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Autore: Kumiho    05/01/2014    3 recensioni
Per un attimo, guardandolo sorridere, nella mente di Gokudera si ripresentò l'immagine dell'insolita espressione di Yamamoto di qualche minuto prima e realizzò che forse quella era stata l'unica vota in cui aveva visto per più di cinque secondi il volto del compagno di classe senza un enorme sorriso a trentadue denti stampato sopra.
Genere: Generale, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hayato Gokudera, Takeshi Yamamoto, Tsunayoshi Sawada
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nuovo inizio ed opacità 
 

La mattina del primo giorno di scuola, Gokudera, si svegliò qualche minuto prima del suono della sveglia; prestando ascolto, concentrandosi nel silenzio della sua stanza, riuscì ad udire il suono familiare dei bandoni dei negozi che si alzavano e le voci di studenti, meno fortunati di lui, che erano già in cammino per entrare puntuali, costretti ad un risveglio ben più mattiniero del suo. Si sentiva il corpo ancora piacevolmente caldo di sonno ma si scoprì abbastanza sveglio da riuscire ad alzarsi senza la solita, troppa, fatica che contraddistingueva tutte le mattine dei suoi giorni scolastici.
 
Camminò, lentamente, verso la cucina, strascicando i piedi nudi sulle mattonelle fresche, aprì il frigo minuscolo e si verso una tazza di latte, accendendo con fare distratto la televisione. Solo poco tempo addietro, appena pochi giorni, si sarebbe immaginato tremendamente nervoso nel dover ricominciare la solita routine, non tanto per problemi scolastici ,ovviamente, quanto per la preoccupazione impellente ed insopportabile di dover vedere Yamamoto. Ogni singolo giorno.
 
Si portò la tazza alle labbra, l’interno della bocca gli fremette a contatto con il latte freddo, fu solo un attimo, ma fu come se un’improvvisa consapevolezza lo avesse travolto, invadendolo lentamente: tranquillità. Gokudera si sentiva tranquillo.
 
C’era, in effetti, un vago nervosismo di sottofondo, uno strano sapore, in fondo al suo stomaco, che gli suggeriva preoccupazione e sconforto, ma il suo corpo sembrava deciso ad ignorarlo. Cercò di riesaminare intensamente a tutto ciò che il solo pensare a Yamamoto gli aveva comportato fino a quel momento, mentre le immagini luccicanti di una pubblicità gli passarono sotto gli occhi, inosservate; avvertiva un leggero fastidio, la rabbia non lo aveva abbandonato, ma scoprì che la sensazione che aveva provato l’ultima volta che lo aveva visto aveva avvolto tutte le altre in un involucro di opaca indifferenza. Yamamoto lo aveva pregato con gli occhi lucidi, stringendogli una manica con le mani tremanti, di non avere paura di lui.
 
Gokudera si era sentito inizialmente innervosito e fremente di rabbia: non aveva alcun diritto di sentirsi triste o in difficoltà, non aveva alcun diritto di chiedergli favori né di atteggiarsi a colui che stava male, il bravo ragazzo in difficoltà che non chiede mai troppo… non dopo che lo aveva trascinato in tutto quel macello. Eppure il semplice rendersi conto dell’incredibile ascendente che aveva su Yamamoto, gli aveva maturato uno strano disagio, molto diverso dalla solita paura che aveva quando gli stava davanti. Era un disagio simile alla rassegnazione e alla compassione. E tutto ciò non si confaceva lontanamente alla personalità di Gokudera.
 
Dall’ultima volta che si erano visti, Yamamoto non lo aveva più chiamato; lasciandolo in quella specie di oblio opaco fatto di indecisione e preoccupazione per un futuro apparentemente troppo lontano per preoccuparsene sul serio; ed era stato così: quel futuro, il momento in cui avrebbe dovuto rivederlo per forza, era infine arrivato e Gokudera non riusciva a ritrovare quella rabbia e quell’odio che lo avevano sorretto fino a quel momento.
 
Chiuse gli occhi, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia di metallo. Era come se l’angoscia e la paura fossero state sostituite da una leggera inquietudine e dalla noncuranza. Come la consapevolezza di non aver studiato per un compito in classe. Non riuscì a considerarla una cosa positiva, in effetti, ma gli sembrò come se il suo desiderio di tornare ad odiarlo come prima superasse, di gran lunga, ogni suo fastidio effettivo. Gokudera non seppe dire se fosse a causa della scenata penosa, della richiesta inaspettata dell’altro, o di una reazione automatica del suo corpo per non impazzire del tutto, fatto stava che le sue mani non tremavano, al posto del perenne nodo nel suo stomaco c’era solo una patina di preoccupazione e il pensiero di rivedere la sua faccia lo rendeva, sì, infastidito ed inquieto, ma il terrore precedente sembrava come spazzato via.
 
 
 
 
 
 
 
Se, da quella mattina, i motivi per preoccuparlo gli erano sembrati molteplici, la cosa che lo rendeva sempre di buonumore era rimasta invariata: il passeggiare al fianco di Decimo seguitava ad essere la cosa che sembrava dare più luce alle sue giornate. Aveva percorso velocemente i pochi chilometri che lo separavano da lui, affrettando il passo come suo solito, osservandolo percorrere velocemente il vialetto di casa, coi capelli spettinati che profumavano di latte caldo e di amore familiare. Il cuore gli si alleggerì un poco non appena gli fu accanto e si avviarono insieme verso la scuola. Anche se, Gokudera non tardò ad accorgersene, la compagnia di Decimo, non fu in grado di dissolvere, come aveva creduto, quella leggera e fastidiosa patina di apprensione che gli stanziava dentro.
 
