei jeans
larghi.
–
Però piace anche a Nagato, ma come dargli torto! Mica
è scemo!
Un
rumore forte ci interruppe, tante voci diverse si accavallarono, forti,
sempre
di più, rumore di passi su per le scale, concitati,
vicinissimi.
L’Uzumaki
spuntò dalla porta, le gambe ancora distese per lo sforzo,
boccheggia, respirava
a fatica, con una bomboletta spray in mano e i capelli appiccicati alle
tempie .
–
Ragazzi, la polizia, ci voglion far sgomberare! – ci disse
affannato e, senza
perdere neppure un secondo, Yahiko mi prese per mano, trascinandomi
dietro di
lui, giù per le scale, fino nell’atrio, dove
alcuni tra i nostri già stavano
creando problemi.
Venivamo
spinti, a destra, a sinistra, indietro dalla calca, che cercava di
mandare
fuori le forze dell’ordine. C’era scompiglio, caos,
qualcuno urlava, ci
tiravano ovunque, venivamo schiacciati, pressati, ma il mio migliore
amico mi
teneva stretta, mentre Yahiko avanzava, insieme a quelli più
avventati. Cercavo
di riportarlo con noi, vinta da un terrore, che non credevo di poter
contenere.
–
Porta fuori Konan, io rimango qua. – gridò,
affinché riuscissimo a sentirlo
nella confusione opprimente, e Nagato mi trascinò fuori
dall’Università.
Riprendemmo
fiato, quel che bastò per iniziare a correre verso casa,
eppure mi girai di
nuovo, il viso sudato verso l’edificio.
Aspettavo
di vedere uscire la testa rossa di Yahiko da un momento
all’altro, ma attesi
invano. Il sole, appena sorto alle mie spalle, illuminava i tetti di
Milano, e
toccava con i primi raggi la facciata della Cattolica, dove sul bianco
candido
della pietra, si ergeva una grande nuvola rossa, dai contorni definiti
e dal
colore brillante. L’Uzumaki mi sventolò davanti
agli occhi la bomboletta, che
teneva in mano, vantandosi del lavoro ben riuscito e recitando le
parole
scritte sotto il graffito: “Questa sarà la nostra
alba rossa.”
*
*
Riuscii
a dormire un paio d’ore sul divano, con i miei genitori, che
si alzavano per
andare a lavorare senza chiedermi nulla, la testa appoggiata alla
spalla di
Nagato, i suoi capelli ramati a torturarmi il sonno.
Pensavo
a Yahiko, a dove fosse, in quale condizione. Se stesse pensando a noi,
a quanto
fossimo preoccupati ad aspettare il suo ritorno. Chiusi gli occhi e
vidi il
mondo: il mio ragazzo con una gamba rotta all’ospedale, in
una cella buia e
fredda della caserma. L’ansia crebbe, ma la stanchezza per la
giornata
trascorsa vinse su tutto.
Avevamo
fatto la cosa giusta?
Venni
svegliata poco dopo, da un sorriso dolce e rassicurante, e un bacio
leggero
sulla fronte.
–
Non volevo svegliarti. – mi sussurrò, indicando il
nostro amico, con gli occhi
chiusi e la bocca semiaperta.
Mi
allungai un poco, cercando di non infastidirlo e di non disfare
l’abbraccio in
cui mi teneva stretta.
Yahiko,
uno zigomo tumefatto e le guance arrossate, si sedette vicino a noi,
facendoci
stringere sul sofà e poggiando la testa sullo schienale
scomodo.
–
Ci hanno fatto un po’ di domande e ci hanno rimandato a casa.
– disse, neanche
stesse leggendo quello che mi domandavo, ancora un po’
intorpidita e stanca – Ho
conosciuto dei tipi interessanti, sai? Ci hanno dovuto portare via per
i piedi,
Konan! Non sai quanto li abbiamo fatti incazzare! È
perfetto! È tutto così
dannatamente perfetto! Dobbiamo scendere in piazza… oggi
pomeriggio e stasera
torniamo ad occupare. Finché non mi puntano una pistola alla
tempia io non mi
muoverò.
