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Autore: Gwen Chan    06/01/2014    1 recensioni
Tokyo, 2053.
In un futuro prossimo, dove i progressi tecnologici hanno permesso di raggiungere una semi-immortalità grazie alla possibilità di trapiantare la propria coscienza da un corpo all’altro e dove un potente computer dall'intelligenza umana, se non superiore, controlla una Tokyo semi-distrutta, conservare la propria identità e la propria autonomia diventa una lotta continua.
Nei bassifondi si attende l'arrivo di un Salvatore.
[AU][Partecipa al Cyberpunk contest indetto da ovest]
Genere: Drammatico, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cry, Sakuya Kira, Sara Mudo, Setsuna Mudo, un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Tokyo, 2053
Poteva fingere. Nessuno lo vietava. Poteva fingere ogni mattina quando priva gli occhi. poteva ripetere la solita nenia, seduto sul bordo della propria brandina.
Non avrebbe cambiato la realtà dei fatti.
“Io mi chiamo Setsuna Mudo. Ho sedici anni. Sono nato maschio. Mia madre mi odiava.”
Il freddo invernale gli artigliò i polpacci non appena si liberò della coperta che permetteva al corpo di trattenere un minimo di calore.
Inverni gelidi, durante i quali la temperatura precipitava fino a venti gradi sotto lo zero, e estati roventi erano l’offerta di un clima impazzito. Questo e altro avevano provocato l’esplosione.
Posò i piedi sul cemento, trattenendo un brivido di fastidio che comunque gli fece inarcare la schiena, e si affrettò a vestirsi con il solito giubbotto in nylon e pantaloni in similpelle.
Poteva anche continuare a fissare un punto imprecisato di fronte al suo naso o ostinarsi a non accendere la luce, ma ciò non avrebbe cambiato nulla.
“Alexiel!”
Quel nome con cui Kira lo salutava ogni mattina fungeva da memento. L’immagine riflessa dalla lucida superficie di una portiera d’automobile che ora serviva da specchio non lasciavo adito a dubbi.
Setsuna si stirò, portando le braccia tese sopra le tesa, e dall’altra parte una donna sui vent’anni imitò i suoi movimenti. Fluenti capelli corvini –Kira gli aveva proibito di tagliarli e, be’, era meglio non contraddire Kira- e un seno prosperoso lo intrappolavano.
Distolse lo sguardo dall’apparenza, legò la chioma in una coda vaporosa – solo per non inciampare nei suoi stessi ricci- e infilò un coltello a scatto nella cintura. Girare disarmati nei bassifondi equivaleva a disegnarsi addosso un bersaglio per le psico-freccette, gridando “colpitemi!”.
Poi afferrò saldamente i pioli arrugginiti di una scaletta, fece forza sulle braccia e a fatica riemerse alla luce. A pochi metri dai suoi piedi si trovava un cubicolo umido e buio, situato qualche metro sotto la vecchia metropolitana e ridotto alle minime necessità al punto che il letto e lo specchio erano rimasti l’unico mobilio.
Lo spettacolo, una volta emerso dalla botola, - sempre sottoterra, ma a uno sputo dal cielo- non era meno deprimente.
Vecchi vagoni ferroviari giacevano ribaltati su un fianco, sventrati e abbandonati nella posizione in cui i rispettivi incidenti li avevano cristallizzati. Alcuni erano stati trasformati in abitazioni di fortuna, almeno quelli in cui l’odore di sangue non aveva impregnato le poltrone oltre umana sopportazione. Gli scarafaggi zampettavano sui pilastri coperti di graffiti, salivano sulle scarpe e si infilavano a tradimento sotto i vestiti. Dopotutto si conosceva l’incredibile resistenza di quegli insetti. O quanto riempissero lo stomaco.
Setsuna ne schiacciò un paio nella sua passeggiata mattutina, più per noia che altro.
“Oh, sei sveglio. Ti stavo cercando.”
Per fortuna Kira manteneva la decenza di usare i pronomi maschili quando parlava con lui.
 
Si sente perso senza il peso familiare di Sara sulle spalle. Da quando le gambe della bambina sono diventate troppo deboli per sorreggerla, è sempre stato lui a trasportarla. E ora gliel’hanno portata via.
