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Autore: copy bryan    19/11/2004    2 recensioni
Un ragazzo come tanti, scaraventato nella fosca Europa del dominio nazista. Insieme a compagni vecchi e nuovi, si troverà a combattere per la dignità dei popoli liberi.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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THUNDERBOLT DOWN

 

CAPITOLO PRIMO

 

CIELI SOPRA LINZ, AUSTRIA OCCIDENTALE

21 NOVEMBRE 1943, ORE 22.30

 

-Oh, merda- fu questo il primo raggelante pensiero che colse Donald Rogaver, 19 anni, aviatore fresco fresco d'accademia dell’U.S.A.A.F., mentre osservava le prime ferite da piombo tedesco che un Me 109 aveva inferto al suo Republic P 47 D "ThunderBolt". I fori erano pochi, e non avevano colpito nessuna parte "vitale" del velivolo; per di più i ThunderBolt erano caccia universalmente stimati per la loro solidità, robustezza, e capacità di incassare i colpi e riportare la pelle (la loro e quella di chi li governava), a casa, anche nelle situazioni più estreme.

Sovente, durante le ultime fasi di addestramento a Bushy Park, aveva ascoltato, come tutte le altre matricole, i racconti dei piloti anziani, che, in un miscuglio di fatti veri, verosimili e totalmente inventati, li impressionavano con storie di combattimenti 1 contro 5, bombardamenti millimetrici, ammaraggi al chiaro di luna, atterraggi con la fusoliera in fiamme, con un'ala o, (perché no), con entrambe le ali distrutte. Lui però, puro spirito pragmatico da figlio di dottore, aveva sempre diffidato dal tener fede a certe  storie, declassandole a sbruffonate. Eppure, 5 ore prima, al decollo per la sua prima missione sui cieli nazisti, si era scoperto, madido di sudore e con lo stomaco serrato dalla tensione, a sperare vivamente che quelle storie fossero vere, pur non avendo nessuna voglia di dimostrarne personalmente l' attendibilità.

Il primo piombo, perciò, lasciò pressoché incolume il velivolo americano, che continuò a sfogare nel cielo il proprio minaccioso rombo, frutto di un potente motore P&W da 2.300 cavalli.

Ma se i danni fisici erano irrilevanti, il trauma mentale fu duro: la sua prima battaglia, il suo primo nemico, le sue prime ferite.

Per un lungo, interminabile secondo Donald smise di respirare; smise di pensare. La paura si era impadronita di lui, ed era la paura vera, la paura istintiva ed ancestrale di ogni creatura che teme per la propria vita; non la paura di un brutto voto, non il timore di una punizione o di un rimprovero, ma il sacro terrore di morire.

Gli anziani lo avevano avvertito che solo in quel momento sarebbe stato svezzato alla guerra, che solo in quell'attimo, e non alla fine del corso piloti, si sarebbe trasformato da mediocre adolescente brufoloso dell'Indiana in soldato e uomo. Loro la chiamavano "prova del fuoco".

Li avevano anche avvertiti -Vi cacherete letteralmente nei calzoni-gli avevano detto, a metà tra la paternale e la presa per il culo -dimenticherete chi siete e dove andate, e comincerete a chiamare mamma. Vi chiederete che cosa fate, e in un attimo rivedrete tutta la vostra patetica vita, come in un film.- Poi però, visti gli sguardi preoccupati, avevano alzato il tiro -Ma non vi preoccupate. Durerà solo qualche secondo, e quando sarà finito comincerete a far ingoiare merda ai crucchi bastardi come vi hanno insegnato-.

-La mia vita in un film- aveva pensato ironico Donald -che paura!, rischierei di addormentarmi per la noia e di sbattere il muso contro qualche campanile bavarese.- Credeva di conoscersi troppo bene, per concedersi anche un attimo di esitazione.

Eppure, in quel momento, mentre un Focke Wulf con la svastica saettava rombante intorno alle sue prede, lui, basito ed in preda ai brividi, rivedeva attimo per attimo la propria esistenza; come in un film.

 

 

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Donald Rogaver era nato nel 1924 a Gary, nell' Indiana, turbolenta e freddolosa città americana di 150.000 anime, affacciata sul Lago Superiore. La madre di Donald era morta quando lui aveva solo pochi mesi per una malattia cardiaca, e lui e il fratello maggiore erano stati allevati esclusivamente dal padre, che aveva trasformato il dolore per la scomparsa dell'amata moglie in affetto per i figli.

Strano tipo suo padre; Joseph Rogaver, freddo e impassibile primario del locale ospedale, padre premuroso ed affettuoso. Era uno dei membri più rispettato della comunità; parlava poco in pubblico suo padre, e mai a sproposito, ma quando lo faceva il taglio clinico e oculato da dottore delle sue parole lasciava il segno. Malgrado ciò era un uomo ordinario: 55 anni ben portati, altezza nella media, corporatura da mezza età, occhi castani e capelli scuri (quest' ultimi ormai insidiati dalla calvizie). Con la sua faccia pulita e la sua barba curata Joseph Rogaver sembrava il tipico borghese americano, lui che americano non era. Nato alla fine del secolo precedente a Horn, in Svizzera, Joseph proveniva da un'antica famiglia di dottori. Sebbene avesse la medicina nel sangue, il giovane, all'epoca una testa calda, si era dimostrato insofferente all' ambiente chiuso del cantone elvetico,-una topaia di montagna, l'aveva definita lui- ed aveva accettato senza remore l'invito dei suoi parenti americani di trasferirsi a Gary, con l'opportunità di studiare nella prestigiosa università di Chicago. In America, dopo la laurea, il dottore aveva conosciuto Mary, una timida infermiera di provincia. Il loro era un amore sbocciato tra le corsie, tra una cena a lume di candela e una gastroscopia, tra un appuntamento al cinema ed un'emergenza chirurgica.