Man mano che la scuola media Namimori si faceva più vicina, i piccoli vicoli si riempirono di ragazze e ragazzi schiamazzanti e rumorosi, tanto che Gokudera non tardò a rammentarsi del perché avesse sempre considerato la scuola una scocciatura; qualche gruppetto di ragazze lo avvicinarono per salutarlo e sghignazzare divertite tra loro, arrossendo e lanciando fastidiosi gridolini imbarazzati, mentre i ragazzi li superavano vociando ed agitandosi con un vigore rinnovato dal lungo periodo di vacanze appena trascorse, e Gokudera tentò il possibile per trattenersi dal mandare qualcuno al diavolo ancor prima di entrare in classe. 
 
Il consono discorso del preside antecedente la prima lezione dell’anno non fu né più lungo né più corto di quello degli anni passati, ma a Gokudera parve un’infinità, anche per colpa del fatto che proprio non riusciva a far attenuare quel minuscolo nodo allo stomaco che sembrava avere il potere di estraniarlo da tutto il resto. Da quando lui e Decimo avevano varcato il cancello dell’istituto non era riuscito a fare a meno di guardarsi perennemente attorno, e il motivo, inutile mentire, lo conosceva più che bene. Il suo cuore sussultava e il suo stomaco si stringeva ogni volta che gli sembrava di individuare Yamamoto tra la folla schiamazzante. Non era una sensazione piacevole, non lo era mai stata: l’irritazione che sentiva dentro era uguale a tutte le altre volte che lo pensava, ma era come tenuta a freno da quell’insicurezza e da quel disagio che sembravano aver avviluppato ogni sua parte. E quel piccolo crampo alla bocca dello stomaco sussultava di poco ogni volta che rammentava l’espressione contrita e sofferente dell’altro.
 
L’applauso scrosciante di ragazzi e professori che lo scosse, ridestandolo dai propri pensieri, segnò, infine, la conclusione del discorso di benvenuto del preside. I capoclasse radunarono gli alunni delle proprie sezioni, invitandoli a seguirli e cominciare le lezioni. Sasagawa e sua sorella li raggiunsero, col loro solito atteggiamento talmente diverso tra loro da far sorgere, in chiunque, il dubbio sul fatto che fossero fratelli; anche Decimo sembrava essere rimasto vittima di tutta l’impazienza e l’entusiasmo che sembravano pervadere ogni alunno, vecchio o nuovo, dell’istituto, continuando a parlare ininterrottamente dei buoni propositi che aveva in serbo per l’anno a venire, Gokudera sorrise debolmente e, con aria intenerita. Non fece in tempo a dire qualcosa per rassicurarlo che, entrambi, vennero gelati da un’occhiata tetra del presidente del comitato disciplinare, Hibari, che, incrociandoli nel corridoio, sibilò qualcosa di sinistro, per poi passare oltre.
 
Non c’era dubbio. Erano di nuovo a “casa”.
 
 
 
 
Quando infine entrarono in classe, sedendosi ai loro soliti posti, Gokudera si scoprì quasi deluso e rammaricato verso ogni singolo secondo della giornata sprecato a pensarlo, vedendo anche il banco vuoto di Yamamoto. Senonché, pochi minuti dopo l’ingresso dell’insegnante, la porta dell’aula si aprì e fu come se una tonnellata di mattoni lo avesse colpito in pieno.
 
- Già in ritardo dal primo giorno, Yamamoto!?-
 
- Eh, eh… mi scusi…-
 
Il professore sospirò sconfortato prima di invitarlo a sedersi, rimproverandolo col solito tono sconsolato di chi sa di star parlando ai muri. Qualche ragazza, quasi tutte in effetti, bisbigliarono tra loro divertite, pigolando come avevano fatto in presenza di Gokudera solo pochi minuti addietro. Ma Gokudera era troppo sconcertato per accorgersene, il cuore gli si era come gonfiato dentro al petto, e il nodo allo stomaco gli si era stretto con più forza, troncandogli il respiro, scoprendosi comunque incapace di distogliere gli occhi dalla figura impacciata di Yamamoto che si avviava al suo solito posto, dietro di lui.
 
Yamamoto alzò lo sguardo, incontrando il suo e lo fissò per pochi secondi, immobile e silenzioso, Gokudera si sentì soffocare sotto al peso della solita angoscia e della preoccupazione, attese con aria dura che Yamamoto distogliesse gli occhi dai suoi, abbassandoli con aria colpevole, o che gli si assottigliassero, con quell’aria cattiva che gli aveva sempre ricordato di essere in trappola, che gli aveva visto sul volto solo una volta ma che gli era bastata per tutta una vita.
 
 
 
Non successe.
 
Le guance gli si arrossarono, di un rossore sano e caldo, mentre gli angoli della sua bocca si incurvarono verso l’alto, interrompendosi in una fossetta che stagliava al centro del livido sulla guancia. Yamamoto gli sorrise, di un sorriso gentile e buono, così simile a quello che aveva sempre visto eppure così diverso.
 
Gokudera sentì il nodo nel suo stomaco stringersi dolorosamente mentre uno strano calore gli si irradiava al centro del petto. Un misto di fastidio ed imbarazzo lo costrinsero a distogliere lo sguardo dal suo, finché non scorse, con la coda dell’occhio, la sua sagoma superarlo, per sedersi nell’unico banco vuoto, dietro di lui. Le restanti ore di lezione volarono come il vento, scandite dai mille e più pensieri che sembravano non volerlo abbandonare.
 
