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Autore: _Princess_    26/05/2008    24 recensioni
“Tom Kaulitz,” si presentò lui alla fine, stringendole la mano. Fu allora che l’attenzione gli cadde sul cartellino che lei aveva al collo. “Vibeke V. Wolner?” lesse.
“Si legge ‘Wulner’,” lo corresse lei rigidamente. “Sono norvegese.”
“Ah,” fece lui, dimostrando scarso interesse. “Posso chiamarti Vi, per comodità?”
“No.” Ribatté lei secca.
“La v puntata per cosa sta?” le chiese allora Tom.
“Non sono fatti tuoi.”
Si occhieggiarono con un accenno di ostilità. Vibeke seppe immediatamente che tra loro due sarebbe stato impossibile instaurare un rapporto civile.
[Sequel di Lullaby For Emily]
Genere: Generale, Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Aprire gli occhi al risveglio era stato una croce insopportabile per Vibeke sin dai tempi dell’asilo, quando sua madre era costretta a strapparle le lenzuola di dosso per riuscire a farla alzare, ma stavolta era certa di aver raggiunto il livello di sforzo massimo sopportabile.

L’antica concezione di ‘emicrania letale’ che aveva conosciuto finora impallidì drasticamente in presenza di quel dolore lancinante che le stava perforando il cranio con la crudele intensità di mille trapani martellanti. Non aveva idea di dove si trovasse né di cosa fosse successo, ma una cosa era certa: non era in camera sua.

Si trovava sul sedile posteriore di un’auto – la più grande e spaziosa che avesse mai visto – completamente nuda ed altrettanto confusa. Cercò di tirarsi su a sedere, ma qualcosa la bloccava. Guardò allora in basso, strizzando gli occhi per cercare di mettere a fuoco l’immagine nel buio, e le ci volle una discreta dose di autocontrollo per riuscire a trattenersi dall’urlare inorridita: sdraiato assieme a lei, un braccio che le circondava la vita, c’era un ignoto ragazzo, nudo quanto lei, profondamente addormentato, il viso nascosto nell’ombra.

Porca puttana!, imprecò mentalmente, fissandolo senza riuscire a ricordare chi fosse e cosa diavolo ci avesse fatto.

Sul cosa, a dire la verità, non era poi così complicato farsi un’idea: vestiti sparsi ovunque, l’involucro aperto di un preservativo, un ragazzo ed una ragazza nudi in un’auto… Già uno solo di quei particolari inneggiava alla parola ‘sesso’, figurarsi tutti e tre insieme.

Il problema era: chi era lo sconosciuto?

Sicuramente uno che sapeva il fatto suo, perché, anche se di fisico non sembrava affatto prestante, era comunque riuscito a sfinirla, e non era un evento da tutti i giorni.

Vibeke notò che l’anonimo aveva una vistosa macchia blu sul petto, e ben presto si accorse di averne una anche lei. Le venne in mente qualcosa che aveva a che fare con la sua stilografica, ma il tutto si esauriva lì.

Senza fermarsi a riflettere troppo, prese a raccattare i propri vestiti ancora bagnati qua e là, infilandoseli alla meno peggio, la testa ridotta ad un mucchietto dolorante di neuroni acciaccati. Non riuscì a trovare le mutandine, ma preferì non perderci troppo tempo, voleva uscire di lì al più presto.

L’orologio del display sul cruscotto segnava le sei e un quarto, il che significava che aveva meno di tre ore per filare dritta a casa, farsi una doccia, ingurgitare una dose massiccia di caffè e analgesici, ed infine precipitarsi al colloquio all’orario prestabilito.

Rinunciò a mettersi il corsetto per via delle complicate manovre di contorsione che richiedevano i lacci: non aveva né tempo né spazio per allacciarlo, quindi optò per la cosa più semplice, ossia infilarselo sotto un braccio assieme alla borsa e, allacciata per bene la giacca, facendo attenzione a non svegliare il suo misterioso partner di quell’avventura di una notte, si avvicinò alla portiera. Stava già per tirare la maniglia, quando ebbe un piccolo ripensamento: odiava quando gli uomini sgattaiolavano via come dei ladri, la mattina dopo, e non voleva fare lo stesso. Prese allora un pezzo di carta dalla propria borsa, un vecchio scontrino di un bar, e recuperò la propria stilografica dal taschino della giacca. Scriveva ancora, ne era certa, non era la prima volta che perdeva fiumi di inchiostro, e non riportava mai danni.

Rimase un attimo a pensare che cosa lasciare scritto, ma proprio in quel momento sentì distintamente la risata fragorosa di BJ, proveniente da un punto molto vicino.

Oh, al diavolo!

