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Autore: rachel_hetfield    06/01/2014    2 recensioni
Presi una boccata d’aria troppo grande, mi girò la testa e mi appoggiai al metallo freddo della capsula. «Come puoi amarmi se mi odi?»
«Non so come dirtelo che non ti odio.»
Lasciai il metallo e mi avvicinai di più a lui. Con la mano destra mi allungai verso il pulsante del timer. Un suono robotico lo fece partire.
«Non fare cazzate» singhiozzò «ti prego. Resta qui. Non ce la farei senza di te.»
Avevo impostato il timer per sessanta minuti, un’ora esatta. Avevo un’ora di tempo per decidere se fare le valigie, o attirare Kevin e rimandarlo indietro, a Oslo.
Evitai le sue labbra che si erano chinate su di me. «Devo... devo restare da sola. Torniamo nella locanda. Devo pensare.»
«Non farlo...» mormorò con la voce strozzata dal pianto.
Scossi la testa mordendomi un labbro. Fortunatamente ero voltata di spalle, perché avevo iniziato a piangere anche io.
«Rachel, ti amo.»
Singhiozzai e mi sentì. Il mio cuore balzò. Mi aveva circondata con le braccia, di nuovo. Solo che stavolta piangevamo entrambi. Il destino ce l’aveva con noi.
«Ti amo anche io, Dan.» [capitolo 16]
Genere: Drammatico, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Strinsi gli occhi quando sentii un respiro vicino, poi il nulla, il silenzio e un peso che si poggiava dall’altra parte del eltto tirandosi addosso le coperte.
Purtroppo tremavo come le pazze e gli avrebbe fatto capire che stavo congelando, perciò decisi di stringere i denti e sopportare. Aprii piano gli occhi e un uomo stava steso a pancia in su, con le braccia dietro la testa, con gli occhi aperti a fissare il soffitto. Rimasi a osserverlo per un po’, poi richiusi gli occhi e tentati di dormire, nonostante la temperatura mi avrebbe fatta morire ibernata.
Mi sentii i suoi occhi addosso e temetti che si fosse avvicinato troppo, ero a disagio, non sapevo come comportarmi e continuai a tenere gli occhi chiusi.
«Certo che fa freddo» mormorò la voce facendomi sobbalzare. Non avevo intenzione di rispondere, e si fece insistente.
«Come ti chiami?»
Rimasi zitta, non sapevo davvero cosa dire. Se avessi risposto avrei dato inizio a una conversazione che non volevo e che mi avrebbe messa più a disagio di quanto già fossi. Era incredibile che non la smetteva di parlare.
«Da dove vieni?»
Quella era l’unica domanda a cui non avrei mai e poi mai risposto. Non gli interessava sapere da dove venissi, come mi chiamassi, ero soltanto una sconosciuta che condivideva il materasso su cui dormivamo.
Il buio mi rendeva ancora più vulnerabile alle sue avances di stabilire una conversazione con me, ma mi ritiravo solennemente fingendo di dormire. Affondai la testa nel cuscino trovando un modo per respirare, ma niente, continuava a farmi domande.
«Perché sei finita qui?»
Sbuffai, dovevo zittirlo. «Perché continui a fare domande?»
Ridacchiò, mi voltai e lo guardai con gli occhi appannati e stanchi. Avevo bisogno di dormire.
«Niente, volevo conoscerti.»
Mi strinsi nelle spalle e mi girai dall’altra parte, dandogli le spalle. Tremavo ancora per il freddo, ma capii che sarebbe stato meglio congelare che parlare. Con uno sconosciuto, poi, e io non avevo amici da anni ormai. Solo poco tempo prima, con Chris, ero riuscita più o meno a stabilire un buon rapporto, ma con quest’uomo che di confortante non aveva nulla e non sapevo che volto avesse, riuscivo ad avere solo paura. E disagio. Pensai a casa mia, al vuoto, al mio vicino che continuava a fare festicciole e a urlare e fare casino fino a notte inoltrata, a quanto fosse libero ora che io non ero più a condividere il condominio. Pensai a Kris, agli studiosi che aspettavano miei segnali, mie notizie, ma che non avevo voglia di mandare, specialmente in presenza di qualcuno del ventunesimo secolo.