 
La campanella suonò, con quel ritmo regolare e lento, accompagnata dai sospiri di sollievo e di stanchezza della maggior parte degli studenti della Namimori. Gokudera rilassò i muscoli delle spalle, rendendosi conto solo allora di quanto fossero tesi e doloranti; non era riuscito a prestare ascolto neanche per dieci minuti, non che fosse sua abitudine, ovviamente, ma il fatto di non riuscire a pensare a nient’altro che a Yamamoto seduto dietro di lui lo aveva innervosito a tal punto che nemmeno l’idea di tornare a casa in compagnia di Decimo sembrava sufficiente a rilassarlo. E quando quest’ultimo gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla, Gokudera sobbalzò appena voltandosi verso di lui con aria allarmata.
 
- Andiamo, Gokudera?-
 
Rimase in silenzio giusto il tempo per rendersi conto che l’aula era quasi completamente vuota, annuendo energicamente subito dopo. Afferrò la tracolla per poi scattare in piedi, bene attento a non voltarsi in direzione del banco di Yamamoto, e dirigersi a passo spedito verso l’uscita.
 
Lo schiamazzo nel cortile fu l’ennesima conferma che era, a tutti gli effetti, tornato a far parte della “gloriosa” vita scolastica della Scuola Media Namimori. Il nodo nel suo stomaco, invece, era solo la costatazione del fatto che avrebbe volentieri venduto un arto per non farne già più parte. Decimo gli camminava di fianco, parlando animatamente di quanto fosse sempre più carina Kyoko-chan, della preoccupazione per i test futuri e di quella nuova studentessa, di cui Gokudera non aveva neppure notato l’esistenza. Gokudera ci provò davvero, con ogni grammo di buona volontà tentò di stare attento alle parole del Decimo, cercando di seguire attentamente i suoi discorsi, ma ogni nuova parola di disperdeva nell’aria come un suono incompreso, infrangendosi come fumo contro i pensieri che gli riempivano la testa e non accennavano a volersene andare.
 
Il sorriso di Yamamoto gli si era stampato nel cervello, con mille interrogativi al seguito. Che significava? Che cosa avrebbe comportato? Che cosa avrebbe dovuto fare?... Se poche ore prima era presente quella  minuscola speranza che quella patina di disagio si dissolvesse in qualche modo, ora aveva la conferma che non se ne sarebbe andata per molto, moltissimo tempo.
 
Non aveva idea se tutto quello che gli stava succedendo fosse una strana reazione del suo corpo per non impazzire del tutto, o semplicemente una bizzarra evoluzione della rabbia che precedeva un intento omicida, tutto quello che sapeva era che, ora come ora, non aveva la minima intenzione di confermare altre reazioni strane del suo corpo alla presenza di Yamamoto. Per un attimo quasi rimpianse il terrore e l’angoscia che lo attanagliavano in precedenza.
 
Gokudera abbassò la testa, desiderando con tutto se stesso di prendersi a calci finché quel sentimento d’odio non lo avesse nuovamente pervaso. Finché Decimo non fosse tornato, di nuovo, l’unico pensiero che riempiva le sue giornate. Quando raggiunsero, infine, casa di Tsuna questi lo salutò sorridendo.
 
- Ci vediamo domani.-
 
- A domani, Decimo!- Esclamò Gokudera in risposta.
 
Decimo gli sorrise un’ultima volta prima di dargli le spalle e chiudere la porta dietro di sé, probabilmente non notando l’espressione cupa e stordita che si era dipinta sul volto dell’amico. Gokudera era riuscito a stento a finire ogni singola parola, e l’entusiasmo con cui aveva salutato il proprio boss gli era sembrato finto e disgustosamente blando. Era stato come se, anche nelle corde vocali, gli si fosse insidiata quella strana nebbia carica di pensieri che gli impediva di pensare a nient’altro che a quel maledetto idiota.
 
Ma il disagio di quell’improvvisa consapevolezza non fu nulla paragonato a quello che provò voltandosi in fretta, con l’intento di incamminarsi velocemente verso casa.
 
Riconobbe quella figura alta e impacciata in fondo alla strada in meno di un attimo, ed ogni parte del corpo di gelò all’istante. Non riuscì a muovere un passo nemmeno quando gli si avvicinò, un passo lento per volta. Il cuore cominciò a battergli nel petto come impazzito, di quell’inspiegabile ansia curiosa e spaventata; un’adrenalina che aveva il retrogusto dell’angoscia. Quando gli fu abbastanza vicino, Gokudera si accorse che aveva il fiatone, e la fronte imperlata di sudore.
 
- …tu …cammini davvero… veloce.- Sorrise ansimando. Quel maledetto sorriso dannatamente gentile.
 
- Che cosa vuoi?- Domandò Gokudera, odiandosi nuovamente per quella nota tremolante nella voce.
 
- …Volevo fare …la strada con voi ma… suppongo di dovermi allenare nella corsa.- Scherzò di nuovo, passandosi una mano sul collo, piegando lentamente la testa di lato e fissandolo con uno sguardo intenerito. Gokudera sentì un’ondata di fastidio percorrergli la spina dorsale prima di trovare finalmente la forza di staccare i piedi da terra ed incamminarsi di nuovo lungo la salita che portava a casa sua. Temette davvero di doversi mettere a correre quando sentì l’eco dei passi di Yamamoto seguirlo al ritmo del suono del suo respiro affannato.
 
- Senti, lo so che è un po’ tardi per chiedertelo ma io… Gokudera, potresti voltarti solo per un…-
 
Sentì le dita dell’altro sfiorargli la manica della divisa chiara e fu come se una scossa gli avesse percorso tutto il corpo. Si voltò di scatto, avvertendo tutta la rabbia e quello strano dolorino allo stomaco farsi sempre più dolorosi, scrollandosi il tocco lieve di Yamamoto di dosso, e la voce gli uscì, rotta ma assordante.
 
- Perché fai così!?- Tuonò con le guance in fiamme e le mani che tremavano.
 