‘Grazie della botta di vita,’ scribacchiò frettolosamente. ‘Se trovi le mie mutandine, puoi appendertele alla bacheca della cucina come ricordo o trofeo, ma non le buttare, sarebbe un peccato, visto quello che mi sono costate. V.’

Mollò il messaggio sul cruscotto ed uscì alla svelta dalla macchina, richiudendo silenziosamente la portiera. Fuori faceva più freddo del previsto.

Si strinse addosso i pochi indumenti che portava e in un lampo individuò BJ, intento a pomiciare con una rossa contro il proprio SUV, un Pathfinder nuovo di zecca che gli era costato una fortuna, ma lui era ricco e poteva permetterselo.

“BJ, scarica l’arpia e portami a casa.” Bofonchiò stancamente, facendoli trasalire.

La rossa le rivolse uno sguardo astioso, sollevando schifata quel suo odioso nasino a punta.

“Tesoro, trovati un ragazzo tutto tuo.”

Per Vibeke, che già di suo aveva scarse nozioni riguardo ciò che i comuni mortali usavano definire ‘pazienza’, fu veramente troppo.

“‘Tesoro’ lo dici a tua sorella,” sbottò, afferrandola per una spalla e scucendola di dosso a BJ come un cerotto. “Io me ne voglio andare a casa, e questo bel biondo adesso mi ci porta, che tu lo voglia o no, sciacquetta che non sei altro!”

La ragazza guardò BJ, come aspettandosi che lui facesse qualcosa, ma questi si limitò ad alzare le spalle e sorridere, causandole una crisi di nervi immediata.

Il lato più incredibile di BJ era quello: se una era abbastanza stupida da cadergli ai piedi in trenta secondi come un’allocca, allora non meritava di essere trattata con alcun rispetto, perché comunque le ragazze così superficiali valevano solo qualche ora di divertimento, e nient’altro.

Secondo Vibeke, faceva in fretta a parlare, lui, con i suoi plotoni di fan arrapate che sembravano vivere con il solo scopo di compiacerlo, ammaliate della sua lunga coda bionda e da quegli occhi particolari, identici a quelli di Vibeke stessa, che però su di lui sembravano brillare di una luce più intensa, o forse era solo perché il suo ego era tale da traboccare addirittura dai suoi bulbi oculari.

“Ciao, sorellina,” le disse gioviale appena la rossa sparì dalla vista, fresco come una rosa, come appena reduce da un rilassante riposino. “Hai un aspetto atroce.”

“Sì, sì, grazie,” sbottò lei, cominciando a perquisirlo alla ricerca delle chiavi del SUV. “Adesso andiamo a casa.”

“La vecchia Golf fa di nuovo i capricci?” indagò lui, facendo comparire le chiavi dal nulla, o così parve a lei.

“Non collabora nemmeno coi calci,” blaterò Vibeke, mentre lo spingeva verso la portiera del guidatore e lo obbligava ad aprire. “Quindi adesso basta domande, devo essere in città per le nove ed avere l’aspetto di una che valga la pena di assumere.”

BJ la assecondò: la fece salire e poi si mise al volante, estraendo qualcosa dal portaoggetti.

“Test dell’alcol.” Annunciò eccitato, portandosi il misuratore alla bocca, quasi fosse stato il guidatore più coscienzioso e scrupoloso del mondo. Per lui era un divertimento testare i propri livelli d’alcol, perché lo smaltiva così in fretta da non riuscire quasi ad ubriacarsi, e questo per lei era frustrante, soprattutto adesso che aveva tanta fretta di rientrare.

“Bene, tutto a posto,” annunciò lui. Fece riporre a Vibeke l’oggetto e mise in moto soddisfatto. “Una curiosità,” le domandò, uscendo dal parcheggio. “Ti ho vista sgattaiolare via verso l’una e mezza, dove cazzo sei stata fino ad ora?”

Vibeke si portò le mani sul viso e si costrinse a non ucciderlo, almeno non finché non fossero stati nel garage.

“Taci e guida!” gli intimò, poi allungò una mano verso il lettore cd e lo accese. Non le importava del mal di testa dilagante, un po’ di Depeche Mode le avrebbero fatto bene.

‘And do you feel it? I said: do you feel it when you touch me?’

Le avrebbe fatto bene anche ascoltare una canzone a sfondo sessuale come ‘Dirt’?

‘Do you feel it when you touch me? I'm a fire…’

No, decisamente no.

 

***

 

Se il destino era solito mandare segni alle persone ogniqualvolta aveva in serbo per loro una giornata storta, allora Vibeke riteneva che con lei stesse facendo un gioco piuttosto esplicito.