Da sotto le coperte schiacciai il pulsante del timer e si illuminò il display mostrandomi che mancavano 45 ore. Sperai passassero in fretta almeno quella notte, così da andare alla ricerca di informazioni sul modo di vivere degli abitanti del ventunesimo secolo. Attirava da morire l’idea di restare in quell’epoca, farmi una vita vera, ma più ci pensavo più mi convincevo che mi sarebbe mancata la mia monotona vita d’appartamento fatta di critiche e le giornate sprecate in un laboratorio scientifico dove osservavo uomoni ultraquarantenni mescolare sostanze chimiche e robot pulire il pavimento e riordinare le mensole.
Mi sarebbe mancato Kris, che con la sua modestia riusciva sempre a farmi sorridere, era il mio unico amico lì, non avevo nemmeno una ragazza con cui parlare, dei parenti con cui scambiarsi posta aerea eccetera...
Quando aprivo il mio account sul quaderno digitale mi ritrovavo solo qualche video 3D di nonna che stendeva i panni e di mamma che beveva caffè. In ogni video mamma beveva il caffè, e la cosa mi preoccupava, ma non riuscivo mai ad andare a trovarli in quanto non avessi una jet-machine e nemmeno la patente per guidarla.
Provai a respirare con calma, guardarmi intorno, studiare ciò che mi circondava senza mai dare nell’occhio e far credere a quel tizio che fossi sveglia. Mi limitavo a respirare tremando per il troppo freddo, ma ormai mi ero arresa a provare a riscaldarmi. Avrei sofferto. C’era un quadrato, accanto alla mia testa, poggiato su un comodino, si vedeva solo il contorno grigio e all’interno c’erano i numeri che si evidenziavano di un verde cristallino. Erano le tre e mezza di notte, e mi chiesi a che ora fossi arrivata in quel posto.
C’era troppo silenzio nella stanza, non sentivo nemmeno respirare l’uomo. Probabilmente era sveglio. Ne ebbi la certezza quando rise.
«Proprio non ne vuoi sapere di chiudere occhio?»
Strinsi la mascella, irritata. «Si può dire lo stesso di te.»
«Sì, ma io non ho freddo come te.»
Ignorai quella sua osservazione così poco intelligente. Non mi interessava chi avesse freddo e chi no, a me interessava di dormire per evitare di sentirmi il suo sguardo addosso, di sentire la voce irritante e rischiare di alzare troppo i toni e svegliare Chris.
Ripensai alla prima domanda che mi fece, ovvero come mi chiamassi. Ero davvero tenuta a dirglielo? Non mi importava di conoscerlo, richiusi gli occhi ma niente, mi rimaneva impressa nella testa la sua voce che chiedeva il mio nome.
Qualcosa nella mia valigia vibrò, e fui tentata dal vedere chi fosse che mi cercava. Forse segnali da parte di Kris e i suoi colleghi. Forse qualcosa andava storto. Forse avrei dovuto controllare che il neurofono non fosse scarico o malfunzionante. Ma come avrebbe reagito lui? Anche se ero al buio io ci vedevo lo stesso benissimo, ma chi sapeva se anche i suoi occhi fossero acuti come i miei che venivo dal terzo millennio? Lui era antico, non sapeva fare un sacco di cose al contrario di me, ma già dal modo in cui riusciva a trasmettermi la sua curiosità solo guardandomi metteva in serio dubbio di essere umanamente più evoluta di lui.
«Tu hai qualcosa di strano» disse soffocando una risata, e d’istinto mi girai per vedere che aspetto avesse. Lo fulminai con lo sguardo quando mi lanciò un’occhiata sorridendomi, ero completamente spiazzata e non sapevo come reagire.