Le
mie labbra si schiusero in una “o” dolcissima, di
acclamazione e stupore. Nella
mia testa, il ragazzo, era immerso in una luce splendida, chiarissima,
sembrava
un dio, sceso a punire i maligni, e ad eleggere noi, simili a lui,
nella sua
bellezza incontaminata. Ci innalzava, portandoci all’inferno.
Un
mugolio alla mia sinistra, appurò il destarsi di Nagato dal
suo dormiveglia.
–
Sei qui – pigolò subito, notando la presenza
dell’altro, che subito gli
scompigliò i capelli – non lasciarci
più. – erano innaturali certe parole dette
con la sua voce bassa e roca, eppure tanto mie, che non mi sentii di
aggiungere
nessuna delle banalità nella mia testa.
Lo
abbracciai forte, sentendo le costole sporgenti del mio amico, bucarmi
la
schiena, ma andava bene così, andava tutto
straordinariamente bene.
Nagato,
la mattina dopo, trovò un gatto dal pelo
corto, ispido e rossiccio, vicino ad un cassonetto dietro il nostro
condominio;
girava intorno alla spazzatura, si strusciava contro le nostre
caviglie,
cercava qualcosa da mangiare, e da quel giorno gliene portammo sempre.
Yahiko
ci convinse che “Mao” sarebbe stato un
nome perfetto per il nostro nuovo piccolo amico, ma scoprimmo presto,
che si trattava
di una micia: dolcissima e incinta.
Le
regalammo una scatola di cartone per
proteggersi un po’ dal freddo, e una vecchia sciarpa di lana,
ancora calda, le
costruimmo una cuccia, per superare l’inverno come avremo
dovuto fare noi.
Chi
si affezionò di più a lei fu sicuramente
l’Uzumaki:
ogni mattina scendeva per le scale di fretta, scordandosi persino di
passare a
chiamarci, e si precipitava a sincerarsi delle sue condizioni.
Il
suo era un modo per proteggere qualcuno, per
sentirsi talmente importante da essere indispensabile, voleva essere
lui a
portarle gli avanzi, a farle le carezze per primo.
Voleva
comportarsi come Yahiko faceva con noi, il
suo modo dolce per sentirsi come lui, ma questo me lo
confessò solo in seguito.
–
Sta bene – ci rassicurava – sta diventando grossa
come la signora portinaia.
E
questo non poteva essere che un buon segno.
Un
giorno trovammo i cuccioli: due topi
spelacchiati, attaccati alla madre spossata e addormentata: fu una
delle cose
più belle che vidi in tutta la mia vita.
“Hendrix”
chiamammo il maschietto tigrato, che
appena aprì gli occhietti rivelò due iridi chiare
e delle orecchie basse, la
femminuccia, invece, “Peace” era nera come la notte
e aveva delle unghie
piccole e affilatissime.
Mao
li spostava ogni mattina, per poi riportarli
nella scatola il pomeriggio, perché noi potessimo vederli.
Ricambiava la nostra
generosità nell’unico modo che un gatto conosce:
la fiducia.
Come
noi la riponevamo in Yahiko.
Tre
settimane dopo trovammo la gatta a terra sul
ciglio della strada, la pancia squarciata dalla ruota di una macchina,
le
interiora più fuori che dentro il suo corpicino, il pelo
rosso di sangue
rappreso e ghiacciato dalla brina, mentre i suoi piccoli tentavano di
portarla
nel cortile, tirandola per le orecchie mangiucchiate.
Ma
lei rimaneva immobile, morta, fredda, e la
loro disperazione divenne anche la nostra: quella piccola macchia di
colore,
che si aggirava sempre irrequieta, tra il cemento di quel condominio,
si era
spenta come una piccola stella.
Questo
avrebbe dovuto farci presagire qualcosa.
* *
La
cantina di Itachi divenne il nostro ritrovo abituale.