Aveva capito che qualcosa non andava quando, appena messo piede in casa, la luce non aveva voluto saperne di accendersi, e le conferme si erano susseguite una dopo l’altra, prima con l’acqua calda esaurita, poi con Rogue placidamente addormentato sul vestito che avrebbe dovuto indossare al colloquio, ormai imbrattato di lunghi peli bianchi che non aveva il tempo di stare a togliere, ed infine con quel maledetto egoista di BJ che si era rifiutato di prestarle l’auto per andare in città. Conclusione: dopo una doccia gelata, si era dovuta infilare il primo paio di pantaloni che aveva trovato nell’armadio e la camicia più sobria che avesse, alla quale mancavano però diversi bottoni nella parte superiore, poi aveva trangugiato mezza mela e un litro di caffè corredato da pasticche varie, e infine si era precipitata giù in strada per le sette e mezza (ergo, con un’ora di anticipo rispetto al previsto), pregando che ci fosse qualche autobus in orario.

Speranza vana.

L’unica nota positiva era che i postumi della bevuta erano scemati piuttosto rapidamente rispetto al solito: restava solo un leggerissimo mal di testa, e nient’altro.

Dopo aver aspettato quasi un’ora sotto alla pensilina, con una pioggia torrenziale che cadeva tutt’intorno, alla fine era riuscita a prendere quello delle otto e venti ed arrivare a destinazione con ben tre miracolosi minuti di anticipo.

Vibeke era nella hall dell’elegante edificio che ospitava la sede locale degli uffici della Universal e si guardava intorno senza troppa curiosità: quattro pareti di un bianco spento, enormi vetrate che davano sull’esterno, porte e serramenti in metallo, arredamento vagamente hi-tech e un paio di piante dalle larghe foglie smeraldine poste ai lati del bancone della reception, da dietro al quale la segretaria la stava controllando sospettosa.

Detestava starsene lì a ciondolare senza scopo, ma aveva appuntamento con un certo Ebel, amico di vecchia data di suo fratello, l’uomo che avrebbe dovuto assumerla a tutti gli effetti.

Per ingannare il tempo, Vibeke passeggiò avanti e indietro, intenta ad esaminare una lunga serie di quadri contenenti dischi firmati da artisti, molti dei quali le erano del tutto ignoti. Chissà quale tra di essi le sarebbe capitato.

“Un mio amico sta cercando qualcuno che ci capisca qualcosa di luci e roba simile,” le aveva detto BJ, circa un mese prima. “Segue un gruppo, qualcosa così… Se ti interessa, gli mando il tuo curriculum.”

E così il curriculum – con allegata la fondamentale raccomandazione di BJ – aveva fatto il suo dovere, e Vibeke aveva ottenuto un appuntamento con Ebel, per conoscere i suoi probabili datori di lavoro. Si sarebbero dovuti incontrare a momenti.

Si strinse la sciarpa nera attorno al collo, assicurandosi che non lasciasse scoperti lembi di pelle. Non era riuscita a togliere l’inchiostro, se non in minima parte, e se qualcuno l’avesse vista, ci sarebbero state domande troppo imbarazzanti a cui rispondere.

Si sentì il rumore delle porte dell’ascensore che si aprivano e una giovane voce maschile distrasse Vibeke dalle proprie riflessioni:

“Scusa se ti ho fatta aspettare.”

Si voltò: verso di lei camminava un ragazzo che non dimostrava nemmeno trent’anni, la camicia bianca che ricadeva con distratta eleganza sui jeans firmati, il passo lento e sicuro, quasi felino, ed era dannatamente affascinante. Le ricordò molto BJ, per certi versi: alto, magro, biondo, con due penetranti occhi azzurri che, ne era certa, mietevano vittime su vittime ogni santo giorno.

Non aveva affatto l’aspetto stressato e cupo del tipico manager stereotipato; sembrava piuttosto appena uscito da qualche set fotografico, o emerso dalle pagine patinate di una rivista di moda.

Praticamente un succulento banchetto per la sua libido ottica.

Da quando in qua i manager sono belli, giovani e sexy?, si chiese, divorandoselo con gli occhi mentre le veniva incontro sorridente. Se oggi li fanno così, ne voglio assolutamente uno!

“Tu devi essere la sorella di BJ,” le disse il ragazzo con voce suadente. “Vibeke, giusto?”

“Sì,” farfugliò lei, stringendogli la mano, supplicando la propria salivazione di contenersi. “Sono io.”

“Benjamin Ebel, abbiamo parlato al telefono qualche giorno fa.”

La conversazione non ti ha reso giustizia, Benjamin, rifletté lei, ammirando il celeste intenso dei suoi occhi. Era tutt’altro che bassa, ma doveva piegare la testa verso l’alto per guardarlo in faccia.