-… Gokudera...-
 
- Prima mi ricatti, poi pretendi che io faccia quello che vuoi tu, poi mi dici che devo comportarmi come sempre, poi mi implori di non odiarti… e ora mi sorridi come se non fosse successo nulla! Mi dici che diavolo vuoi da me!?- Domandò astioso Gokudera, stringendo con forza la borsa della tracolla fino a farsi sbiancare le nocche.
 
Yamamoto rimase in silenzio per diversi secondi, con un’espressione di sincera sorpresa sul volto. Gokudera non aveva posto neanche la metà delle mille domande di cui necessitava una risposta, ma quella nebbia estranea gli si era ficcata di nuovo tra le corde vocali, impedendogli di proseguire, dimezzandogli l’aria nei polmoni. Gokudera rimase zitto e ansimante, aspettandosi la solita espressione affranta di Yamamoto, i soliti occhi assottigliati e la smorfia ferita sul suo volto, che non gli provocava altro che odio e terrore.
 
Ma Yamamoto sollevò gli occhi, che aveva abbassato solo per un attimo, proseguendo nella sua solita espressione seria e decisa.
 
- Io… volevo solo invitarti a pranzo, ma credo… di doverti parlare.-
 
Gokudera sentì qualcosa ingarbugliarsi ancora di più nel profondo del suo stomaco, un misto di stupore e adrenalina. Ogni volta che parlava con lui, le poche volte che era successo, dopo che tutto quello era iniziato, non era mai finita bene: la prima volta si era ritrovato invischiato in un ricatto, la seconda stretto ad un angolo completamente nudo e la terza con la testa sconquassata dai pugni e la forza di volontà ridotta ad uno zerbino.
 
Probabilmente, si disse poi, il suo bisogno di risposte era troppo grande e l’ansia che provava ogni volta aveva raggiunto un picco insostenibile. Se davvero Yamamoto era disposto a parlargli, se davvero acconsentiva ad offrire delle motivazioni allora, Gokudera lo sperò con tutto il cuore, poteva accordargli una tregua. Una piccola e sottile tregua capace di sfociare in un passo indietro. Capace di ritornare quell’affabilità che li aveva sempre uniti.
 
Gokudera alzò piano lo sguardo, continuando quel silenzio imbarazzato, forzato dall’urgenza delle mille motivazioni per cui non avrebbe voluto acconsentire, e che gli ronzavano in testa, ammutolendolo per la confusione. Poi, lentamente, annuì, precedendolo lungo la discesa ripida.
 
La casa di Yamamoto gli era sempre sembrata incredibilmente e fastidiosamente vicina alla propria e a quella di Decimo, tant’è che la maggior parte delle volte in cui usciva di casa, non solo per andare a scuola, gli sembrava di sentire il profumo di pesce fresco aleggiare, dal ristorante del padre di Yamamoto, infiltrandosi nelle vie, fino a raggiungerlo. Anche quando doveva uscire per comprare le sigarette o il minimo indispensabile per non avere il frigo vuoto, passandoci davanti, gli capitava di vedere la sua figura muoversi dietro la finestra della sua camera, o spostarsi velocemente tra i tavoli, mentre aiutava il padre nelle giornate in cui i clienti erano numerosi. Ovviamente tutto ciò aveva un sapore di dimenticato per Gokudera: da quando Yamamoto aveva dato il via a quell’incubo crescente, le volte in cui era passato da casa sua si erano ridotte al minimo indispensabile. Le strade di Namimori, e Gokudera ringraziava il cielo per questo, erano molteplici, e per raggiungere una meta, anche se il percorso rischiava di farsi decisamente più lungo, c’erano diverse vie.
 
Fatto stava che ogni volta che Gokudera si affacciava alla via principale, subito prima di cambiare strada intrufolandosi in qualche vicolo, sbirciava sempre con attenzione ogni angolo del fondo di quella piccola discesa, cercando di individuare, per evitarla, la presenza di Yamamoto. La vicinanza, se non altro, gli permetteva un sopralluogo veloce ed indolore. Eppure, quei pochi minuti che ci misero a percorrerla insieme, gli sembrarono infiniti, scanditi da ogni singolo secondo di silenzio assordante. Il fresco pungente d’autunno gli bruciava le guance e gli intorpidiva le ginocchia, mentre puntellava i piedi, lungo la discesa. I passi di Yamamoto gli echeggiavano alle spalle, li sentiva rallentare, farsi distanti per poi aumentare ed avvertire il suo respiro affannato farsi vicino. Quando, infine, arrivarono davanti alla porta del ristorante, Gokudera si sentì invecchiato di qualche decennio, la gola secca e la patina di angoscia nello stomaco mutata i qualcosa di più solido e gravoso.
 
Yamamoto gli fu accanto in pochi secondi, superandolo con un braccio e tirando la porta scorrevole, che scivolò nell’infisso di legno, con un rumore lieve e continuo. Il disagio di Gokudera aumentò appena, notando che il ristorante era quasi vuoto, ma si fece coraggio ed entrò. Yamamoto lo imitò, chiudendosi la porta alle spalle e salutando cortesemente. Qualche cliente alzò il mento sorridendo debolmente nella loro direzione, per poi tornare a concentrarsi sul pasto. Gokudera aspettò che Yamamoto lo superasse nuovamente per poi seguirlo verso il bancone dietro il quale un ometto lungo e magro si muoveva indaffarato.
 
- Ciao papà.- Salutò Yamamoto sollevando una gamba e sedendosi ad uno degli sgabelli del bancone.
 
L’uomo si voltò verso il figlio, il solito sorriso raggiante in volto, per poi spostare immediatamente lo sguardo su Gokudera, lasciando che si illuminasse di quella luce spontanea e felice che ferì Gokudera come un déjà-vu infelice.
 