Le
discussioni si accendevano come fiammelle, per poi aizzarsi e spegnersi
nel
freddo e nelle nuvolette che emettevamo respirando. I più
esaltabili rimanevano
Yahiko e Deidara, mentre Nagato e Sasori erano troppo impegnati a
fumare o a
cercare di mantenere la calma generale, per impicciarsi nelle discordie.
Io
rimanevo in disparte, eletta a giudice imparziale della situazione, a
godermi
le attenzioni di tutti: l’unica donna ammessa a quel
terribile giro.
Stavo
con le gambe incrociate su un tappeto pulcioso, di quelli di finta
fattura
indiana, coloratissimo e che mi pizzicava i palmi delle mani.
Tenevo
un libro sulle cosce, ma non riuscivo a leggerne neppure una riga,
presa come
ero dalle conversazioni dei miei amici, tanto da non accorgermi neppure
della
presenza dell’Uchica dietro di me, finché non
sentii le sue ginocchia
stringermi i fianchi.
Sentivo
il suo respiro tra i capelli, pesante, di alcool e nicotina, e le sue
mani
sulle mie spalle magre.
–
Guardali, non sono buffi? – disse, con quel suo sorriso un
po’ inquietante, che
sentivo dietro la nuca – Hanno trovato la loro strada, e per
quanto sarà
difficile e impervia, la continueranno, qualsiasi sia il costo. Noi,
invece?
Per quanto possiamo stringere il coraggio tra le dita, riusciremo mai a
finire
ciò che abbiamo iniziato? Io rimpiango la mia famiglia tutti
i giorni, eppure
la libertà mi è così cara, forse
è perché credo di stare per morire.
Mi
voltai verso di lui, i suoi occhi scuri più malinconici, non
avevo notato
quanto fosse dimagrito, quanto si fossero scavate le sue guance, quanto
le dita
gli tremassero, eppure non riuscivo a credere alle sue parole. Che cosa
si era
fumato?
–
A volte bisogna saper tornare sui propri passi, non eccedere.
– sospirò cupo,
per poi riprendere – Credo che passerò a salutare
mia madre e mio fratello, uno
di questi giorni… e anche mio padre, se mi vorrà
rivedere. Anche tu dovresti
ripensarci, fare un passo indietro. Farebbe bene ad
entrambi…
Mi
è difficile ancora adesso, riuscire a capire come fece ad
indovinare la mia
condizione, perché posò le dita sulla mia pancia
per accarezzarla dolcemente, come
poteva sapere che sotto i suoi polpastrelli, sotto la mia carne,
batteva un
altro piccolo cuore, ancora inascoltabile. Rimasi a bocca aperta,
cercando
delle parole difficili, impastandomi nella mia stessa saliva.
–
Yahiko sarà molto contento, sono felice per voi. –
continuò, per poi alzarsi e
defilarsi fino alla porta, con la scusa di andare a prendere le
sigarette: non
lo vidi più.
Rimasi
sola con i miei terribili dubbi e le mie angosce, tutti incatenati
dentro la
gabbia toracica, che sembrava voler esplodere.
Qualcuno
entrò nella stanza, portando inevitabilmente
un’ondata di freddo, come se non
ve ne fosse già abbastanza.
La
testa rossa di Sasori sbucò sotto un cappello di lana grigia
e una sciarpa
dello stesso colore, nascosta subito da quello di Deidara, che era
corso ad
abbracciarlo.
Osservavo
tutto come da dentro un flashback velato, i contorni sfocati di tutti
si
univano alle voci ovattate, e agli scricchiolii. Le labbra di Yahiko si
contrassero in un sorriso tiepido, quando il nuovo arrivato gli disse
di essere
riuscito a convincere gli altri operai della fabbrica dove lavorava, a
manifestare
con noi studenti il giorno successivo.
–
Perfetto – lo sentii pronunciare – più
siamo, più riusciremo a fare!