“Oh, sì,” annuì. “Ti avevo immaginato più vecchio.”

E meno gnocco.

Lui la osservò attentamente per un momento.

“Però, si direbbe che tu sia una tosta,” commentò, ammiccando. “Forse è proprio quello che ci vuole per noi.”

Vibeke scelse di interpretarlo come un complimento, anche se, a sentirlo parlare così, sembrava che cercasse un cane da guardia, più che un tecnico delle luci.

Benjamin estrasse una specie di tesserino munito di laccio dal taschino della camicia e glielo porse.

“Tieni, questo ti servirà per circolare qui dentro indisturbata.” Le spiegò.

Il piccolo badge conteneva i dati di Vibeke ed aveva un rettangolino bianco ancora vuoto, destinato alla fotografia. Se lo mise al collo.

“Allora,” Benjamin le appoggiò una mano sulla schiena, guidandola verso l’ascensore. “Sarai ansiosa di conoscere il resto della ‘famiglia’…”

“Naturalmente.” Rispose lei, anche se dubitava di essere riuscita a metterci un minimo di credibilità. Il bel Benjamin, però, non parve farci caso e sfoderò l’ennesimo sorriso casualmente sensuale, guidandola verso l’ascensore.

“I ragazzi sono di sopra che ci aspettano,” le spiegò, mentre l’ascensore prendeva a salire. “Ciascun membro dello staff deve avere la loro approvazione per essere assunto, ma non ti preoccupare, so già che ti troveranno strepitosa.”

La sua assunzione dipendeva dai capricci di una manciata di ragazzini viziati a cui con ogni probabilità sarebbe apparsa come la figlia illegittima di Robert Smith – sempre ammesso che avessero la più pallida idea di chi cavolo fosse Robert Smith. Che bella notizia.

Vibeke dissimulò una risatina sarcastica con un paio di colpetti di tosse.

Se lo dici tu…

Arrivati al quinto piano, Benjamin le fece strada attraverso un corridoio illuminato al neon, in fondo al quale si trovava una porta socchiusa, da cui provenivano delle voci. La stanza doveva essere occupata da dei ragazzi.

“Eccoci qui,” disse Benjamin, avvicinandosi alla porta. “Immagino che BJ ti abbia rivelato il nome del gruppo di cui mi occupo…”

‘No’, stava per rispondere lei, ma era già tardi: la porta era aperta e di fronte a lei si trovavano quattro tipi noti: uno, che portava una voluminosa massa di rasta, se ne stava davanti alla finestra sul lato opposto della piccola stanza, con delle grosse cuffie alle orecchie, muovendo la testa su e giù, le spalle rivolte – molto educatamente – a tutti gli altri; davanti al tavolo, una lattina di coca cola in mano, c’era una sottospecie di pertica chilometrica monodimensionale con un’acconciatura degna di Siouxsie e una discreta attitudine da diva, mentre il piccolo divano bianco era occupato dalla restante metà della band.

Non era certa che li avrebbe saputi riconoscere, se li avesse visti uno per uno, separatamente, ma sapeva perfettamente chi fossero quei quattro ragazzi – quel gruppo. Il loro nome era ormai diventato un sinonimo ufficiale di ‘successo’ e di svariati altri termini su quella lunghezza d’onda.

Se volevi dire ‘gruppo famoso, fenomenale e pluripremiato campione di vendite mondiali’, nel duemilanove non c’era più bisogno di espressioni complicate, bastava dire ‘Tokio Hotel’.

“Vibeke,” le annunciò Benjamin, con la medesima espressione di un padre orgoglioso che presenta i propri figli. “Ti presento i Tokio Hotel. Ragazzi, lei è il tecnico delle luci di cui vi ho parlato.”

Lei cercò di dimostrarsi cortese, entro i limiti delle sue possibilità.

Li conosceva di vista – e chi non li conosceva? Ormai le loro facce erano più note di quelle del papa e del presidente degli Stati Uniti messe insieme – ma non aveva idea di quali fossero i loro nomi. Sapeva solo che il tizio con i rasta e la diva (che aveva le mani affondate dentro una borsa alquanto improbabile, almeno per un ragazzo) erano gemelli, che il biondo immusonito stava alla batteria (e, a guardargli i bicipiti, si vedeva), e che il marcantonio con gli occhi verdi e la coda avrebbe potuto sbattersela contro un muro in qualunque momento.

“Ehm… Salve.” Li salutò con un cenno esitante della mano.

La diva le sorrise – aveva un bel sorriso, che le era stranamente familiare – e le strinse la mano.

“Bill, piacere.”