- Guarda chi c’è, il mio cliente preferito!- Esclamò raggiante - Takeshi, perché non mi hai avvertito? Non ho preparato nulla di decente…- Rimbrottò bonariamente il figlio, incapace di sfumare il proprio sorriso.
 
- Non fa niente!- Si affrettò a dire Gokudera. – Non importa che mi offriate da mangiare…-
 
- Ma che stai dicendo, figliolo! Questo è un ristorante. Ci manca solo che non abbia ospitalità e cibo da offrirti! Torno subito.- Esclamò nuovamente sparendo dietro le tendine della cucina.
 
Entrambi rimasero di nuovo soli, uno seduto su uno sgabello e l’altro in piedi, lo sguardo confuso ed imbarazzato e la testa che continuava a ronzare. Gokudera cambiò il peso da una gamba all’altra per poi voltarsi in direzione dei clienti, movimenti dediti a prendere tempo e a non mostrare l’imbarazzo pesante e crescente, c’erano tre uomini adulti, uno dei quali aveva già finito di mangiare e si apprestava a pagare il conto, gli altri due stavano mangiando e parlottando tra loro in modo affabile. In un angolo, Gokudera li notò solo allora, c’erano due studenti, probabilmente della loro scuola data la divisa scolastica, lui teneva la mano di lei, ed entrambi si guardavano in silenzio sorridendo davanti a due fette di dolce. Gokudera sentì il disagio e l’imbarazzo crescergli dentro più di prima e si affrettò a voltarsi dall’altra parte, giusto in tempo per vedersi posare davanti un piatto fumante.
 
- Buon appetito!- Esclamò l’uomo in italiano. Il suo accento era talmente acuto e cantilenante che Gokudera ci mise diversi secondi prima di capire che cosa avesse effettivamente detto. Aprì la bocca più volte, senza emettere alcun suono, prima di abbassare la testa e riconoscere quello che sembrava un piatto di spaghetti al pomodoro. Passò un’altra manciata di secondi prima che Gokudera riuscisse a collegare il tutto, poi sentì la bocca piegarsi in un sorriso nervoso ma spontaneo.
 
- Grazie.- Rispose Gokudera in italiano, arrotando la “r” e sottolineando la “z”, come da ormai molto tempo non faceva, dato che, tranne quando era da solo con Bianchi, le occasioni per parlare nella sua lingua madre non erano molte.
 
L’uomo rise di gusto prima di servire anche il figlio e voltarsi nuovamente, ricominciando a tagliare il pesce sul banco da lavoro. Gokudera si avvicinò al bancone, sedendosi allo sgabello e afferrando la forchetta tra le mani, il sorriso incapace di scomparire dal volto. Prima di portarsi il cibo alle labbra si voltò per un attimo verso Yamamoto, di fianco a lui: fissava Gokudera con gli occhi sorpresi e leggermente lucidi, la bocca socchiusa in un’espressione di sorpresa ammaliata, e le guance talmente arrossate da sembrare febbricitanti, ma si riscosse dopo pochi secondi notando l’occhiata di Gokudera, voltando di scatto la faccia e piantando il suo sguardo dritto nel proprio piatto, tanto che Gokudera non fece nemmeno in tempo a sentirsi a disagio. 
 
Rigirò la forchetta negli spaghetti, tirandone su un po’, e portandoseli alla bocca. Erano decisamente scotti, tanto che quasi si sciolsero sotto alla leggera pressione dei denti. Gokudera continuò a masticare. La mancanza totale di sale rendeva il tutto abbastanza pesante da mandare giù, e la salsa di pomodoro, anche se non di ottima qualità, era la sola cosa che li rendeva minimamente apprezzabili. Gokudera mandò giù il boccone e se ne portò immediatamente un altro alle labbra. La situazione non migliorò affatto.
 
- Ti piacciono?- Sentì domandarsi improvvisamente. Alzò la testa quel tanto che bastava per ritrovarsi il volto del padre di Yamamoto poco distante dal suo, che lo fissava con aria ansiosa. Gokudera non rispose, un po’ perché aveva la bocca piena, un po’ perché non sapeva cosa dire.
 
- Papà…- Sentì Yamamoto ammonirlo sottovoce.
 
- So che non vuole che te lo chieda…- Proseguì l’uomo avvicinandosi ancora di più - Ma questo scemo di mio figlio è stato più di una settimana a tentare di prepararli come si deve e quindi…-
 
- Papà!- Esclamò Yamamoto, balzando giù dallo sgabello. I pochi clienti si voltarono nella loro direzione, ammutolendosi, tanto che Yamamoto, rosso in volto come non mai, abbassò appena il capo in segno di scuse, tornando seduto e incassando la testa nelle spalle.
 
Gokudera rimase in silenzio per diversi secondi, spostando lo sguardo dall’uomo a Yamamoto. Il sorriso ormai scomparso dal volto. Anche con la coda dell’occhio riusciva a vedere le guance di Yamamoto arrossate quasi all’inverosimile ed i suoi occhi spostarsi da una parte all’altra del proprio piatto. Vederlo in difficoltà, ed imbarazzato a quel modo gli diede uno strano senso di tranquillità, mentre quella sorta di nebbiolina angosciante scemò piano piano fin quasi a scomparire. Ormai quasi completamente dimentico dell’angoscia iniziale che lo schiacciava da quando erano entrati nel locale.
 
- Li hai fatti tu?- Chiese poi, la voce gli uscì dalle labbra, sicura ed inespressiva.
 
Yamamoto sollevò lo sguardo guardandolo per poi scostarlo di nuovo. Le mani in grembo e la schiena leggermente ricurva.
 