Intanto
tutto aveva iniziato a girare intorno a me, niente di fisso, immobile,
tutto in
un costante e irritante movimento, che mi dava la nausea.
Quasi
non vidi la mano di Sasori sostare sotto il pastrano scuro, e passare
poi una
pistola in quella morbida e gentile del ragazzo che amavo, quasi,
perché il
ricordo di quel momento è ancora fisso nella mia mente,
appiccicato con una
puntina dolorosissima.
L’atmosfera
gelò improvvisamente, la testa iniziò a battermi
all’impazzata, un
martellamento difficile da contrastare, che finì con il
farmi rigettare tutta
la cena.
“I, I can remember
standing, by the
wall.
And the guns shot
above our heads
And we kissed,
as though nothing
could fall
And the shame was on
the other side
Oh we can beat them,
forever and ever
Then we could be
Heroes,
just
for one day”
Heroes, David Bowie
Sui
tetti di Milano risuonava la melodia della pioggia, che batteva
violenta,
sempre in crescendo, quasi tentasse di perforare i cappucci calati dei
nostri
eskimo verdi e incerati.
Era
il marzo del ’68, a Roma la battaglia impazzava, e i futuri
architetti
bruciavano la Valle Giulia, con il loro coraggio e la loro
determinazione,
mentre noi rimanevamo inglobati nella nebbia umida, pronti ad emularli
in
qualsiasi momento.
Avanzammo
per le vie, stretti gli uni agli altri, fino ad aprirci a ventaglio in
Piazza
Duomo, che ci pompò come un cuore lungo delle arterie di
sasso e malta. Eravamo
una tossina, che stava infettando il sangue fumoso della nostra
città.
Non
ci avrebbe fermato nulla, non quel giorno, non con
l’adrenalina al massimo. No,
assolutamente no.
I
megafoni conducevano migliaia di persone, mai viste così
tante, noi in prima
fila, a dettare il ritmo dei passi, sotto il peso dell’acqua
e di centinaia di
responsabilità, con Deidara, che ci aveva abbandonati per
unirsi con il suo
ragazzo e la manifestazione degli operai, dietro la nostra.
Il
cielo denso, gravava su di noi come un’oscura predizione,
scuro, basso e
l’umidità ci impediva di respirare regolarmente,
ma noi continuavamo
imperterriti, con le bandiere rosse in mano.
Cantavamo
della rivoluzione, con le sciarpe a coprirci il viso fin sopra il naso,
lasciando scoperti solo gli occhi vigili, sempre attenti.
Avevamo
il mondo sotto i piedi e neanche ce ne accorgevamo, lo tenevamo in
bocca,
pronti a masticarlo e sputarlo fuori, pulito da tutte le divisioni e
tutte le
ingiustizie, un mondo dove crescere una generazione nuova, spensierata.
Pensai
alla vita, che mi cresceva dentro, pensai a Yahiko, che quella mattina
cercava
di convincermi a non scendere in piazza, a non andare con loro per le
strade,
ma non li avrei lasciati soli neppure un istante.
Nagato
di fianco a me, urlava, le labbra aperte e screpolare per il freddo, il
cappuccio, calcato sulla testa, gli spettinava la frangia lunga, che
gli
copriva gli occhi grigi intensissimi.
In
mano uno striscione, con la scritta scura: “No, alla cultura
dei padroni”.
Le
stelle che muoiono fanno un rumore strano, non si spengono lentamente,
lo fanno
di botto e quasi non te ne accorgi, finché non le conti nel
cielo e ne trovi
una in meno, ma questa non è una lezione da ripassare per il
test. È una legge
durissima, che imparai solo in seguito, in quel momento
l’unica cosa che
contava era essere lì, fare la storia.
Yahiko
si avvicinò a me con uno scatto, aveva le guance rosse per
il freddo, secche,
le avrei baciate fino a seppellirmi dentro.
Non
importava che fosse mattina presto, piovesse a dirotto, ci fossero zero
gradi,
nonostante il mese, che la sera prima non avessimo dormito per niente,
lui era
lì, e c’era veramente, con la sua presenza dura, mascolina, che mi faceva
venir voglia di
stargli attaccata tutto il tempo.