Vibeke ricambiò la stretta perplessa. Quello sguardo, quell’espressione, quel tono di voce… Le sembrava di averlo già visto, ma dove?

Insomma, ovvio che l’avesse già visto, le foto sue e dei suoi comari erano su ogni dannatissimo giornale in cui si potesse incappare, per non parlare della tv, ma aveva la netta sensazione di averlo già incontrato prima.

No, impossibile, si disse decisa. La sua mente le stava giocando un brutto scherzo a causa della stanchezza e dei postumi. E poi aveva un modo di fare fin troppo raffinato, che non collimava con nessun ragazzo che ricordasse di aver mai conosciuto.

Bill la osservò incuriosito per diversi istanti, soffermandosi in particolare sulla testa.

“Non ti azzardare a pensare che ti ho copiato, ragazzino,” abbaiò Vibeke, notandolo. “I miei capelli sono così da quando avevo dodici anni e tu all’epoca ancora poppavi dal biberon.”

Lui sobbalzò e si ritrasse intimidito, gli occhi spalancati dallo stupore.

“Mamma mia, che caratterino.” Esclamò poi, apparentemente divertito.

A quel punto anche i due sul divano si alzarono e si fecero avanti.

“Gustav.” Si presentò il primo, quello che aveva subito riconosciuto come il batterista.

Vibeke pensò ‘Sposami!’ prima ancora di aver registrato il suo nome. Era semplice – forse il più semplice dei quattro – ma aveva degli occhi scuri letali per l’equilibrio neurologico e un sorriso timido e un po’ impacciato che non faceva che peggiorare esponenzialmente la situazione.

Era il tipo di ragazzo di cui avrebbe voluto innamorarsi perdutamente, ma che, ne era certa, non avrebbe mai potuto innamorarsi di una come lei, né vice versa.

Dopo che si furono stretti la mano, Gustav si fece da parte e lasciò posto all’amico.

“Georg.” Disse questi, con una voce profonda che ben si accompagnava al suo aspetto. Era il tipico tedesco: lineamenti mascolini e decisi, lunghi capelli, lisci e chiari, occhi di un verde incredibilmente verde. E bello. Molto bello.

Dannatamente bello.

Anzi, per la verità Vibeke cominciava a capire perché molti maligni gridassero all’operazione commerciale, quando si parlava dei Tokio Hotel: erano ragazzi fin troppo piacenti perché si potesse credere con facilità che fossero finiti insieme per caso o per un colpo di fortuna.

“Hey, Tom,” gridò Benjamin al quarto ragazzo mentre gli si avvicinava per strappargli via le cuffie. “Levati quella roba, cerca di essere un minimo educato.”

“Scusalo,” le disse Gustav. “Stamattina è un po’ fuori fase.”

Quando finalmente il gemello etero si voltò, a Vibeke bastò mezzo secondo per farsi venire un embolo polmonare.

Cazzo!

Era un bel ragazzo – ovviamente – alto, con dei bei lineamenti dolci in netto contrasto con l’espressione presuntuosa, che le rimase subito sullo stomaco. I begli occhi nocciola la studiavano curiosi, un piercing che luccicava sulle labbra ricurve in una specie di ghigno quasi invisibile, ma non fu quello a turbarla.

Non lo avrebbe mai riconosciuto se non fosso stato per la vistosa macchia blu che aveva sul collo e che gli scompariva oltre il bordo della maglietta, ma non c’era dubbio che fosse lui, il ragazzo della macchina, quello da cui si era dileguata in fretta e furia solo una manciata di ore prima.

Ecco perché la diva mi sembrava familiare…

Si rifiutava di crederci: era andata a letto con uno dei suoi datori di lavoro e se n’era andata via quatta quatta come nulla fosse, lasciandogli per giunta quello stupido biglietto, e perfino un paio dei suoi bellissimi slip acquistati a Londra.

Speriamo che almeno sia maggiorenne, si augurò, cercando di ricordare quanti anni avessero quei quattro. Sapeva che erano giovani, ma quanto giovani?

La sua carriera era finita ancora prima di cominciare.

Cazzocazzocazzo!

Nel medesimo istante in cui la sua mente attraversava la fase ‘imprecazioni rozze e volgari’, gli occhi del ragazzo scesero a posarsi sulla sua scollatura. Vibeke fece in tempo a farsi cogliere da un infarto, prima di ricordarsi che la sciarpa tattica copriva strategicamente la chiazza bluastra che non era riuscita a lavare via.

Vide la fronte del ragazzo corrugarsi mentre lui le si avvicinava senza esitazioni, e pregò che non ce l’avesse con lei per quello che era successo.