«Sentiamo, cos’avrei di strano?»
Lo guardai meglio per evidenziare i tratti del suo viso. Ci vedevo, ma non mettevo a fuoco tutti i particolari di un oggetto che avevo davanti. Potei notare che aveva un viso magro, lungo, i capelli scuri e poco ordinati, molto lunghi che stavano perfettamente puntati verso l’alto. Non riuscii a distinguere il colore degli occhi, ma erano sicuramente chiari. Aveva un sorriso leggero, stanco, assonnato stampato sulla faccia, pensai che cercasse di addormentarsi quando lo avessi fatto io. Non voleva cedere. Pensava che se fossi rimasta sveglia tutta la notte sveglia gli avrei permesso di conoscermi, ma si sbagliava, avrei resistito e soprattutto avrei cercato di dormire. Allo spuntare dell’alba sarei sgattaiolata da quel tugurio e sarei corsa a esplorare il mondo del secondo millennio.
Ma nel frattempo, dovevo sorbirmi le domande e le osservazioni assurde dell’uomo che mi trovavo davanti. Che poi non era così uomo, era più un ragazzo della mia età, poco più grande, ma il buio lo rendeva più anziano.
«Sembri... come dire, di un’altra epoca. Hai decisamente troppo freddo, eppure la temperatura in questa stanza è di tre gradi sopra lo zero. Di solito fa molto più freddo. Secondo, la tua valigia ha qualcosa di...insolito.»
Digrignai i denti. «È una valigia nuova.»
«Suppongo tu sia ricca» affermò fissandomi negli occhi. Sembrava vedermi benissimo, invece non vedeva bene come me, ne ero sicura.
«Non esattamente.»
Mi rigirai di spalle e richiusi gli occhi. Nonostante i brividi di freddo e  il disagio in cui mi ritrovavo, sentivo le palpebre pesanti, finalmente il sonno iniziava a farsi sentire. Qualche altro secondo di tremolio, però, me lo avrebbero fatto passare. Mi raggomitolai su me stessa più stretta possibile, cercando di riscaldarmi il più possibile. Avevo le mani congelate, così come il naso e le orecchie. Era devastante il modo in cui mi stavo riducendo. Aprii la bocca per tirare una boccata d’aria e mi fu istintivo battere i denti dal freddo, e quale prova era più evidente dei denti battenti per dimostrare che avevo freddo?
Finsi di rilassarmi, ma troppo tardi, il tipo aveva ricominciato a parlare.
«Ma tu stai congelando» mormorò.
«N-no.»
Chiusi gli occhi stringendomi le gambe sul petto e incrociai le braccia, sperando di non morire ibernata in un’epoca come quella. Non pensavo fosse così fredda. Una risatina e un fruscio di coperte e di lenzuola, dei movimenti poco lucidi che mi arrivarono alle orecchie precedettero un braccio che mi strinse contro il petto roccioso del ragazzo in una morsa. Era caldo, il suo braccio era caldo, il suo petto e il suo respiro erano caldi. Smisi di tremare lentamente.
«L’iceberg che ha fatto affondare il Titanic era più caldo» ironizzò, anche se non sapevo a cosa si riferisse e cosa fosse il Titanic. Lentamente lasciai distendere le gambe e le mie braccia si slegarono, poggiandosi sul materasso e godendosi il calore che il braccio di lui si trasmettesse in tutto il corpo.
Mi chiesi cosa stavo facendo, perché lo facevo, e soprattutto perché mi ritrovavo ad abbracciare uno sconosciuto nonostante secondo le leggi del mio millennio lo vietassero severamente. Perché mi ritrovavo lì, in quel casino, a patire il freddo, a patire la fame che iniziava a farsi sentire, col terrore di rimanere bloccata lì per sempre. Come mi sarei ambientata, come avrei avuto una vita normale? Tutti quei sogni che sembravano realizzabili prima di partire vennero sostituiti da una voglia assurda di tornare a quella che usavo chiamare “casa”. O la Norvegia. O qualunque cazzo di posto che fosse nel 3023.