–
Sta andando tutto bene, Konan, nessun problema, neppure tra gli operai.
Neppure
tra quelli dell’MSI. Andrà tutto benissimo. Oramai
siamo al capolinea.
Aveva
ragione.
Ci
bastò un attimo per distrarci, per perdere la cognizione
dello spazio. Non ci
accorgemmo neppure di trovarci davanti alla Cattolica, che ci aveva
sbattuto
fuori.
La
guardammo, continuando a camminare malinconici, con la speranza di
riprendercela al più presto, ma non tutti erano della nostra
opinione.
Presto
l’odore della benzina e della plastica in fiamme ci
violentò le narici, poco
dietro di noi un’auto ribaltata prendeva fuoco. La polizia si
allarmò e divenne
il caos. Davanti a noi decine e decine di agenti, schierati con le
visiere
basse, i manganelli in mano, che ci avvertivano di indietreggiare.
Il
cuore iniziò a battere troppo forte, superando quasi la
soglia del dolore. Lo
sentivo pompare come mai, nonostante non fossero i nostri primi
problemi con le
forze dell’ordine, forse perché avevo qualcosa da
perdere ‘sta volta.
Yahiko,
davanti a me, faceva da muro contro qualsiasi problema, peccato non
riuscisse a
bloccare il fumo, che mi faceva girare la testa. Portai una mano al
ventre
gonfio, pieno, da salvare a qualsiasi costo.
“Andiamocene”
pensavo “scappiamo via” eppure non riuscivo a
pronunciare una sillaba, tanto
ero impegnata a trattenere i conati, i palmi delle mani graffiati
dall’asfalto,
i granelli scuri impiantati dentro alla carne.
Di
fronte a me tutto era un vortice, il cui fulcro ero io. Tutto sembrava
avvicinarsi, schiacciarmi, comprimermi, mentre Nagato mi accarezzava la
schiena, cercando di consolarmi.
–
C’è lui con
noi. Andrà tutto bene.
E,
come in una profezia, lo vidi allontanarsi, lasciarci in mezzo al
delirio, per
avvicinarsi ai poliziotti, che malmenavano uno studente. Il giovane,
raggomitolato a terra, stringeva la testa con gli avambracci, i gomiti
nudi
lividi, la schiena percossa da calci.
Vidi
dissolversi la scena come in un film: Yahiko che tentava di allontanare
gli
agenti dal ragazzo, spinte, la pistola estratta dalla tasca
dell’eskimo per
difesa, una mano più veloce, che compiva un gesto gemello,
ma premeva il
grilletto con forza.
Il
suo viso venne attraversato dalla sorpresa e dal dolore, tutto
così in fretta,
che, ne io ne Nagato, riuscimmo
a
capacitarcene in tempo.
Lo
vedemmo crollare, come un’imponente statua di marmo a cui
hanno tolto la base,
lo vedemmo a terra, e le nostre urla si fusero in un unico rantolo di
gola,
gridato al cielo.
–
Un’ambulanza! Chiamate un’ambulanza! –
disse
l’uomo in uniforme davanti al suo corpo, rendendosi conto di
quello che era
successo, ma non fece in tempo a muoversi che Nagato gli si era
scaraventato
addosso, tutta la forza della disperazione in quel gesto impetuoso.
Sopra
di noi, il cielo, aveva iniziato a rischiararsi, lasciando che la luce
del sole
filtrasse da qualche crepa della cappa di nuvole. La pioggia, intanto,
continuava a cadere fitta, dolorosissima, e si univa al sangue di
Yahiko,
creando disegni sull’asfalto, sulle nostre guance bagnate e
salate.
Gli
tenevamo le mani strette nelle nostre, ma scivolavano via. Tentavamo di
tenerlo
sveglio, supplicandolo di tenere gli occhi aperti, e noi lo guardavano
sfuggirci lentamente, morirci davanti agli occhi.