- Sì ma… non c’è bisogno che fai tanti complimenti, dimmelo pure se non ti piacciono.- Mormorò poi. Il tono tremolante. Imbarazzo camuffato malamente da noncuranza divertita.
 
Gokudera spostò un’ultima volta lo sguardo da Yamamoto al proprio piatto. Sapeva che cosa avrebbe dovuto rispondergli. Conosceva ogni sfumatura di cattiveria che avrebbe dovuto aggiungerci, era bravo in questo, era una sorta di talento. La sua capacità di ferire le persone, era sempre stata, fin da piccolo, una delle sue poche difese, seconda solo alla sua abilità con la dinamite. Sapeva anche che Yamamoto si sarebbe meritato ogni singolo grammo della sua crudele sincerità e vederlo ferito gli avrebbe dato un enorme sollievo… e, probabilmente, se solo fosse successo qualche giorno prima, Gokudera non avrebbe esitato nemmeno per un attimo.
Se solo fosse successo prima…
 
 
- Sono buoni.- Disse piano Gokudera - Sono molto buoni.-
 
 
 
 
 
 
 
 
Aveva finito di mangiare in silenzio, combattendo contro la sensazione di disagio che provava non appena la pasta scotta gli si scioglieva in bocca senz’altro sapore che quello del pomodoro; Yamamoto al fianco, terribilmente indeciso se guardare Gokudera o il piatto che aveva davanti, troppo impegnato a dissimulare l’imbarazzo per aggiungere qualcosa, e suo padre che gli dava le spalle, muovendole appena, al ritmo del coltello che sbatteva velocemente contro il legno del tagliere davanti a lui. Ogni gesto che faceva gli sembrava pesante ed impacciato, ogni anfratto del proprio corpo gli pareva riempito di ovatta che gli impediva di pensare lucidamente. Gli sembrò di vivere, in quei pochi minuti, in una nebbia opaca e confusionale e, ne era sicuro, sarebbe presto precipitato in un vortice di rimpianto e di odio verso se stesso e verso Yamamoto, ma tutti quei presentimenti non gli sembravano che una sensazione troppo lontana per preoccuparsene davvero, e il boccone che si portava ogni volta alle labbra era troppo immangiabile per non dedicargli ogni grammo di attenzione.
 
Eppure non arrivava, non arrivava mai, pensava Gokudera, la sensazione conosciuta del rimpianto e del rimorso di avergli dato di nuovo fiducia non sembrava far capolino nella sua coscienza. Nemmeno quando salì le scale fissandogli la schiena grande, per andare in camera sua, come aveva fatto l’ultima volta, il ricordo dell’odio che provava verso Yamamoto gli sembrava così estraneo attutito, com’era, da quella sensazione di compassione e di arrendevolezza che lo muoveva con forza propria. Forse, pensò, l’accorgersi che le mani di Yamamoto tremavano mentre sparecchiava anche il suo piatto, e lo scorgere le sue orecchie in fiamme, anche mentre lo seguiva in camera sua, lo stavano distraendo dal solito odio e dalla consueta sensazione di pericolo. Gokudera non riuscì a trattenersi dal pensare che, forse, Yamamoto gli aveva messo qualche droga nel cibo, e, il pentirsi immediatamente di un pensiero così meschino non fece altro che metterlo a disagio ancora di più. La rabbia che provava non era sparita, la sentiva, era lì, sul fondo del suo stomaco, non se ne era mai andata; sembrava solo attenuata da quella familiarità improvvisa e fastidiosa, era qualcosa di simile alla pietà, ma meno crudele…
 
Yamamoto aprì la porta della camera facendolo entrare, non fece in tempo a dire nulla di sdrammatizzante che Gokudera gli si mise di fronte esortandolo con un’occhiata eloquente.
 
-Parliamo.-
 
Yamamoto, le guance ancora accalorate e gli occhi bassi, si sfilò lentamente la giacca color giallo pallido della divisa, ripiegandola alla meglio e allentandosi il nodo della cravatta. Rimase per un attimo in silenzio, in piedi, di fronte a Gokudera, lo sguardo puntato sull’angolo del muro, come un ultima rilettura di un copione imparato in fretta e furia. Gokudera non smise di fissarlo nemmeno per un secondo, fissò le sue labbra strette, gli occhi nervosi e il livido sempre meno vistoso sulla guancia, ansioso ma paziente.
 
Yamamoto prese un breve fiato tremante, sfregandosi le mani innervosito, alzò lo sguardo lungo il muro e, spostando un piede davanti all’altro, si avvicinò piano alla finestra, svotò i polmoni, appannandone il vetro e, spostando finalmente lo sguardo su Gokudera, parlò. 
 
- … Non ho mai pensato a quello che avrei dovuto dirti. Se lo avessi saputo, probabilmente mi sarei preparato un discorso inattaccabile, quelle specie di proclami che si sentono nei film… quelle dichiarazioni d’amore talmente belle e semplici che sembrano adatte a chiunque, e quando le senti non riesci a fare a meno di pensare “è la stessa cosa che penso sempre io, ma non mi sono mai venute le parole”. Io non sono una persona molto intelligente, non sono come te… sono quello che si definisce “un ragazzo pratico”. Forse è anche per questo che non ho mai pensato a qualcosa che avrei potuto dirti. Qualcosa che avrei potuto fare se solo ci avessi pensato un po’ di più.-
 
Yamamoto abbassò nuovamente lo sguardo, inumidendosi le labbra con la lingua prima di continuare.
 
-… Tu non devi pensare… non voglio che tu ti convinca che io voglia farti del male. Io non ti farei mai del male.-
 
Gokudera sentì quella rabbia all’interno del proprio stomaco ribollire appena, strinse i pugni, incattivendo lo sguardo, tanto che Yamamoto fu costretto a tacere, e non appena schiuse le labbra, un po’ di questa rabbia traboccò fuori.
 