Anche con gli occhi chiusi sentivo il suo respiro che si era regolarizzato. Forse si era addormentato. Feci per prendere il suo braccio e spostarlo, ma forse avevo la mano troppo fredda e sobbalzò, stringendomi un poco di più.
«Dove hai intenzione di andare?» sussurrò con un sorrisino scaltro sulle labbra. Mi voltai subito per non guardarlo, era imbarazzante averlo così vicino. Non avevo mai avuto un contatto così vicino con un uomo, a parte Kris, ed ero davvero con lo stomaco in subbuglio.
«Non ho bisogno di te per sopravvivere» gli soffiai poco amichevole.
Aumentò la presa. «Io credo che tu ne abbia bisogno eccome. Mi chiamo Dan.»
Non risposi, non volevo rivelare il mio nome. Il suo era davvero strano, aveva qualcosa di così antico, suonava male. Si protese verso il mio viso e temetti che avesse rotto le distanze con un bacio, ma per fortuna aveva solo allungato il braccio per accendere un tubicino di vetro a spirale incastrato in un sostegno tutto nero di metallo. Non sapevo cosa fosse e lo osservai attentamente.
Mi rizzai a sedere e lui fece lo stesso. «Tanto fra due giorni sarò già via.»
«E dove te ne torni?»
Non sapevo cosa rispondere. Avrei dovuto tirare uno Stato a caso, sperando fosse credibile. «In... in Inghilterra.»
Scoppiò a ridere. «Noi siamo in Inghilterra.»
Mi morsi il labbro, mi aveva scoperta. Ormai il suo sguardo si era fatto più curioso, aveva due bellissimi occhi blu, e immaginai fosse il Dan della foto che Chris teneva appesa alle mensole del suo bancone. Era davvero bello dal vivo, alla luce, con quegli occhi che non lasciavano trapelare alcuna debolezza. Erano forti, come lui, come tutto il resto del suo corpo. Anche il busto era abbastanza muscoloso, anche se magro, e lo potei vedere dalla maglietta poco larga che portava. Era buffo com’era vestito e come portava i capelli, e soprattutto il suo modo di porsi. Anche il suo nome era buffo. Iniziai a vedere tutto non come una minaccia, ma un aiuto.
Il neurofono vibrò di nuovo per due secondi, poi dovetti aprire la valigia e prenderlo in mano. Era uno schermo grande quanto il palmo della mia mano, touchscreen, e attraverso il neurofono si potevano mandare messaggi elettrici attraverso il pensiero. Quando ero più giovane non esistevano, furono inventati quando avevo all’incirca diciassette anni; furono una grande invenzione. Inizialmente nessuno sapeva usarli, ma in pochi anni divennero l’oggetto di lusso più acquistato nella Norvegia. Eravamo il primo Paese del continente russo ad averne possesso, i nostri scienziati erano invidiabili anche agli americani.
Dan invece teneva in mano un aggeggio più piccolo, più spesso, con un dispaly touchscreen piccolo e con bassa definizione. Kris diceva che i primi mezzi di comunciazione furono i cellulari, che divennero mano a mano più evoluti fino a raggiungere il neurofono, ovvero quello che avevo in mano io. Dan lo guardò insistentemente con gli occhi semichiusi.
«Cosa...?» non riuscì a terminare la domanda. Dovetti arrendermi e spiegargli tutto.
«Questo è un neurofono. Mandi messaggi telepaticamente. Ha un sensore che registra le onde e gli impulsi nervosi che il cervello elabora quando si pensa a qualcosa di preciso da dire e lo invia sottoforma di testo scritto al destinatario, solo che qui non invia nulla. Riesco solo a ricevere» spiegai «Vuoi provare?»