Il giovane Joseph era presto diventato un medico apprezzato, grazie allo scrupolo ed alla dedizione mostrata per i suoi pazienti, e i due innamorati stavano progettando di sposarsi.

Poi era arrivata la guerra.

Suo padre, un ragazzo di solidi principi, aveva deciso di arruolarsi volontario già nel 15, malgrado gli scongiuri di Mary. Perché combattere?, diceva lei: ne la Svizzera ne l'America erano in guerra. E poi la famiglia di Joseph era di lontana origine tedesca, e lui proveniva dalla Svizzera tedesca, perciò come poteva combattere contro quelli che in un certo senso erano suoi connazionali?

Ma non ci fu niente da fare: il giovane medico era fermamente intenzionato a partecipare a quella che, a suoi occhi, sarebbe stata una crociata contro le tirannie oppressive e dispotiche del vecchio mondo. Per lui, la guerra contro il popolo tedesco era anche una guerra "per" il popolo tedesco.

Naturalmente, essendo portato più a salvare le vite che a spegnerle, aveva chiesto ed ottenuto di entrare nel corpo paramedico, pur conscio che, all'occorrenza, avrebbe dovuto sparare anche lui.

Era partito lasciando l'amata con le lacrime agli occhi e la promessa di un futuro felice matrimonio. Aveva affrontato stoicamente tre lunghi anni nel freddo e nel fango delle trincee francesi, ricredendosi in gran parte sull'eroicità di quella guerra.

Come faceva a dire al suo compagno di branda che presto sarebbe andato con lui in licenza per conoscere sua sorella. Come faceva a dirglielo mentre cercava di raccogliere i suoi intestini che non avevano intenzione di tornare dentro il suo corpo, mentre riduceva tutto ad una palla di neve, sangue e carne che nemmeno le sue lacrime riuscivano a scaldare.

Era anche stato ferito due volte, suo padre, per fortuna sempre in modo lieve, una volta mentre curava un commilitone inglese in fin di vita, azione che gli era valsa una medaglia al valore -o almeno così si diceva, visto che non si era mai curato di andare a ritirare quella "patacca di ottone".

Intanto, dall'altra parte dell'Atlantico, la malattia di cui Mary soffriva fin da piccola si era acuita, a causa della solitudine e della preoccupazione per l'amato. Per fortuna, il ritorno di Joseph e il loro matrimonio aveva temporaneamente migliorato la sua salute, permettendole di mettere al mondo dei figli, e vivere un periodo breve ma felice. Ma poi, dopo il secondo parto, le sue condizioni si erano aggravate e malgrado le cure e le attenzioni del marito, se n'era andata, lasciando il marito solo col suo dolore e due bambini: Michael e Donald.

 

 

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Donald aveva un fratello, Michael J., di tre anni più grande. Michael non aveva sofferto nell'infanzia la mancanza della madre, come Donald, ed era cresciuto perciò come un ragazzo solare ed espansivo. Ragazzo buono ed intelligente, sembrava capace di fare qualsiasi cosa valesse la pena essere fatta. Ottimo studente dalle elementari all'università, provetto suonatore di chitarra, capitano della squadra di nuoto alle medie e di quella di football al liceo, Michael era stato ammirato ed applaudito prima dai parenti, poi dagli amici, infine dalle ragazze, che si dicesse facessero la fila fuori dalla sua porta. Malgrado ciò Michael non sembrava darsi arie di importanza, rimaneva un ragazzo semplice, spontaneo e buono con tutti, specialmente col fratello.

Inutile dire che verso di lui Donald provava un complicato rapporto di amore/odio. Donald era cresciuto senza una madre, ed aveva finito per riversare tutto il suo bisogno di affetto sul padre, che cercava di compiacere in tutti i modi, e per questo aveva sempre sofferto il confronto col fratello, che lui vedeva distortamente come il preferito del padre. Era perciò cresciuto con un carattere più cupo, schivo, cinico e calcolatore, che gli aveva fatto guadagnare la nomea di "lupo solitario". Donald infatti non aveva amici, non li aveva mai avuti, in quanto viveva con la paura dell' onnipresente ombra del parente, col timore che la gente stesse con lui solo per avvicinarsi al fratello.

Il suo incubo più ossessivo era quello in cui vedeva il proprio funerale, di cui erano partecipi solo uno sparuto gruppo di parenti. La sua bara veniva calata nella fossa, ed istantaneamente sulla terra fresca sorgeva una grigia lapide:

QUI GIACE IL FRATELLO STUPIDO

DI MICHAEL ROGAVER

Al che Donald si svegliava in preda agli spasmi.