Avanzando cautamente per via degli occhi bendati, inspira gli odori dell’ambiente, zolfo e disinfettante, muffa e acciaio, per riuscire almeno ad immaginare cosa ci sia attorno a lui. in lontananza qualcosa gocciola. Le apparecchiature laser frusciano e crepitano. L’elettricità statica gli fa drizzare i capelli.
Gli restituiscono la vista una volta arrivati in una saletta minuscola attrezzata con un paio di sedie, forse un ripostiglio per le scope, prima che la luce ribaltasse ogni regola.
“Allora, sei sicuro?”
Setsuna annuisce. L’uomo –Kira- che gli fa da accompagnatore pare soddisfatto. Le labbra sottili si piegano in un ghigno impercettibile, nelle iridi grigie ricompare la vita. È un istante. Quindi di nuovo il nulla.
“Decideremo noi quale nuovo corpo avrà tua sorella. Dove vivrà. Quale sarà il suo destino. Questi sono i patti.”
Setsuna annuisce, di nuovo. Nei pugni serrati le unghie stanno segano la carne. Sui palmi scorrono lacrime di sangue. Sangue.
Rosso. Sangue. Ha un odore così penetrante che potrebbe impazzire. Sangue. Gli annebbia i sensi. Di nuovo. Come quella volta all’asilo. Le suppliche non lo fermano, vuole più sangue, sempre di più. Morde e si agita.
Il sangue aizza una belva rintanata nel suo intimo, che graffia e ringhia. Vuole cibo. Vuole carne fresca. Mostra le fauci e si avventa sulla persona più vicina. Affonderà i denti nella pelle chiara, mangerà il cuore.
Non ha preso in considerazione la forza di Kira.
“Devi imparare a controllarti, moccioso!”
La stretta sul collo gli impedisce di respirare. Kira lo fissa serio e non accenna a lasciarlo andare.
“Sei troppo impulsivo e ti cacci sempre nei guai, vero?”
Aria. Gli serve aria. Kira continua a premere. Lo chiama stupido. questo non faceva parte di patti! Oppure è stato davvero troppo ingenuo. Magari il loro piano prevedeva la sua morte sin dall’inizio. 
“La mia ragazza era impulsiva come te. Proprio come te.” Aggiunge Kira prima di allentare la presa. Setsuna si porta le mani alla gola. Tossisce. Sibila. Sputa.
“La prossima volta che stai per perdere il controllo ricordati di questo dolore e pensa! Ora possiamo continuare, ok?”
Non attende alcuna risposta. Lo solleva di peso – le dita attorno al braccio impediscono ogni possibilità di fuga- e lo trascina fino a una forma di parallelepipedo coperta da un telo. Una cassa. O una bara. Kira la scopre.
“Alexiel era selvaggia, fiera e incontrollabile. Finché non ha trovato qualcuno più forte di lei.”
Sotto la superficie in plexiglas giace una ragazza sui sedici anni, attaccata a un groviglio di tubicini che la nutrono e spirano le scorie corporee. Solo la piccola macchia di nebbia sopra la bocca carnosa o i capelli che continuano a crescere anche nel coma rimangono quali grottesche imitazioni della vita.
“I medici dicono che non si risveglierà. È solo un involucro. A meno che non abbia una nuova mente” spiega Kira. Per un secondo la voce trema. Nostalgia? Impossibile dirlo. Setsuna non può più tirarsi indietro. Loro non amano essere disturbati senza un motivo valido.
Non ha altra scelta.
 
Rispose con un mezzo grugnito a Kira. Non che lo odiasse. Dopo quasi sei anni di convivenza forzata aveva persino cominciato a considerarlo come un amico. O un mentore, senza esagerare.
“Luna storta?”
Setsuna sbuffò, spalancò le ante di quella che doveva essere una vetrinetta per dolci di un vecchio bar e ne ripescò una mascherina.
“Io esco. Il diavoletto vuole parlarmi. Non lo sopporto! Non sopporto quando mi chiama Alexiel!” imprecò, prima di posizionare la maschera sulla bocca.
La pura di svegliarsi una mattina e non ricordare chi era lo faceva impazzire. Del resto nessun trapianto poteva essere al 100% sicuro e le probabilità di rischio aumentavano con le operazioni clandestine.
“Vedo immagini e non so se siano dejà vu o ricordi di un’altra vita!”