Aprii la cartella dei messaggi non inviati e premetti l’icona che serviva a iniziare la registrazione. Glielo passai in mano e un po’ incerto pensò a qualcosa, e pochi secondi dopo il messaggio scritto apparve sulla schermata bianca. C’era scritto un “come ti chiami?” e mi vennero i brividi. Non sapevo se dire il mo vero nome o inventarne uno.
«Ti ho fatto una domanda telepaticamente» sorrise indicando il desktop con un cenno del capo «potresti rispondermi telepaticamente o parlare, come è più comodo per te.»
Corrugai la fronte. «Mi chiamo Rachel.»
Estese ancora di più il suo sorriso guardandomi. «Sul serio? È un nome inglese. Da dove vieni quindi? Dato che questa è l’Inghilterra e qui noi di queste cose non ne abbiamo viste mai.»
«Dalla Norvegia.»
Mi lanciò uno sguardo interrogatorio. «Norvegia? In Norvegia esistono queste cose?»
Sospirai. «La mia è una Norvegia molto diversa.»
Rimase il silenzio, non smetteva di fissarmi come per incitarmi a continuare. Non sapevo se dire che venivo da un’altra epoca più evoluta e magari metterlo nei pasticci.
«Beh, è un luogo molto tecnologico» mi giustificai.
«Sì, ma in Norvegia fa molto più freddo, e tu sembri suscettibile al freddo.»
Maledetta la sua perspicacia e curiosità. Ma non poteva farsi i fatti suoi invece di riempirmi di domande?
«Ci sono elevati sistemi di riscaldamento corporeo automatico» continuai in tono triste, per fargli capire che non volevo parlarne.
«Automatico? E in cosa consiste?»
«Beh» mi guardai intorno, e indicai l’angolo in legno della stanza illuminata da quella lucina arancione «in un angolo come quello, nelle nostre case, ci sono dei sensori che quando registrano un calo o un aumento della temperatura ambientale e la stabilizza adattando il corpo a un determinato tipo di temperatura. All’esterno invece abbiamo dei conduttori aerei sotterranei che attraverso la forza dell’acqua si ricava un tipo di energia e di calore in grado di riscaldare notevolmente la temperatura del luogo.»
Cercai di essere più chiara possibile, ma lui continuava a guardarmi confuso. «Come fanno sei semplici conduttori a riscaldare una città?»
«Oslo è la città più tecnologicamente avanzata in questo campo, e hanno studiato un modo per ottenere anche l’energia eolica e sfruttarla per regolare la temperatura, ma ovviamente sono costosissime queste strutture e solo i ricchi possono permettersele» proseguii.
«E tu sei ricca?»
«Non sono ricca di mio, un’associazione per la vita ha dato a me i soldi per la morte di mio padre dopo che è morto. Mia madre è andata dalla sua, e io mi sono trasferita a Oslo. Campo un po’ coi soldi dell’assicurazione, un po’ con dei lavoretti al laboratorio scientifico.»
La sua espressione si fece triste. «Mi dispiace.»
Gli sorrisi. Non era un cattivo ragazzo, saremmo potuti andare d’accordo. Quella che prima era riluttanza totale ora si stava trasformando in simpatia. Dan era bello, sensibile e chissà, avrebbe potuto piacermi. Non avevo mai frequentato un ragazzo in vita mia, non sapevo come comportarmi, ma lui aveva l’aria di chi non aveva visto una sola ragazza un tutta la sua vita.
Dopo attimi di silenzio, riprese la parola. «Tutto questo non può esistere.»
Rimasi spiazzata. «Ma esiste.»
«Non in questo mondo» mi congelò più di quanto sentissi freddo.
«Il mondo va avanti, si evolve, solo che noi non lo sappiamo» dissi senza nemmeno un filo di concretezza, e l’aveva capito.
«Te l’ho già detto, tu non sei di quest’epoca.»
Strinsi i pugni. Abbassai lo sguardo e poi tornai a guardargli le iridi blu oltreoceano che erano socchiuse in un misto di curiosità e di freddezza.