E sì che lui non era stupido; era un buon studente (ma non eccellente come Michael, pensava Donald), era un ottimo battitore di baseball (ma non il capitano come Michael, rifletteva Donald). Per questo viveva un continuo complesso d'inferiorità, e si sentiva avvolto in un aura di mediocrità dovunque andasse e con chiunque fosse.

Malgrado ciò si sentiva meschino e colpevole ad odiare Michael, che sosteneva e consigliava quel fratello così pieno di problemi, di cui non immaginava di esserne il principale.

Anzi, Donald sentiva di provare ammirazione e orgoglio per quel fratello che lui cercava di superare in tutti i campi...fallendo miseramente, a suo giudizio.

Così era andata avanti la vita della famiglia Rogaver. In seguito, dopo il liceo, Michael, seguendo la sua indole idealista, aveva intrapreso gli studi di legge, deludendo sensibilmente il padre, che già lo immaginava medico affermato. A quel punto, Donald aveva deciso di diventare medico, professione per cui si sentiva particolarmente dotato, in modo da continuare la tradizione di famiglia e ingraziarsi il padre.

Poi, ancora una volta, era arrivata la guerra.

Michael aveva deciso di imbarcarsi per l'Inghilterra già nel '40, dopo l'invasione nazista della Francia.

Ancora una volta Donald aveva malignamente sospettato che il fratello volesse solo mettersi in mostra, ma ancora una volta era stato costretto dalla limpidezza del fratello a vergognarsi delle sue illazioni. Michael riteneva di dover partire per un dovere morale, non credeva fosse giusto che gli Americani continuassero a fottersi solo dei propri interessi, mentre il mondo civilizzato era messo a ferro e fuoco da un dittatore con la faccia da topo.

Tuttavia questa volta il padre, memore delle proprie terribili esperienze, aveva riportato, anzi imposto la ragione al figlio.

Ma dopo Pearl Harbor, con l'entrata in guerra e l'arrivo della leva obbligatoria, anche Michael era partito. In realtà il ragazzo, essendo uno studente universitario avrebbe potuto rinviare o saltare la leva, ma Michael aveva esplicitamente detto al padre che non sarebbe rimasto a poltrire in quel buco mentre milioni di giovani come lui partivano per combattere, e per morire, per dei giusti ideali. Joseph aveva riconosciuto in quel figlio il ragazzo idealista che era stato da giovane, e aveva infine accettato, se pur a malincuore, la partenza di Michael, consapevole che un suo rifiuto non l'avrebbe fermato.

Michael era partito per il fronte del Pacifico nel Dicembre del '42.

 

 

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Per Donald questo era stato troppo. A questo punto il rancore e l'ammirazione per il fratello erano esplosi, e il giovane aveva preso l'irrevocabile decisione d' arruolarsi anche lui, per dimostrare agli altri, ma sopratutto a se stesso, quello di cui era capace.

A nulla erano valsi gli scongiuri del padre, che non voleva veder partire verso il pericolo anche il suo ultimo figlio.

Donald aveva subito scelto l'aviazione, anche per i bassi limiti d'età richiesti, ma sopratutto per una sua passione da sempre coltivata nei confronti del volo e degli aeroplani.

All' inizio del '43 si era arruolato come pilota di caccia, e dopo 6 mesi aveva preso il brevetto di aviatore, classificandosi nelle prove come il 2° miglior cadetto della 9° brigata aerea dell' U.S.A.A.F. (risultato che a Donald era parso l'ennesimo fallimento). Finito l'addestramento il contingente era stato mandato in Inghilterra, col compito di dar man forte alla R.A.F. nell' opera di sistematica distruzione dell' apparato bellico e industriale della Germania.

Dopo soli tre giorni dal loro arrivo il contingente aveva ricevuto la notizia della loro prima missione. D' altronde il Comando Aereo non poteva permettersi molti scrupoli verso le ultime leve. La Lutwaffe tedesca perdeva gradualmente colpi, ma sembrava chiaramente intenzionata a non lasciare il predominio dei cieli europei ai primi arrivati, specie ora che in ballo c'era il futuro del Reich. Per non parlare poi della terribile contraerea tedesca, capace, se azionata in tempo, di fare scempio di intere squadriglie aeree.

Era ancora vivo nel comando il ricordo della spedizione del 14 ottobre, quando 291 B17, le famose "Fortezze Volanti", avevano attaccato la città di Schweinfurt, massimo centro di produzione dei cuscinetti a sfera usati per costruire cannoni, aeroplani, e carri armati.  Allora l' aviazione americana non disponeva ancora di caccia a lunga autonomia che accompagnassero e proteggessero i bombardieri nei lunghi voli d'attacco; la scorta dei caccia veniva effettuata solo per un certo tratto, dopo di che i quadrimotori restavano soli e dovevano proseguire sino all'obbiettivo facendo affidamento solo sulle armi di bordo, drasticamente insufficienti a contenere gli attacchi della Lutwaffe, mentre nel contempo si tentava di scampare al fuoco dell'artiglieria.