- Beh… mi spiace sconvolgere i tuoi concetti morali ma ricattare qualcuno per fargli fare qualcosa che non vuole fare è “fare del male”-
 
Yamamoto sembrò vacillare a quelle parole, come se avesse sempre temuto una frase del genere. Gli occhi gli si assottigliarono, abbassandosi di nuovo. Aprì la bocca un paio di volte, incapace di emettere alcun suono, provocando solamente l’irritazione di Gokudera. I suoi occhi vagarono per qualche istante, senza meta, per la stanza, come un disperato tentativo di leggere le parole giuste su qualche porzione di intonaco. Ma dal lungo silenzio che precedette il suo tono tremante, Gokudera dovette dedurre che non ne avesse trovata alcuna.
 
- So che stai cercando delle risposte, Gokudera, lo so bene… ma la verità è che io ti ho davvero detto già tutto…-
 
- Tutto tranne quello che voglio sentire.- Sibilò Gokudera, la rabbia ritrovata e un languore deluso che lo opprimeva lento, allargandosi come una pozza d’olio.
 
Yamamoto abbassò di nuovo gli occhi, stringendo i denti e continuando a sfregarsi le mani. Sembrava davvero che avesse le parole da dire, pareva il tipico imbarazzo di chi non conosce abbastanza vocaboli per esprimere un concetto ben chiaro. Vederlo così, imbarazzato e costernato, provocò a Gokudera un enorme fastidio. Era delusione quella che lo stava avvolgendo lentamente. Come se avesse sperato, davvero, che Yamamoto avrebbe potuto fornirgli una spiegazione valida ed inattaccabile, addolcita dal suo vecchio sorriso sicuro.
 
- Io non voglio che torni come prima, Gokudera. Però non voglio che…-
 
- E quello che voglio io!?- Proruppe Gokudera avvicinandosi un po’, tanto da costringere Yamamoto a sollevare finalmente il capo per guardarlo. -Tu dici di amarmi ma non ti sei mai preoccupato nemmeno per un secondo di me…-
 
Yamamoto corrugò appena le sopracciglia, scuotendo piano la testa. Negli occhi aveva solo preoccupazione e paura, Gokudera lo capì immediatamente e non riuscì ad impedire alla rabbia di prendere il controllo di se stesso.
 
- Perché dici così? Io non voglio farti del male, non te ne ho mai fatto…- Balbettò piano.
 
- Sì, invece! Non te ne rendi conto!? Non ti accorgi dell’angoscia in cui mi costringi a vivere!?-
 
- Ma… non ne hai motivo… io non voglio ferirti… Io… io voglio solo l’opportunità di starti vicino…-
 
Gokudera sentiva la gola bruciargli non meno degli occhi, con un passo gli si fece ancora più vicino e, anche se di poco più basso di lui, ebbe l’impressione di sovrastarlo completamente, se fosse per la furia che provava o per lo sguardo disperato negli occhi di Yamamoto non lo sapeva.
 
- No, tu vuoi costringermi a stare con te! Mi parli dell’amore che provi come della cosa più naturale del mondo… è questo!? Incastrare chi vuoi senza dargli possibilità di replica!? Tu vuoi costringermi a provare quello che provi tu…-
 
Yamamoto continuò a scuotere la testa, come un giocattolo rotto, limitandosi a quello sguardo incredulo e disperato, quella ricerca di vocaboli balbettati.
 
- E’ così!- Urlò di nuovo Gokudera - Sai che è così! Io non sono il tuo maledetto giocattolo! Che farai quando qualcos’altro non ti andrà bene, eh? Mi ricatterai di nuovo!?-
 
Yamamoto chiuse piano gli occhi, abbassando la testa, stringendo i denti talmente forte che Gokudera riuscì a vedere la linea della mascella che si induriva, arrotondandosi sempre di più sotto la sfumatura giallastra del livido.
 
- No… Gokudera… io non…-
 
- Che farai quando io mi rifiuterò di fare qualcosa che vuoi fare!? Mi stringerai di nuovo nudo in un angolo!? Mi costringerai a correre da una parte all’altra della città inviandomi un messaggio sul cellulare!?-
 
Lo stomaco gli doleva così tanto che temette di non riuscire più a parlare, aveva il fiato corto e si sentiva già troppo stanco per urlare ancora. Si limitò ad osservare Yamamoto, con gli occhi bassi ed i pugni stretti, continuando a sperare inconsciamente in una risposta.
 
-…Come…?- Domandò piano Gokudera, lottando contro il dolore dentro lo sterno e il fiato corto -…come puoi chiedermi di non avere paura?... Come puoi chiedermi di voler stare con te!?-
 
Yamamoto continuò a rimanere in silenzio, con quell’aria disperata a sconfitta di chi ha perso su tutta la linea, ma Gokudera ci credette con tutto se stesso, quasi sperandoci. “Dimostramelo. Dimmi qualcosa che non mi costringa ad odiarti, solo questa volta. Dimostrami che mi sono sbagliato”. Nemmeno col senno di poi seppe dare un perché a quella speranza, quel pensiero fisso che non lo lasciava andare, ma in quel momento sapeva solo che era lì e che lo costringeva a prestare attenzione ad ogni battito di ciglia dell’altro, ad ogni spasmo della sua espressione contrita per riuscire a leggervi un motivo valido per non sprofondare in quell’oblio d’odio che era davanti a lui, che aspettava solo di inghiottirlo per sempre.
 