“Hai un aspetto familiare,” La sua voce le fece venire come un dejà vu, risvegliando qualche ricordo che era convinta di aver rimosso. “Ci siamo già visti da qualche parte?” le domandò circospetto.

A parte ieri sera, quando ci siamo messi a ripassare il Kamasutra nella tua macchina, intendi?, pensò lei sarcastica, stringendogli la mano con disinvoltura.

Lo studiò attentamente, cercando di capire se la stesse prendendo in giro oppure no, ma la perplessità sul suo volto sembrava sincera.

Se recitava, lo faceva molto bene.

A quanto pareva, il piccolo lord aveva davvero rimosso la loro rovente nottata brava, e questo significava due cose: primo: avevano fatto sesso, ma – grazie a Odino, Thor, Freya e tutti i sacri Vani – non lo sapeva; secondo: avrebbe potuto ricordarsene in qualunque momento.

“No, non che mi risulti.” Gli rispose, con la massima nonchalance. Lui sollevò un sopracciglio con aria scettica.

“Come hai detto che ti chiami?”

“In genere si dice il proprio nome, prima di chiedere quello altrui.”

“È davvero necessario che io mi presenti?” domandò lui, vagamente sorpreso. Vibeke lo trovava disgustosamente arrogante: uno che aveva la presunzione che chiunque al mondo conoscesse il proprio nome, non poteva che essere una di quelle atroci creature così traboccanti di autostima da far venire un’ulcera istantanea.

Déi del cielo, perché a me?

“Tom Kaulitz,” si presentò lui alla fine, stringendole la mano. Fu allora che l’attenzione gli cadde sul cartellino che lei aveva al collo. “Vibeke V. Wolner?” lesse.

“Si legge ‘Wulner’,” lo corresse lei rigidamente. “Sono norvegese.”

“Ah,” fece lui, dimostrando scarso interesse. “Posso chiamarti Vi, per comodità?”

“No.” Ribatté lei secca.

“La v puntata per cosa sta?” le chiese allora Tom.

“Non sono fatti tuoi.”

Si occhieggiarono con un accenno di ostilità. Vibeke seppe immediatamente che tra loro due sarebbe stato impossibile instaurare un rapporto civile.

Lei e i ragazzi chiacchierarono per qualche minuto: le fecero domande su dove avesse studiato e come mai avesse deciso di specializzarsi in quel genere di lavoro, e lei dovette rivelare loro la triste verità: suo fratello aveva avuto bisogno di qualcuno che si occupasse degli effetti luminosi per accompagnare le proprie performance, ma non poteva permettersi di pagare un professionista, così lei aveva frequentato un corso e lo aveva aiutato a sfondare, ma ora che lui lavorava nei grandi locali, c’erano i tecnici fissi che pensavano a tutto, e così lei era rimasta senza impiego.

Durante la conversazione, Vibeke ebbe modo di farsi un’idea dei caratteri dei ragazzi, e se Georg e Gustav le andarono a genio fin da subito, altrettanto in fretta capì di trovare irritante il modo in cui Bill sembrava essere perennemente al centro dell’attenzione e godere di una sorta di favore universale, ma, soprattutto, che lei e Tom non avevano proprio la più scarna speranza di riuscire a convivere pacificamente a meno di dieci chilometri di distanza di sicurezza.

Non era un caso che fossero proprio i due gemelli ad infastidirla di più: pur essendo molto diversi tra loro, erano entrambi portatori non troppo sani di quello che lei definiva il ‘morbo della superiorità’. Tutti e due si comportavano come se chi stava loro attorno fosse appartenente ad un rango inferiore e perciò tenuto a dimostrare riverenza nei loro confronti, con la sola differenza che Bill lo faceva in maniera quasi innocente, mentre Tom ci metteva una buona dose di snervante consapevolezza.

“Bene,” esclamò Benjamin, diversi minuti di chiacchiere dopo. “Direi che Vibeke è assunta, giusto, ragazzi?”

Tre di loro annuirono con veemenza, Tom scrollò le spalle svogliatamente, come se la cosa non lo riguardasse.

Benjamin sorrise e le strinse la mano.

“Ci risentiamo verso marzo, allora.”

Vibeke si fermò, perplessa.

“Marzo?” scandì, pregando di aver compreso male, ma tutti rimasero impassibili.

Come sarebbe a dire marzo? E io fino ad allora cosa faccio, la bella statuina?

“Be’, il tour comincia in quel periodo,” le spiegò Benjamin. “Al momento non ci serve un tecnico delle luci.”

Questa non ci voleva. Era andata lì piena di speranze ed aspettative, e loro cosa le dicevano? Che il lavoro sarebbe cominciato tra tre mesi.