Quello, per l' U.S.A.A.F., fu il "Black Thursday", il giovedì nero. I tedeschi persero 35 caccia, ma dei 291 bombardieri partiti, 60 non fecero ritorno. Erano morti 1.500 aviatori americani: aviatori ormai addestrati, che sarebbe stato faticoso sostituire.

Ed ora era il turno di Donald.

 

 

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Obbiettivo della missione: distruggere la fabbrica di granate di Linz. Donald non ricordava una città tedesca con questo nome. Ed infatti non s'ingannava; fu loro spiegato che Linz era una città dell' Austria occidentale, sede di numerosi impianti siderurgici.

Ciò -rifletté Donald-  significava che il comando cercava, se non altro, di bilanciare la loro mancanza di esperienza con un obbiettivo meno protetto e più abbordabile. Donal non accolse questo fatto come un sollievo, come gli altri, ma lo visse con un miscuglio di emozioni contrastanti: da una parte si sentiva deluso da quella che sembrava prospettarsi come una missione di second'ordine, che magari non gli avrebbe permesso di dimostrare le sue potenzialità, dall'altra si sentiva sollevato. Un pò ci teneva anche lui a vivere.

Alla missione avrebbero partecipato 35 B17 e 25 caccia. Suo compito sarebbe stato quello di scortare i B17, gli enormi bombardieri di 22 metri che, col loro letale carico di 3 tonnellate di bombe, avrebbero dovuto far piovere la morte sui cieli tedeschi.

Prima della partenza, essendo il loro primo volo, il Generale Alexander Nestimar fece alla squadriglia un breve ma concitato discorso. Donald osservava con orgoglio quell' uomo dal volto duro e dai modi spicci, che, come lui, amava dire le cose come stavano in maniera diretta, senza rispetto per i gradi e le gerarchie.

-Ragazzi -disse- non dovete credere che questa missione non sia importante: lo è; è importante la missione, siete importanti voi, è importante il vostro compito che, è inutile che ve lo ripeta, è assicurare agli alleati il controllo dei cieli europei. E, perché lo sappiate, i cieli europei sono solo la prima tappa di quella simpatica scompagnata che ci porterà direttamente a Berlino, a mangiare rosbif al Reichstag.

Conoscete la missione, non è molto impegnativa. Ma non pensate che i crucchi ce la lasceranno filare liscia solo perché siamo fuori dal loro territorio nazionale, perché, a sentire quelli, tutto il mondo è loro territorio nazionale. Ogni uno ha avuto dei lutti e dei caduti in questa guerra, ed arriverà il tempo in cui anche il 9° stormo aereo dell' U.S.A.A.F. dovrà ingoiare la propria dose standard di merda. Ci potete scommettere.-

Ci fu una lunga pausa carica di tensione, durante il quale il maggiore sembrò scrutare uno per uno il volto di quei giovani che mandava a combattere, magari a morire.

Poi concluse -E tutto. Potete andare. E che Dio sia con voi. Ne avrete bisogno.-

Galvanizzati dal discorso del Maggiore, tutti gli aviatori si diressero elettrizzati verso i propri apparecchi. Tra questi c'era Donald Rogaver, 19 anni, di Gary, nell' Indiana, che in quel pomeriggio terso del Lincolnshire decollava verso il suo destino.

 

 

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Alle 5.00 la squadriglia aerea sorvolò le coste della Normandia. Non incontrò problemi, ma poté identificare in vari buncher sparsi sulle spiagge numerosi "Freya", occhi di gatto, potenti radar tedeschi deputati a sorvegliare i cieli europei e individuare eventuali velivoli nemici. Durante il passaggio, uno dei caccia bombardò l'area con migliaia di striscioline di carta stagnola. Questo efficace trucco, nome in codice "Window, finestra", era stato elaborato 4 mesi prima da fantasiosi tecnici inglesi, col fine di accecare gli occhi nazisti.

Il sistema era stato usato per la prima volta il 27 Luglio. A credere al vetro smerigliato collocato nella base tedesca di Stade, e raffigurante i cieli teutonici, quella notte, un' enorme armada di 11.000 apparecchi si era diretta in Germania. A causa della sorpresa la caccia notturna non aveva potuto decollare, e le artiglierie erano state lasciate anch'esse prive di guida. Così 722 bombardieri avevano sorvolato, praticamente indisturbati, la città di Amburgo, vomitandogli addosso tonnellate di bombe esplosive e incendiarie, che avevano raso al suolo mezza città e mietuto 50.000 vittime. Mai, nei suoi sette secoli di storia, la città anseatica aveva vissuto un simile orrore.

Ma dopo il trauma i tedeschi si erano presto ripresi, elaborando una fitta rete di radar minori sparsi nel territorio difficili da individuare ed "accecare".

Intanto la squadriglia di Donald procedeva verso l'obbiettivo. I caccia procedevano in due formazioni a "V", simili a quelle assunte dalle oche canadesi che Donald osservava estasiato trasmigrare verso sud da piccolo. Tra le due "V" volavano le Fortezze Volanti, secondo il classico schema detto "box", scatola, che prevedeva la formazione di un vero quadrato di bombardieri, in modo che questi potessero difendersi sfogando al meglio le loro 13 mitragliatrici. Questo se non altro contribuiva a dar sicurezza a un equipaggio eterogeneo ed inesperto; dei 170 aviatori in volo in quel momento, uno per ogni caccia, quattro per ogni bombardiere, solo una quarantina aveva avuto qualche esperienza di volo.