Kira gli afferrò il polso, senza proferire parola, lo attirò a sé. Gli presi il viso fra le mani e, sebbene ci fosse la maschera antigas a dividere le loro bocche, Setsuna si sentiva comunque a disagio. “Ti infervori come lei” commentò invece con noncuranza. “La mia principessa guerriera”. A volte faceva venire i brividi.
“Lucifer!”
Salvato in corner. Setsuna gioì del nome in codice di Kira approfittò del fatto che qualcuno lo avesse distratto per svicolare vero le scale di servizio più vicine. Il corpo in cui era imprigionato si faceva ogni giorno più pesante.
Chiuse gli occhi, protetti da un paio di occhiali da sole a specchio, poco prima di emergere all’aria aperta. Sopra di lui l’argento e il giallo malaticcio da anni coloravano il cielo malato. Grattacieli sventrati mostravano il loro scheletro di tubi color ruggine, animaletti deformi correvano a nascondersi. Tripolini con due code venivano uccisi da piccioni innaturalmente aggressivi. Fin dove l’occhio poteva spingersi regnava la desolazione. Solo cemento e scorie e polvere e non un filo di verde. Non una pianta né un fiore. In periferia le mura di quarantena si alzavano minacciose. Oltre di esse, i ricchi trascorrevano le loro vita agiate, illudendosi che il semplice cemento potesse fermare le radiazioni e che i loro figli non sarebbero mai nati con qualche strana malformazione. Rinchiusi nelle loro gabbie di vetro e acciaio si divertivano ad assistere alla morte del volgo perché ciò faceva dimenticare loro come l’intero Giappone da una decade si trascinasse isolato da mondo, marchiato ed evitato.
Setsuna camminava tra i resti di un quartiere che un tempo doveva essere stato importate, sede di giganteschi negozi, mecche del consumismo, e lussuosi ristoranti alla moda. Prima che diventasse il dominio incontrastato della piccola criminalità organizzata. Prima che fosse il regno degli Evils.
“Alexiel!”
Al solito non fu abbastanza veloce da scansare la stretta del suo interlocutore. Una piccoletta dalla pelle abbronzata si avvinghiò stretta ai suoi fianchi.
“Mi chiamo Setsuna!” ribatté piccato.  Quando quel diavoletto avrebbe imparato il suo nome?
“Sei cresciuta, Cry?” aggiunse, addolcendosi. La diretta interessata sbuffò dietro gli occhiali da aviatore che le coprivano la faccia e sulla schiena ondeggiò una lunga e sottile treccia color platino. Sebbene la ragazza cercasse di nascondere in tutti i modi il proprio sesso, Sersuna aveva intuito la verità dal loro primo incontro.
“Sai benissimo che non posso più crescere. Comunque, Voice continua a non fidarti di te. Dice che avere tuo fratello come capo dei nostri peggiori nemici può essere un pericolo.” spiegò, guidandolo con agilità tra le collinette di rifiuti. Senza guanti, il giovane badava bene a non toccare nulla.
“Mi sono stancato di ripetergli che non ho fratelli. Avevo una sorella e non ho sue notizie da sei anni!”
Cry non rispose, concentrata in ogni sua fibra muscolare per muoversi in un ambiente malato e ostile.
“Ma Alexiel sì e sai bene quanto le persone amino fermarsi alle apparenze.”
“Sono delle scuse?”
“Una specie…è solo che…”
“Alexiel ti ha salvato da morte certa, lo so. So anche che soffri a vedermi usare il suo corpo. Doveva essere una persona splendida e tutto, ma io non sono lei.” Setsuna completò la frase al posto della giovanissima leader degli Evils. Almeno giovane in apparenza. Le loro voci uscivano distorte attraverso le maschere. Distorte come le percezioni reciproche. Come se ci fosse uno schermo informatico a separarli. In fondo di fronte a un PC nessuno si preoccupava mai di scoprire se la mente dietro l’avatar corrispondesse all’apparenza virtuale. Altrimenti fingere non sarebbe stato così divertente.
Improvvisamente una figura sconosciuta entrò nel campo visivo del sedicenne. Si palesò per un istante, poi scomparve.
Il ragazzo si fermò di scatto. Si guardò intorno alla febbrile ricerca di qualunque cosa avesse catturato la sua attenzione. Cry si allontanava, ignara.
Andiamo, dov’era? Non credeva nei presagi né ai fantasmi, ma in quella presenza c’era qualcosa di strano. Setacciò i cumuli di ciarpame concentrandosi su ogni possibile movimento.