BJ ci avrebbe rimesso il suo organo più vitale per non averla avvertita di quel trascurabile dettaglio.

“Ma io ho bisogno di lavorare adesso!” protestò, pur sapendo che a loro non poteva importare di meno se lei avesse necessità o meno di guadagnare qualcosa.

Tom le gettò un’occhiata di sufficienza.

“Vuoi lavorare per noi e non sai nemmeno come stanno messi i nostri impegni?”

Con quel tono che aveva usato, Vibeke lo avrebbe volentieri strozzato, ma se uccideva uno dei Tokio Hotel, era probabile che non avrebbe lavorato affatto, e non poteva permetterselo, a meno che il fato, finora così avverso, avesse deciso di farle vincere alla lotteria senza che lei nemmeno avesse giocato.

“Non è tenuta a saperlo, Tom.” lo mise a tacere Gustav, conquistandosi definitivamente le simpatie di Vibeke.

“Avrà tempo di capire come vanno le cose, in questi mesi.” Concordò Benjamin.

“Ma io –”

Piantala con questo ‘Ho bisogno di lavorare adesso’, sbottò contro se stessa, l’hanno capito! Sei tu quella che non ha capito un cazzo!

“Potrebbe farci da assistente personale.” Suggerì Bill casualmente.

“Davvero?” fece lei, speranzosa. Fare da assistente a quattro mocciosi che inspiravano ossigeno ed espiravano soldi poteva avere i suoi allettanti vantaggi.

“Sì, tipo portarci i vestiti in tintoria, tenere in ordine la casa, fare la spesa quando serve…”

A Vibeke la situazione parve tutt’un tratto più chiara. Molto più chiara.

“Intendevi ‘farvi da cameriera’ forse.” Puntualizzò serafica.

La diva fece un gesto incurante.

“Quello che è.”

“Non ci farebbe scomodo.” Intervenne Georg, scambiando uno sguardo di assenso con gli altri. Tom emise una risatina di scherno.

“Nah, scommetto che non durerebbe mezza giornata, con i nostri ritmi.”

Per Vibeke fu una sfida a cielo aperto, e lei non rifiutava mai una sfida, soprattutto se si trattava di far ricredere un tipo come quello.

“Non hai idea di quello che stai dicendo, ragazzino,” replicò. “Sono tre anni che seguo mio fratello qua e là per la Germania e per Amburgo, facendogli da colf personale, so esattamente come cavarmela in certe situazioni.”

“Tuo fratello chi sarebbe?” la provocò Tom, gli occhi che scintillavano.

“Mai sentito parlare di DJ Djevel?”

“Sì, lo abbiamo anche conosciuto ad un festino, un paio di settimane fa.” Disse Georg. “Davvero in gamba.”

“Già,” convenne Gustav. “Aveva più ragazze intorno di Tom e Georg messi insieme.”

I due citati lo guardarono torvi, ma non controbatterono.

“L’ho visto giusto ieri sera ad un party fuori città. Non ti somiglia affatto.” Commentò Tom.

Hai visto anche me, pezzo di deficiente, borbottò lei fra sé. E non ti sei limitato a guardare.

“Ah no?” Vibeke incrociò le braccia. “E per caso non ricordi di aver notato qualche cosa di particolare nel suo viso? O magari eri troppo sbronzo…”

Taci, cretina, tu non lo dovresti sapere che era sbronzo!

Fortunatamente Tom parve non fa caso a quella gaffe e si limitò ad inarcare le sopracciglia.

“Cos’ha, una cicatrice stile Harry Potter?” chiese, probabilmente credendosi chissà quanto simpatico. “Un neo come me e Bill?”

“Gli occhi di due colori diversi.” Dissero Bill, Gustav e Georg all’unisono.

Vibeke sorrise leziosa e si avvicinò un poco a Tom.

“Vedi niente di particolare nelle mie iridi?”

“Sì,” fece lui, in tono annoiato. “Sono molto fastidiose, puntate addosso così.”

“Il punto non era questo, comunque,” intervenne Benjamin. “Ragazzi, voi ritenete davvero di aver bisogno di qualcuno che vi faccia da…”

“Babysitter?” completò Vibeke per lui. Benjamin le lanciò un rapido sorriso e subito dopo tornò a guardare i ragazzi.

Gustav fu il primo a parlare:

“Be’, diciamo solo che l’appartamento non è quel che si dice un’oasi di ordine e pulizia,” scoccò un’occhiata obliqua agli altri tre. “Georg e Tom fanno a gara a chi lascia più disordine, e mai una volta che Bill alzi un dito,” Assunse un’espressione eloquente. “Io ho rinunciato secoli a fare lo schiavo per loro.”