Alle 22.25 la squadriglia aerea sorvolava Wels, trenta km a sud-ovest di Linz.

Alle 22.35 la squadriglia avrebbe cessato di esistere.

 

 

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Donald non avrebbe mai più dimenticato quella notte. Malgrado la tensione, gli era sembrato tutto tranquillo, quando all' improvviso decine di riflettori avevano illuminato la sua formazioni. Subito un micidiale fuoco d'artiglieria li aveva iniziati a bersagliare e dal buio delle nuvole sopra di loro, come i cavalieri dell' apocalisse di cui si sentiva parlare in chiesa, erano calati sciami di apparecchi nemici. Si trattava di una tattica inventata dal Major della Lutwaffe Hajo Herrmann, detta in codice "Wilde Sau, cinghiale selvatico": i Me109 e i Fw190, partendo su allarme, si portavano sopra la zona di passaggio delle macchine nemiche, di modo che la luce degli incendi e dei riflettori della Flack ne stagliassero le sagome, e contro queste e in mezzo a queste, incuranti del pericolo d' essere colpiti dalla propria contraerea, i caccia notturni si buttavano appunto, come tanti cinghiali inferociti. Sarebbero stati i degni rivali dei kamikaze giapponese.

Subito i teutonici avevano iniziato a disfarsi dei bombardieri, incuneandosi nel "box", cercando nel contempo di tenere a bada i caccia.

Donald era stato subito "adocchiato" da un Messerschmitt, che gli aveva sparato una raffica dalla proibitiva distanza di 60 m, prima di mettersi al suo inseguimento. Il ThunderBolt se l'era cavata con poco o niente, ma tanto era bastato per scioccare il pilota, che aveva rivissuto in un flash la sua breve vita.

Subito ripresosi, le aveva provate tutte per sganciarsi dalla coda la "Rondine", come i tedeschi chiamavano il loro velivolo, ma malgrado ascensioni veloci subito seguite da picchiate a bassa quota e virate strettissime, non aveva ottenuto risultati. Il Me109 continuava a tallonarlo da vicino. Quello con cui aveva a che fare era un pilota esperto, veterano di molti scontri, che probabilmente tre anni prima aveva volato sui cieli d'Inghilterra. Per di più il Messerschmitt, coi suoi 1.150 cavalli e i suoi 590 km di velocità massima, era il vanto della tecnologia tedesca, la migliore arma aerea da usare su quei cieli, la peggiore da subire.

Donald aveva giocato il tutto per tutto, eseguendo un perfetto giro della morte, sperando di ritrovarsi di colpo in coda al nemico; ma niente. Il tedesco aveva effettuato una manovra identica, che gli aveva permesso di tornare nell'esatta posizione di partenza. Ormai l'aereo era a distanza da colpo sicuro, e Donald aveva finito tutte le manovre diversive o di sganciamento del suo repertorio. La paura, quella paura che aveva tanto irriso, era tornata ad impadronirsi di lui, e ora abbatterlo sarebbe stato facile come sparare ad un piccione.

Donald volava ormai in linea retta, stanco e rassegnato alla sua inutilità, al suo fallimento.

Immaginava le azioni del suo nemico che si metteva in linea con lui, lo inquadrava nel mirino, gridava -Footbar, John-, e in quel momento premeva il grilletto.

 

 

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Quando ormai Donald si preparava alla morte (perché di buttarsi col paracadute, senza aver abbattuto neanche un nemico, non se ne parlava) ecco un forte, assordante clangore metallico alle sue spalle. Si guardo alle spalle e si accorse esterrefatto di un altro Thunderbold che, benché inseguito da ben due Focke Wulf, aveva avuto il coraggio di sparare due precise raffiche verso l'inseguitore di Donald, che ora perdeva visibilmente quota e cominciava a precipitare.

Donald identificò subito il pilota del velivolo dalla cubitale scritta "I'm the best", scritta coi colori della "Stars & Strips", che gli campeggiava sul dorso; si trattava di Luke I. Mogulof, il giovane aviatore anch'egli 19enne che si era qualificato primo nelle prove del corso piloti. Si diceva che Mogulof fosse figlio di immigrati russi, e che la sua infanzia fosse stata difficile quanto le relazioni del tempo tra la sua vecchia patria e la nuova. Ma con l'entrata in guerra da alleati delle due potenza, Luke aveva potuto finalmente arruolarsi nell' esercito, con la ferrea volontà a dimostrare a quel paese tutto il suo valore. Il ragazzo non era biondo come la maggior parte dei russi della steppa, ma era il classico caucasico con occhi castani e folti ricci neri, simili a quelli dei neri dell'Alabama. Lukof, com'era chiamato sprezzantemente dai suoi molti nemici, aveva un carattere opposto a quello di Donald: era sempre ironico, cinico, e offensivo nei confronti degli altri, come se sentisse il bisogno di proteggersi dalla cattiveria degli altri manifestando la propria. Aveva una lingua affilata come una baionetta, una predisposizione innata per la rissa, e un totale disprezzo per l'autorità. Quando in sala mensa scoppiava una zuffa, l'80% delle volte era il caucasico ad averla provocata; solo la sua destrezza in volo, e il cronico bisogno di aviatori da caccia, avevano impedito al Comando di sbatterlo fuori a calci in culo.