Eccola! Esultò intimamente. Nascosta tra un televisore a schermo piatto e un frigorifero, rovistava nella spazzatura. Non portava guanti. Chi poteva essere così pazzo?
“Oh, oh. Sono così maldestra! Il padrone non sarà contento!” la udì lamentarsi. Aveva una voce stranamente metallica. Forse un robot. Oppure si trattava di qualcuno con un impianto vocale. Ancora inginocchiata alzò il viso e parve fissarlo. Per quanto fossero lontani, Setsuna ebbe la netta sensazione che fosse interessata proprio a lui. Il suo aspetto era stranamente familiare. Di nuovo quel senso di dejà vu.
“Sbrigati!” lo richiamò Cry. Agitava le braccia dalla sezione dei rifiuti in plastica.
“Un attimo…”
La sconosciuta doveva aver trovato quello che cerava o essersi arresa perché si era rimessa in piedi e a passo svelto si stava allontanando. Setsuna parlò senza riflettere, come d’abitudine.
“Sara!”
“Cosa?” urlò di rimando la sua guida, allargando le braccia in un chiaro segno di esasperazione. Impossibile dire se non avesse davvero sentito o se fosse stanca dell’ossessione che animava il ragazzo.
“Non importa. Di’ a Voice che lo vedrò dopo.”
“Come?”
“Devo fare una cosa!” replicò Setsuna e prima che potesse seguire i ragionamenti del suo inconscio, le sue gambe già correvano. Le paranoie di Vice avrebbero dovuto attendere, al pari dei rimproveri di Cry.
Correva per quanto la goffaggine di una mente maschile in un corpo femminile glielo permettesse.
Inseguiva la sconosciuta.
Cacciava un miraggio.
Nei suoi lineamenti aveva riconosciuto quelli di Sara. Non della Sara bambina, ma della Sara adolescente. Quelli che avrebbe avuto a quindici anni senza trapianto. Cry gli avrebbe schiacciato i piedi e avrebbe detto che si era appena tuffato in un’illusione. Tutto sommato era vero.
La sconosciuta si muoveva con sicurezza per vicoli, ma più passava il tempo più i suoi movimenti si facevano meno fluidi. E Setsuna a ogni passo si convinceva che non fosse umana. Altrimenti senza la maschera antigas sarebbe già svenuta nel migliore dei casi.
Continuò a seguirla. Se solo avesse rallentato un poco!
La ragazza svoltò leggera in una via sulla sinistra, si infilò in un sottopassaggio e in un’uscita laterale.
“Oh, no!” esclamò, fermandosi di fronte a un bivio. Se si era dimenticata la strada di casa, per Setsuna poteva essere l’occasione per fermarla. Approfittando della sua distrazione, le afferrò l’avambraccio.
“Chi sei? Lasciami! Padron Uriel” gridò la ragazza. Per essere un robot- perché doveva per forza esserlo- aveva una pelle sorprendentemente calda.
“Sara? Sei Sara? Ti ricordi di me? Perché hai il suo viso?” la incalzò il ragazzo. Non si sarebbe fatto sfuggire il primo indizio dopo anni di vuota attesa. L’androide ruotò la testa di mezzo grado, abbastanza per guardarlo negli occhi.
“Io mi chiamo Doll. Signor Uriel!”
Setsuna non ebbe il tempo di interrogarsi sull’identità del salvatore che Doll invocava a gran voce perché Uriel stesso, un uomo avvolto in un lungo mantello nero, comparve dalle ombre direttamente dietro il suo ostaggio. Allentò la presa.
“Chi è il temerario che disturba la quiete del mio laboratorio? Chi osa attaccare la mia aiutante?” esclamò il padrone di Doll, la quale corse a nascondersi dietro la sua imponente figura. Il cappuccio calato impediva di riconoscere i lineamenti di Uriel. La sua presenza riempiva l’ambiente circostante.
“Mostra il tuo volto” ordinò ed estrasse dal mantello un aggeggio simile a un bastone di acciaio munito di un interruttore rosso grande quanto un’unghia. Lo premette e una lama curva scattò fuori, dritta sotto la gola di Setsuna. Pericolosamente vicina.
A malincuore il ragazzo sciolse le cinghie della maschera e privò gli occhi della protezione fornita dagli occhiali a specchio. Dopo un istante di esitazione, la falce si allontanò dal collo.