–
State bene. – soffiava via tra le labbra – Voi
state bene.
Ed
era questa la cosa importante, per lui era sempre stato così.
–Ti
amo, Konan. Nagato, ti prego, prenditi cura di loro.
Il
mondo avrebbe perso la sua stella più bella.
“Nuvole
che passano e
scaricano pioggia come sassi
e
ad ogni passo noi dimentichiamo i nostri passi,
la
strada, che noi abbiamo fatto insieme,
gettando
sulla pietra il nostro seme,
a
ucciderci a ogni notte dopo rabbia
gocce
di pioggia calde sulla sabbia.”
“Cade
la pioggia, Negramaro e Jovanotti”
–
Auguri mamma! – strilla Jiraya, mi abbraccia la vita e la
stringe possessivo.
La
cucina è un caos: il tavolino è ricoperto di
farina, gusci d’uovo e crema, il
forno emette gridolini disperati, probabilmente sta cercando di
autodistruggersi, per mantenere un briciolo di dignità.
Yahiko
si avvicina saltellando, i capelli rossi spettinati, il viso sporco e
le mani
che tremano per l’emozione.
–
Sorpresa! – grida, e se intende che dopo sei ore di ufficio
devo anche ripulire
tutto quel disastro, non posso non congratularmi per la sorpresa ben
riuscita.
Apre il frigorifero come se fosse il portale magico tra due mondi, con
il
pathos che solo lui riesce a dare in certi momenti. Dentro, sopra le
verdure e
la zuppa di farro di ieri, c’è una torta o almeno
dovrebbe esserlo.
–
Buon compleanno alla donna più bella del mondo! –
mi dice, sovrastandomi con la
sua altezza, mentre Jiraya fa spazio sul tavolo, spazzando via tutto di
fretta
e sistemando quattro piattini spaiati sulla superficie appiccicosa.
–
Sei sempre il solito stupido tu. – lo sgrido, ricordandomi
poi che non è più un
ragazzino e gli lascio un bacio sulla tempia, alzandomi sulle punte.
–
Dov’è papà? Lo ha fermato ancora quel
Naruto? Non ne ha mai abbastanza di
riunioni di condominio quello.
–
Cosa vuoi farci – sospiro – deve avere una vita
molto triste. Con la moglie che
si ritrova non mi stupirei se cercasse ogni minuto buono per starle
lontano!
Alla sua età farsi i capelli rosa!
–
Parla quella con una rosa tra i capelli come le ragazzine! –
risponde prontamente
l’altro mio figlio. Non riesco a capire da chi abbia preso,
da due persone
silenziose e riservate non può essere uscito un ragazzo
così esuberante. Ha i
miei capelli neri, gli occhi grigi di Nagato e la stessa corporatura
nervosa e
magra, unite a una vera passione per tutto ciò che
è distruggere, pasticciare o
a modo suo fare arte. Non mi stupirei se l’idea della torta
fosse sua.
Stretto
nel suo golfino panna, il cullo alto, che gli graffia il mento, ha
già tirato
fuori lo spumante migliore dalla dispensa e sistemato la sua creazione
al
centro della tavola.
Yahiko
mi culla ancora un po’ tra le sue braccia grandi e forti,
così simili alle sue, a
quelle di suo padre. A volte mi
perdo nei suoi grandi occhi, per rivederlo e riflettere i miei nei suoi
un
un’ultima volta, poi mi accorgo che sono due persone
completamente diverse.
Lui, a ventotto anni, ha un’idea tutta sua di come salvare il
mondo, nel
reparto di pediatria, a contatto con la nuova generazione da sanare.
E
non c’è nulla che possa rendermi più
fiera.
La
porta sul pianerottolo si apre e spunta un musino peloso e spaesato,
subito
dopo una valigetta scura e Nagato.