Con Donald, poi, i rapporti non erano certo migliori: accortosi che quell' insignificante ragazzino sarebbe stato il suo principale avversario, Luke non aveva fatto altro che tormentarlo per tre lunghi mesi. Ma il ragazzo dell'Indiana, per nulla intenzionato a mettersi nei guai, inizialmente si era limitato ad ignorarlo. Ma dopo che gli insulti e le provocazioni si erano fatti più duri ed espliciti, Donald era stato costretto ad accettare la sfida. Si erano appartati in un cortile, e ne era seguito uno scontro dal quale erano usciti entrambi malconci. Fortunatamente, visto che dopo un pò i due erano erano stati scoperti e divisi, se l'erano cavata con pochi lividi e contusioni (nonché un occhio nero per uno), oltre ad una sonora nota di biasimo. Malgrado la sfida fosse finita pari, non vi fu un seguito, perché lo stesso Maggiore Alexander Nestimar si scomodo per dare al caucasico un duro ultimatum, davanti al quale anche il cocciuto Luke dovette abbassare la testa. Dopo il fatto, Donald era cresciuto molto nella stima di Luke, che ora lo considerava non più un moscerino da schiacciare, ma un rivale da rispettare.

Comunque i due non si erano più parlati, malgrado spesso Mogulof, in occasione dei suoi trionfi in volo o nelle prove, mandava sarcastici sorrisini al rivale, che malgrado la facciata impassibile, ardeva dallo sconforto e dalla rabbia.

Ed anche adesso, in mezzo all'infuriare della battaglia,  il caucasico gli sfrecciava vicino con totale noncuranza, mentre i suoi due nemici continuavano a tallonarlo ignorando totalmente l'altro poco pericolo velivolo. Benchè fosse stato nel suo raggio visivo solo per un decimo di secondo, Donald era sicuro di aver letto sul volto da imbecille del rivale un sorrisetto ironico, che pareva voler dire

 -Mi aspettavo di meglio da te, piccolo finocchio-.

Era l'ultima goccia.

 

 

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-Passi la rissa in cortile, passi la nota di biasimo, passi l'ignobile secondo posto al corso piloti -pensava Donald- ma farmi salvare la vita da quel coglione, no!, questo è troppo. Donald non poteva capacitarsi di essere stato salvato dalle grinfie del nemico proprio dal suo peggior rivale. Che cosa ne avrebbe pensato suo fratello Michael, lui che adesso, nella fantasia di Donald, andava sfrecciando fra le mitragliatrici giapponesi a Tarawa, lottava all'arma bianca ad Abemana, conquistava da solo l'isola di Saidor.

Di colpo Donald dimenticò tensione e paura, e cominciò a ribollire di rabbia, rabbia, tanta rabbia.

Mentre già un terzo della forza aerea era stata annientata, Donal Rogaver iniziava solo adesso la sua battaglia.

Donal individuò un Focke Wulf che stava attaccando un bombardiere, e decise che lo avrebbe abbattuto, o sarebbe morto tentando di farlo.

Il Focke Wulf era un buon apparecchio, ma comunque inferiore ad un Messerschmitt o ad un Thunderbolt, e il suo pilota era chiaramente un novellino, che per giunta, scommise Donald, non era arrivato secondo al proprio corso piloti. Prova ne erano i grossolani tentativi di sganciamento del Fw, che alternava virate troppo strette a sganciamenti banali e mal riusciti. Quando si fu stancato di quella pessima esibizione acrobatica, Donald fece tuonare tutte le sue otto mitragliatrici Browning, che ridussero l'altro veicolo ad un colabrodo.

Proprio mentre il cadetto si compiaceva del suo primo abbattimento, ecco Mogulof eludere uno dei suoi inseguitori e colpirlo con una precisa raffica sull' abitacolo. E due!

-Se non voglio essere battuto da quello stronzo, -pensò Donald-, bisogna che mi dia da fare.

Ma mentre scrutava indeciso il cielo in cerca del suo prossimo rivale, era stato il rivale stesso a scegliere lui.

Un Me 109, sperando nella sorpresa, si era portato alle sue spalle ed aveva aperto il fuoco. Donald, accortosene in tempo, aveva evitato con perizia il grosso delle raffiche, riportando danni marginali. A questo punto, per nulla intenzionato a fare da preda, l' americano si era prima fatto seguire per un certo tratto,  poi aveva fatto una stretta virata e un brusco rallentamento, ritrovandosi così lui alle spalle del nemico. Ma il tedesco, anch'egli molto abile, aveva evitato di cercare di riportarsi subito in coda, e, zizzagando per non farsi colpire dalle raffiche di mitra, aveva spinto al massimo la sua macchina, conscio della sua maggiore disponibilità di carburante.