“Alexiel?” sussurrò Uriel. Il cappuccio scivolò a mostrare i lineamenti sinceramente stupidi. La fronte si aggrottava come chi incontra una vecchi amante creduta morta. Setsuna scosse la testa. “Non più.”
“Oh… un trapianto. Immaginavo che un giorno qualcuno che conosceva lo stampo di Doll sarebbe giunto al mio laboratorio. Se vuoi, potrei avere delle informazioni sulla persona che cerchi” propose. Setsuna non accennò a seguirlo.
“Stavi per uccidermi!”
“Avevi turbato la mia quiete. Senza protezioni è pericoloso rimanere fuori troppo a lungo, vieni?”
Il giovane si soffermò prima su Doll, poi su Uriel, di nuovo su Doll. Doveva esserci un motivo se il robot somigliava tanto alla sua cara sorellina. Senza considerare che l’uomo che lo invitava conosceva il suo nome. Quello di Alexiel, almeno.
“D’accordo” acconsentì.
 
Un tavolino rotondo apparecchiato con tazze sbeccare come nelle illustrazioni di quei libri di fiabe tanto amati da Sara posto nel mezzo di una fabbrica di bambole era quanto di più grottesco Setsuna avesse mai visto. Davanti a lui fumava una tazza di un misterioso liquido ambrato.
“È tè sintetico. La versione più simile all’originale. Non è avvelenato.” Lo rassicurò Uriel, servendo un sorso della propria bevanda. Setsuna, pur dubbioso, lo imitò a ruota.
“Perché Doll somiglia a mia sorella?” chiese, sbirciando il suo ospite da sopra la tazza.
“Immagino tu sappia che fine fanno i corpi originali dopo i trapianti.”
“Vengono congelati se sani oppure lasciati a morire.”
Questa era la voce maggiormente accreditata nei bassifondi, la versione che di bocca in bocca più si avvicinava alla verità sotto la cupola di bugie costruita dagli schiavi del GC al governo.
La conoscenza era un lusso per pochi, i poveri potevano solo speculare.
“Alcuni sì. Altri vengono però tenuti come cavie.” lo corresse Uriel “Come la tua Sara.”
Tra i due interlocutori calò il silenzio, interrotto solo dal rumore sordo di un vecchio palmare che doveva aver portato Doll. Sul piccolo schermo si susseguivano immagini sgranate.
Un corpo immerso in un liquido nutritivo. Una fila di campioni di tessuti. Un paio di vacue iridi color nocciola.
“Sara!”
Non aveva dubbi. Per quanto la qualità delle foto fosse pessima, quella era sua sorella. Non la Sara bambina, ma la Sara adolescente. Addormentata chissà dove.
Gli mancò il fiato.
“Dove hai avuto queste foto?”
“Ho un amico nella polizia.”
 
“Principessa! Principessa!”
Cry non aveva ancora compreso perché tutti si ostinassero a riferirsi a lei con quel titolo altisonante. Istintivamente sfiorò gli orecchini che portava dal giorno dell’esplosione. L’unico ricordo di suo padre.
Nella Tana, dove si era diretta dopo che quell’impulsivo di Setsuna era corso via accecato dal testosterone, perché poteva anche avere il corpo di una donna, ma rimaneva un adolescente in preda agli ormoni, il caos dominava. I pochi computer artigianali lampeggiavano e gemevano nello sforzo si sottrarsi al controllo dello Stato con i loro firewall. Gli uomini correvano sui vecchi binari della metropolitana e chi era ormai spacciato persino per un trapianto mentale riceveva la sua iniezione letale.
“Avete visto mia cugina?” interrogò un paio di hacker di passaggio.
“È andata al settore H per recuperare i caduti e fare rapporto.”
“La situazione?”
“Stando alle ultime voci, lo abbiamo perso.”
Cry strinse il labbro inferiore tra i denti. Il peso di essere un capo gravava solo sulle sue spalle. Ultimamente gli attacchi dei seguaci di Rosiel ai loro quartieri si erano fatti sempre più aggressivi, al punto che le tregue stipulate nelle precedenti settimane avevano lo stesso valore di una manciata di glitches.
Senza contare la loro vulnerabilità sul piano informatico.
“Se torna, dille di aspettarmi fuori dalla mia camera. Nessuno mi disturbi. Vado a contattare i tre draghi.”
 
 
   
 
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