- Hai ragione. Hai ragione su tutto.- Mormorò Yamamoto dopo pochi secondi e, per un attimo, per Gokudera fu come perdere la terra sotto ai piedi. -… Ma anche quando ti dicessi di sì…?- Aggiunse, come una sottile domanda retorica, alzando di nuovo lo sguardo per guardarlo - Io non smetterei di provare quello che provo ora… io non posso lasciarti andare…- Mormorò piano, come si mormora un buongiorno tenero o “ti amo” detto per la prima volta.
 
- Perché?- Domando Gokudera sostenendo il suo sguardo, il fiato ancora corto e quella sensazione di sconforto che lo avviluppava sempre di più che si faceva sempre più desolante ad ogni nuovo secondo di silenzio dell’altro.
 
- Parla, maledizione. Parla!- Ringhiò poi, la voce ridotta ad un suono graffiante e stanco appena urlato, afferrandogli il bavero della camicia in un impeto di rabbia. Yamamoto indietreggiò appena, le mani sempre basse, molli lungo i fianchi e il solito sguardo distrutto.
 
- Non posso perché… se ti lasciassi andare… se ti lasciassi andare adesso io… non ci sarebbe più niente… che potrei fare.- Mormorò Yamamoto. La voce ridotta a un singhiozzo, le labbra che tremavano su un’espressione troppo stanca e distrutta perché Gokudera riuscisse a guardarla ancora.
 
Ci fu un attimo di silenzio in cui l’unico rumore che Gokudera riuscì a sentire fu quello del suo cuore che gli rimbombava nelle orecchie e quello chiaro della rabbia che ribolliva. La presa sulla camicia di Yamamoto si allentò appena prima di allontanarsi del tutto, e dalle labbra di Gokudera uscì un sibilo cattivo.
 
- Tu non hai mai potuto fare niente!-
 
Gokudera fece per voltarsi ed uscire da quella camera, magari il più in fretta possibile, magari correndo. Sperando che Yamamoto non lo seguisse, sperando di correre talmente forte e talmente lontano da non riuscire più a tornare indietro.
 
- Gokudera, aspetta!- La presa sul suo braccio fu immediata, tanto che non riuscì neanche a muovere un passo. Sentì le dita di Yamamoto stringergli saldamente la pelle, appena sotto il gomito, ne avvertì lo spessore e la pressione e fu come precipitare nel panico.
 
-Lasciami!- Ringhiò, voltandosi appena agitando il braccio nel tentativo di scrollarselo di dosso, ma la presa di Yamamoto era incredibilmente ferrea e non fece altro che costringerlo in quella paura improvvisa che non avvertiva da tanto. Per un attimo provò il panico crudo e genuino, esattamente lo stesso di quando, stretto in un angolo e senza vestiti addosso, Yamamoto gli era apparso forte ed incredibilmente pericoloso.
 
La sua schiena cozzò contro il muro, e il corpo di Yamamoto gli si avvicinò ancora, intrappolandolo. Fu l’attimo di alzare lo sguardo deformato dal terrore in quello di Yamamoto e scoprirgli sul viso un’espressione di sincero e costernato stupore. Yamamoto lo lasciò immediatamente, tentennando con le mani a mezz’aria, come nell’indecisione confusa di doverlo toccare o meno. Avevano entrambi il fiatone quando tutto sembrò interrompersi, con la violenza di una pellicola bruciata. Gokudera con la schiena contro il muro le braccia alzate all’altezza dello sterno, come una rozza posizione di difesa e Yamamoto davanti a lui, a bloccargli ogni movimento senza toccarlo, l’espressione deformata dalla preoccupazione e dal dispiacere. Come se avesse potuto romperlo solo sfiorandolo ancora.
 
Gokudera non riuscì a fare niente, né allontanarlo da sé, né sgusciare piano verso la porta. Rimase solo contro il muro, la bocca schiusa ed il panico ancora impresso negli occhi. Un panico che sembrava aver distrutto Yamamoto nel profondo, abbattendo ogni suo grammo di felicità. Abbassò appena lo sguardo, aprendo i palmi e poggiandoli contro il muro davanti a sé, ai lati del volto di Gokudera, le spalle scosse dai singhiozzi.
 
 - Smettila di piangere…- Gokudera parlò senza nemmeno accorgersene, si rese conto di aver pronunciato quella frase solo quando, nell’aria, riconobbe il suono della sua voce scandire l’ultima sillaba - Tu non hai alcun diritto di piangere. Smettila.-  Ripeté. E gli occhi cominciarono a bruciare insopportabilmente.
 
Il corpo di Yamamoto si fece più vicino, le mani piantate saldamente contro il muro. Anche se la forma era diversa, Gokudera riconobbe il calore di un abbraccio timoroso. Fece per scostarsi ma il tremore del corpo dell’altro e quel calore ottenebrante erano davvero troppo forti. Riuscì solo a continuare a piangere, nascondendo il volto nella curva della spalla di Yamamoto, avvertendolo tremare contro la tempia. La sua voce rotta e singhiozzante a nascondergli il pianto.
 
- Gokudera… scusami… Gokudera…-
 
 

 
 
 
 
 
 
 
Questo è il primo aggiornamento dell’anno. Mi auguro che abbiate passato un felice Natale!
Con gli impegni che si fanno sempre più opprimenti temevo davvero di non farcela ma… eccoci qui: un nuovo capitolo è stato sfornato. Spero che vi sia piaciuto, anche perché, da qui in poi ci sarà una netta evoluzione nella trama, non è difficile intuirlo. Diciamo che Yamamoto e Gokudera si avvicineranno un po’ e… verranno alla luce alcune cose.
 
Mi concedo da voi con il mare di sofferenza in cui vi ho precipitato… mi scuso ma, come dice il saggio (?) “un aggiornamento senza angst non è un aggiornamento!”
 
Vi abbraccio tutti, uno per uno!
Kumiho
  
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