Benjamin sospirò, e Vibeke scoprì che i manager sexy non solo vestivano, parlavano, camminavano e respiravano in modo sexy, ma riuscivano perfino a sospirare in modo sexy.

“Va bene, allora vi cercherò qualcuno di affidabile che venga a sistemare tutto di tanto in tanto.”

“In fretta,” disse Georg. “L’ultima volta che i nostri genitori sono venuti a trovarci, alla madre di Gustav per poco non veniva un attacco di cuore e la mia quasi si rompeva una gamba inciampando in una certa maglietta Carhartt abbandonata a terra.” Vibeke notò che lo aveva detto guardando verso la diva. “E quando ci sono venute Nicole ed Emily, avevo paura che si perdessero nel caos.”

Bravi, ragazzi, portate le mammine nella stessa casa in cui portate le vostre groupies con tanta disinvoltura?, pensò Vibeke, disgustata, ma non abbastanza da lasciarsi sfuggire un’occasione come quella. Aveva fatto i salti mortali per arrivare in orario a quel maledetto colloquio di lavoro e, fosse cascato il mondo, se ne sarebbe andata di lì con un cazzo di lavoro.

“Se l’offerta era seria, lo posso fare io.” Asserì, carica di determinazione e buona volontà. Erano quattro, ma nemmeno tutti assieme potevano essere peggio di BJ.

Benjamin però non sembrava favorevole all’idea. Anzi, sembrava addirittura preoccupato.

“Tu? Sei sicura?”

Vibeke gli rivolse un sorriso professionale, bugia spudorata.

No, ma non importa. Mi servono soldi, e al più presto.

“Ho bisogno di guadagnare qualcosa, non posso continuare a farmi mantenere da mio fratello.”

“Ti permetterò di farlo solo se firmerai un contratto che ti vincoli a farci comunque da tecnico delle luci per il tour, qualunque cosa accada nel frattempo.” Disse Benjamin. Lei corrugò la fronte accigliata. Non era sicura che fosse una battuta.

“A che scopo?”

Lui passò in rassegna i quattro ragazzi con lo sguardo le sorrise in modo strano.

“Lo capirai quando li avrai conosciuti meglio.”

Doveva sentirsi intimorita da un paio di maschi allo stato brado? Doveva sentirsi minacciata dalla delicatezza delle unghie laccate di Bill la Diva, o dagli occhi innamoranti di Gustav e Georg, o dalla propria incompatibilità caratteriale con il Kaulitz a lei biblicamente conosciuto?

Mai e poi mai.

“Mi ritengo abbastanza allenata.” Decretò, sicura di sé come non mai.

Si lasciò valutare dai presenti senza battere ciglio. Tom se ne stancò quasi subito e si allontanò con uno schiocco di disappunto della lingua, ma Bill, Georg e Gustav sembravano molto interessati a lei, in particolar modo alla sua camicia senza bottoni.

Si aggiustò la sciarpa, supplicando gli déi che non avessero notato quel minuscolo dettaglio che lei non voleva assolutamente che venisse notato. Fortunatamente non fecero domande strane, quindi sembrava di no.

“Va bene, sei assunta.” Decretò Bill, e, da come lo disse, Vibeke comprese che era abituato a prendere decisioni senza consultare nessun altro che se stesso.

Incredibile ma vero, era appena stata assunta dal gruppo il cui solo nome era in grado di scatenare un putiferio tra le ragazze di qualunque angolo del mondo.

In quasi ventitre anni di vita si era immaginata nelle vesti si sarta, mantenuta, archeologa e anche serial killer, ma di finire a lavorare per quattro sbarbatelli che avevano spodestato praticamente chiunque dalle vette delle classifiche musicali di mezzo mondo… Be’, quello non era mai stato contemplato, nemmeno per scherzo.

“Non sai in quale trappola ti sei andata a cacciare.” Le sussurrò Benjamin, mentre le stringeva la mano (la centesima stretta di mano in meno di un’ora).

Vibeke non si lasciò intimidire.

“Non ti preoccupare,” lo rassicurò. “Andrà tutto liscio come l’olio.”

Le ultime parole famose.

 

 

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Note: dopo le gentili pressioni richieste di Muny_4Ever (sempre lei! XD), mi trovo costretta esortata a postare anche il secondo capitolo. Un grazie a voi che avete commentato il primo, mi auguro che questo non vi abbia deluso. Non fatevi ingannare dalla relativa banalità del ruolo di Vibeke nei confronti della band, o perlomeno aspettate a giudicare. ;)

Vi invito a commentare, come sempre, e vi rimando al prossimo capitolo, dove spero di riuscire a fare i dovuti ringraziamenti ad personam. ^^

   
 
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