Donald aveva inizialmente pensato di lasciar scappare il nemico, in quanto raggiungerlo sarebbe costato troppo carburante e munizioni. Tuttavia, constatata la pericolosità del tedesco, aveva reputato opportuno abbatterlo per non lasciare la patata bollente in mano a qualche altro pilota meno abile di lui. Ragionava come se la battaglia fosse appena iniziata e ancora aperta, e non capiva che lo scontro era già perso, era perso in partenza.

Accelerò anche lui, per riprendersi un pò dal distacco, poi cominciò a far tuonare tutte le sue bocche da fuoco verso il lontano obbiettivo, sperando di colpirlo.

Ebbe fortuna.

Un proiettile tra i 100 e più sparati alla rinfusa beccò il vettore della coda del Me, che cominciò a rallentare vistosamente. Per l'inseguitore fu facile raggiungerlo con una raffica ben piazzata.

Ora anche lui aveva all’attivo due nemici abbattuti. Intanto Luke, che cominciava a dare segni di stanchezza, era tallonato nuovamente da due velivoli, l’ostinato Fw che lo inseguiva dall' inizio dello scontro, e un Me appena sopraggiunto. L'aereo del russo, colpito più volte, cominciava a mancare nelle prestazioni.

 

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Mentre Donald sorteggiava la sua prossima vittima, un sinistro sibilo si era insinuato nel suo orecchio. Questo sibilo, in pochi attimi, si era trasformato da un tono acuto appena percepibile, in uno scoppio di immane fragore. Donald, per lo schianto, aveva sbattuto la testa contro la cloche, perdendo i sensi per qualche istante. Ripresosi dal colpo di frusta, aveva capito che una granata era esplosa circa 2 metri sotto il velivolo, sventrando un ala, di cui ora si intravedeva il telaio, ed incendiando la parte inferiore della fusoliera. Solo allora si era ricordato delle batterie che li bersagliavano da terra; prima d'allora, preso prima dal terrore del suo inseguitore, poi dalla foga della battaglia, si era totalmente dimenticato dell' antiaerea.

E, a quanto pare, se n'era ricordato troppo tardi;

Donald capì subito che per il suo amato ThundeBolt non c'era più niente da fare. Presto l' ala spazzata lo avrebbe fatto andare in stallo e precipitare.

Non c'era tempo da perdere. Fece come gli era stato insegnato: guardò giù dall' oblò ed individuò il centro abitato sotto di lui come la cittadina di Wels, ad una trentina di km da Linz; per alleggerirsi sganciò il suo unico ordigno, una bomba da 227 chili. Nel buio della notte non vide dov'è andò a finire. Sperò di non aver colpito abitazioni; non era lì per uccidere civili indifesi. Quindi, indisturbato, utilizzando gli ultimi istanti di manovrabilità del velivolo, si diresse verso un boschetto a ovest del paese, e, dopo l'ultimo saluto al suo ormai ingovernabile ma affezionato velivolo, si lanciò.

 

 

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Mentre scendeva verso una fitta boscaglia di pini e abeti, Donald ebbe modo di assistere da spettatore alla fine di quella battaglia, di quella disfatta. La sua squadriglia era stata presto soverchiata da forze ingenti e di prim'ordine, peraltro appoggiate dall'artiglieria.

Ed anche se fra i suoi si erano visti numerosi atti di eroismo, la battaglia si era presto conclusa in una carneficina. Dei 65 velivoli in volo 10 minuti prima, un cinquantina (compreso lui) erano stati abbattuti, mentre un'altra decina di velivoli malconci facevano rotta verso casa. Donald dubitava che vi sarebbero arrivati.

Tra quelli ancora in cielo c'era Luke, che si batteva come un leone malgrado l'evidente stanchezza e i danni del suo aereo. Il suo ThunderBolt era ormai fumante, ed intorno ad esso, come tanti sciacalli intorno ad una carcassa, si muovevano 4 o 5 nemici. Infine un'ultima scarica al dorso mise fine all'agonia della macchina.

Malgrado l'aereo stesse precipitando velocemente, emettendo il suo tipico sibilo, Donald era convinto che il pilota non fosse ne morto ne ferito; sia perché nessun colpo aveva colpito l' abitacolo, sia perché le carogne come quelle erano dure da morire. Luke si sarebbe probabilmente gettato all'ultimo, sperando di non essere individuato. Tuttavia il caucasico era stato perennemente impegnato in battaglia, e non aveva potuto scegliere dove dirigersi. Sarebbe finito in pieno centro abitato, e di sicuro sarebbe stato catturato.

Mentre penetrava nel verde del fogliame, Donald ebbe un piccolo moto di pietà per quel suo rivale, a cui, in qualche seppur contorto modo, si sentiva legato.

Sussurrò -Buona fortuna, figlio di puttana.-

 

 

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Attraversò la chioma di fitti abeti, soffrendo per le punture degli aghi. Il paracadute si impigliò nei grossi rami contorti, facendo penzolare l'aviatore a più di 4 metri d'altezza. Questi, estratto il suo coltello svizzero, strumento in dotazione a tutti i piloti, tagliò una ad una le funi, e si aggrappò all'albero. Quindi, memore delle arrampicate fatte da piccolo, durante le vacanze estive, nelle foreste di Niles, in Canada, Donald discese rapidamente. Era ora di fare il punto della situazione.