«Io... io sono norvegese ma... ma non di questa Norvegia... gli scienziati di Oslo sono riusciti a costruire la prima capsula spazio-temporanea, e io ho deciso di prendere parte al progetto come cavia umana. La prima volta, a progetto ancora non terminato, avevano mandato un robot protocollo munito di telecamere e radiotrasmettitori, ma non ricevevano segnali e ciò voleva dire che le onde elettromagnetiche del robot non sarebbero servite a raccogliere informazioni. Così, la soluzione migliore, era mandare una persona, ma nessuno si era presentato oltre me. Sono finita qui e sono entrata in questo posto, conoscendo Chris. E per tornare a casa dovrei aspettare lo scadere delle quarantotto ore, tornare nel punto esatto dove mi aveva lasciato la capsula e sarei tornata nella mia epoca.»
Aveva ascoltato con attenzione ogni singolo dettaglio. Lo sentivo che era interessato, perché in base a quello che dicevo inarcava un sopracciglio, faceva un sorriso, si intristiva, insomma riusciva a percepire le emozioni che avevo provato io in quella vicenda. Dan era particolare, aveva i sensori dei sentimenti, non della temperatura. E come i sistemi di riscaldamento cambiavano la temperatura, lui cambiava il mio umore. Lo guardavo, lui sorrideva io sorridevo. Rideva e ridevo con lui, anche quando faceva uno sguardo triste mi intristivo con lui. Era un manipolatore di menti, peggio del neurofono, riusciva a capire non solo cosa pensavo, ma anche con quale emozione o stato d’animo lo pensassi.
Anche quando fingevo di dormire aveva capito che morivo di freddo, che avevo bisogno di calore, ma che avevo paura di avvicinarmi a lui. Ed era riuscito a trasformare la paura in simpatia, se non in attrazione. Perché ero attratta da Dan. Era fisicamente bello e spiritualmente celestiale. Non avevo mai visto niente di vero o di sincero nella mia epoca, tutto era mascherato dai computer e dal messaggi telepatici, a stento potevamo sentire la voce di qualcuno, non ricordavo quella di mia madre, quella di mio padre era solo una registrazione nei video e basta, non avevo amici, nessuno. Uno dei motivi per cui ero partita in un’altra epoca, disorientata, ad affrontare una realtà più dura, fredda, più difficile per una che viveva nel massimo del comfort.
Dan  mi chiese per l’ultima volta se avessi freddo. Stavo per dire di no, che mi ero riscaldata, ma rifiutare un altro dei suoi abbracci calorosi sarebbe stata una follia. Un abbraccio da uno sconosciuto era più che un abbraccio con Kris, che era un vecchio scienziato che conoscevo da una vita. Avrei abbracciato Dan, un giovane bello quanto ipnotico, del quale non conoscevo né la vita né la storia.
«Solo un po’, ma credo di essermi riscaldata» finsi un brivido e lui rise. Non era stupido. Infatti non mi abbracciò come prima, per riscaldarmi, era un abbraccio più sentito, più sincero, più vivo.
«Dan» lo chiamai tornando sotto le coperte, mentre lui si riaffacciava sopra di me per spegnere quell’aggeggio luminoso. Ci ritrovammo faccia a faccia, vicinissimi, troppo vicini e temetti il peggio.
«Dimmi» rispose senza spostarsi.
Deglutii. «Tu sei da solo?»
Annuì spostandosi da lì. Eravamo al buio ora, ma io continuavo a vederlo che si passava una mano tra i capelli, con un sorriso sulle labbra. Per la prima volta fissai quelle labbra mordendo le mie. Era qualcosa di irresistibile. Smisi di guardarlo solo quando lui con un braccio mi afferrò il fianco e mi trascinò accanto a lui.

Angolo dell'autrice
Beh,cosa ne pensate? Colpo di scena? Ditemelo in una recensione,ho tanto bisogno del vostro giudizio!
ps: non so se continuerò molto in questi giorni perché ricomincia la scuola,ma tenterò di tenervi sempre aggiornate.
  
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