–
E questo che è? – gli chiedo, osservando un micio
che mi annusa le scarpe
impaurito. Dopo Mao, mio marito, non ha più voluto animali,
dopo Yahiko non ha
più voluto amici. E, nonostante che io cerchi continuamente
di schiodarlo dal
nostro pesante passato, lui vi rimane ancorato come un bambino
capriccioso.
Questa palla di pelo non ha nulla del nostro gatto precedente, neppure
dei suoi
cuccioli, che portammo al bar dal nostro datore di lavoro. È
rotondo e immagino
che, accovacciato, sembri proprio una piccola sfera, con un pelo folto
e
arruffato.
–
Il nostro regalo di compleanno – mi risponde con un bacio
– il nostro vicino di
casa ne ha una cucciolata e li stava vendendo.
I
miei occhi rimangono fissi sul gatto, che si avvicina timoroso e si
lascia
prendere in braccio per delle coccole. Forse riusciremo a gettare tutto
lontano, finalmente.
–
Non dimentichiamoci della torta, pà! – lo
correggono subito, costringendoci
a metterci a tavola.
–
Come potrei farlo – ride – sembra così
invitante!
Non
lo è per niente, e il sapore è persino peggiore,
eppure non riesco a non
sorridere come una bambina tutto il tempo.
Cinquanta
anni non si compiono tutti i giorni.
Ed
è da qualche giorno che provo a stendere un bilancio della
mia vita, senza,
tuttavia, aver alcun risultato. Siamo sotto la terribile ombra degli
anni zero,
qualcuno dice che non arriveremo al nuovo millennio, ma se avesse
vissuto come
me, saprebbe che si sopravvive a tutto, niente escluso.
Ho
perso tutte le persone a cui tenevo, ho fatto la guerra, o
più o meno l’abbiamo
vissuta così, eppure sono ancora qua, ancora viva, con la
mia famiglia, che
tenta di avvelenare il nuovo arrivato, offrendogli il dolce.
Si
sopravvive perché è così che funziona,
lo puoi fare per gli altri, come ha
fatto Nagato per me e il figlio del suo migliore amico, o
perché si è troppo
ancorati alla vita per lasciarsi andare.
Forse,
il risultato di tutto, è che sono solo una persona egoista,
fino al midollo
aggiungerei. Ed è per egoismo che chiuderei la mia famiglia
sotto una bolla di
vetro, con tanto di neve finta: per proteggere me stessa da altro
dolore. Ma se
sono riuscita a sopportare tutto, significa che il dolore è
accettabile.
Da
quando non c’è più Yahiko, io,
sopravvivo. Però lo faccio nel modo migliore
possibile.
Anche
Nagato ha tentennato i primi tempi, atteggiarsi a guida di un gatto
è più
difficile che farlo con una ragazza incinta e impaurita, ma adesso
è il padre
perfetto per i nostri figli.
A
volte ripensiamo insieme al passato, con quella nota di malinconia, che
perdura
nelle nostre conversazioni, ma riavvolgendo la pellicola di un vecchio
film si
rovina, per questo ripassiamo sulla sua
tomba, lasciando un fiore. La foto in bianco e nero ci sorride, sulla
lapide di
pietra chiara, ci saluta e sembra dirci: “Siate felici, vi ho
amato da morire.”
Passiamo
vicino anche a quella di Itachi, su cui ho visto suo fratello minore,
così
simile a lui, lavare il vetro dell’istantanea con le lacrime,
e su quelle di
Sasori e Deidara, vicinissime, scure e vuote: nessuno porterebbe mai
fiori a
dei terroristi, morti nel loro stesso attentato durante gli anni di
piombo.
Noi, invece, lo facciamo spesso, per ricordarci che non eravamo soli.
Che
eravamo solo bellissime stelle, esplose troppo presto, che il cielo di
Milano,
la notte, è illuminato solo da lampioni e fari.
Prendo
la mano di Nagato, dall’altra parte del tavolo, e sfioro con
le dita la fede
nuziale liscia e freddissima.
Ha mantenuto la parola data, ora tocca a me amarlo con tutta me stessa.