Innanzitutto, con la sua solita scientifica obiettività, Donald constatò di non essere ferito in alcun modo. D'altronde sapeva che spesso, nella foga della battaglia, l'adrenalina faceva ignorare o dimenticare ai soldati le lesioni meno gravi.

Constatata la sua buona salute, il ragazzo cominciò a riflettere sulla sua annosa situazione; si trovava a 8.000 km da casa, in pieno territorio nemico. Se almeno fosse stato abbattuto nella Francia occupata, in Belgio, in Olanda o in qualsiasi altro territorio sotto il controllo dell'asse, sarebbe stato possibile contattare qualche gruppo della resistenza e, col loro aiuto, chiamare dall' Inghilterra perché mandassero qualcuno a prenderlo. Ma essere in Austria purtroppo era come essere a Monaco, a Colonia, o, perché no, a Berlino.

-Merda-, si ritrovò a pensare Donald per la seconda volta in una notte.

Cercò allora di pensare ai lati positivi delle situazione: era ancora vivo, non era ferito, come aveva appena diligentemente appurato, e, sopratutto, poteva contare sul suo perfetto tedesco, appreso fin da piccolo dal padre. Ricordava in merito un episodio; quando aveva compilato il modulo per l'arruolamento, tra le possibili referenze aveva stupidamente incluso anche la sua conoscenza della lingua. Cosicché i due anziani funzionari lì presenti, avevano cercato in tutti i modi di convincerlo a non arruolarsi come aviatore ma a diventare un interprete per qualche alto comando, vista anche la sua giovane età.

Il rifiuto che ne era seguito era stato così fragoroso da sembrare quasi offensivo. I due fuzionari, irritati per le brusche maniere, smisero di blaterare.

-Solo questo mi mancherebbe- aveva pensato Donald in quell'occasione -passare la guerra dietro una scrivania.-

Per lui la guerra sarebbe stata un’ unica ed irripetibile occasione di riscatto.

Passo a fare un inventario del suo scarso armamentario, che comprendeva il già citato coltello, utile sia come strumento che come arma, un accendino, una piccola ma potente torcia, una cartina della zona, ricevuta per questa evenienza prima della partenza, e infine la pistola d'ordinanza: una Colt C45 con due caricatori da 7 colpi.

Quindi, ben lungi da qualsiasi forma di panico, la fredda mente del ragazzo era passata ad elaborare un piano d'azione, fissando delle priorità, che erano, in ordine:

1- Passare la nottata, e quindi scampare al rastrellamento che i tedeschi avrebbero sicuramente compiuto per catturare i superstiti come lui.

2- Cercarsi del cibo. Essendo però inverno, e non essendoci probabilmente selvaggina nel bosco, ciò sarebbe significato dover sgraffignare un po' di roba da mangiare in qualche cascinale.

3- Cercare qualche radiotramettitore, civile o militare, impadronirsene e chiamare quelli di Bushy Park perché lo venissero a prendere.

A Donald non passo neanche per la testa l'idea di consegnarsi ai tedeschi. La sua guerra non poteva essere già finita.

Definito il piano Donald passo ad attuarlo. Svolse la sua mappa sul terreno umido di fine Novembre e, illuminandola con la torcia, identificò la propria posizione. Incurante della stanchezza di più di 5 ore di volo, decise di spostarsi verso nord-est, in modo da allontanarsi nella direzione opposta allo schianto del suo velivolo e nel contempo avvicinarsi alla periferia della cittadina, in modo da studiare sul luogo il da farsi.

Mentre si faceva strada fra tronchi abbattuti e arbusti vari, Donald, per non sentire sonno e fatica, si interrogava sui fatti di quella notte e sul perché del fallimento della missione. In particolare non si capacitava della spropositata risposta tedesca al loro attacco; possibile che difendessero così strenuamente una comune fabbrica di granate come c'è ne erano tante sparse nell'industrializzato Reich. Per di più, l'utilizzo di 100 e passa velivoli, e l' adozione della tattica del "Wilde Sau", che comportava grandi perdite fra gli stessi tedeschi, dimostravano la volonta non di respingere, ma di distruggere la loro forza aerea.

Tutto questo per una fabbrica di granate? Lui non ci credeva.

Mentre si poneva questi quesiti, e procedeva nel sottobosco alla fioca luce della piccola torcia e della luna piena, giunsero dal vicino sentiero delle voci. Erano chiaramente tedesche, dedusse Donald dal tono gutturale, ed erano accompagnate dal latrato di molti cani.

-Diavolo, -pensò- ci stanno già cercando.

Spense la luce e decise di tornare nel fitto del bosco.

All' improvviso dei passi veloci e furtivi. Un respiro ansimante.

Poi qualcosa lo travolse, lo spinse con tanta forza da buttarlo giù.

A terra, umiliato, Donald tirò repentinamente fuori torcia e pistola, pronto a vendere cara la pelle. Quello che vide, rannicchiato in un angolo contro un grande abete, fu una stupenda ragazza, pallida in volto per la paura.

 

  
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