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Autore: ElathaDeiCorvi    07/01/2014    2 recensioni
Avevo promesso di stare con Lui per sempre. Per tutta la vita che mi sarebbe stata concessa.
E sapevo, nel profondo del cuore, che continuando a viaggiare in quella strana scatola blu, la mia aspettativa di vita sarebbe stata spaventosamente breve.
Il mio presentimento, alla fine, si era rivelato giusto.
La battaglia di Canary Wharf aveva decretato la mia morte.
Quel giorno, separata da Lui, io ero morta dentro.
Il mio nome è Rose Tyler.
E questa è la storia di come sono nata di nuovo
Genere: Avventura, Romantico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Doctor - 10 (human), Donna Noble, Rose Tyler
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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2.Date Bussare alla sua porta era sempre un terno al lotto.
Solo il venerdì prima lo aveva trovato a testa in giù, appeso ad uno strano tubo che aveva montato al soffitto durante la notte, a tentare di ottimizzare l’intera rete elettrica di villa Tyler.
Certo… aveva fatto saltare la corrente in tutto il dannato isolato. Ma una volta sistemato, l’apparecchietto inserito all’interno del lampadario aveva davvero generato elettricità. E avrebbe continuato a generarla per 10.000 anni, a detta sua.
A volte, nei due mesi vissuti dall’ennesimo addio del Dottore alla Black Wolf Bay, Rose si era sorpresa a pensare a quanto poco fosse cambiato durante i due anni trascorsi dal loro ultimo incontro.
Sorpresa, e poi indispettita.
Tutti lo consideravano il Dottore. Jackie, Pete, persino il piccolo Tony… tutti lo chiamavano Doctor.
Tranne lei.
Per lei era John, il nome che si era scelto quando Torchwood gli aveva procurato i documenti di identità necessari a vivere a Londra, ed essere cittadino inglese.
Poco importava che, in quelle prime ore assieme, seduti abbracciati sulla sabbia umida ad aspettare l’elicottero che Pete aveva mandato a recuperarli, le avesse detto tutto quello che non aveva avuto il coraggio di dirle nel tempo trascorso a bordo del TARDIS.
Poco importava che lei adesso conoscesse il suo nome, le sue labbra, tutto quello che era successo da quando il teletrasporto l’aveva salvata dall’eternità nel Vuoto, e come la sua voce risuonava ed i suoi occhi nocciola brillavano quando le diceva “Ti Amo”.
Poco importava che preferisse gli stessi abiti, la stessa non-acconciatura, e che avesse sempre la solita fissa per le banane.
Non era il Dottore. Non era il SUO Dottore. Era una copia, lei lo aveva visto. Non riusciva a smettere di amarlo, ma non per questo riusciva a sorvolare sul fatto che John fosse in parte generato da qualcosa che originariamente non era il Dottore.
Si risolse a bussare, ammesso e non concesso che lui riuscisse a sentirla al di sopra dell’assordante rumore di ferraglia che proveniva dall’interno della piccola dependance in cui Pete l’aveva sistemato al loro ritorno a casa.
«Jackie… non adesso!!!»
«John… sono Rose.»
Qualcosa di metallico cadde sul pavimento con un gran fracasso.
«Aspetta un momento! Solo un momento!»
Anche con la porta chiusa riuscì a distinguere chiaramente il ronzio del cacciavite sonico che si era costruito al loro arrivo a Londra.
Qualche minuto dopo, la serratura scattò con un “click!” leggero, permettendole di entrare e guardarsi attorno allibita.
Il salottino sembrava un garage.
Diversi attrezzi erano sparsi qui e là sui mobili, il divano era stato spostato in un angolo, il televisore coperto con un telo.
Nel bel mezzo del tappeto persiano di Jackie svettava, scintillante ed apparentemente nuova di zecca, una Vespa 50, azzurra come il cielo in estate, a cui John era appoggiato quasi con noncuranza a braccia e gambe incrociate, jeans e maglietta sporchi di grasso per motori e le sempre presenti scarpe da ginnastica, legate assieme per i lacci, buttate a cavallo di una spalla.
Sorrideva divertito come la prima volta che le aveva mostrato il garage del TARDIS, dove tutti i mezzi che aveva accumulato nei suoi viaggi stavano ammassati alla rinfusa (carrozze del ‘500 accanto all’ultimo modello di Cadillac a levitazione uscito nel 5850) e le aveva detto di sceglierne uno, uno qualsiasi, per poterle dimostrare che non sapeva guidare solo quella sua assurda astronave.
«Ti piace?» ammiccò nella sua direzione, passando le belle dita affusolate sul manubrio. L’unica cosa che Rose riuscì a replicare fu un attonito:
«OH… MIO… DIO… e quella dove l’hai trovata?»
«Oh! Sulla vostra versione di Internet, ovviamente! Si può richiedere di tutto: un frigorifero, un droide da carico, un e-reader, un tappeto nuovo per tua madre, i pezzi per assemblare personalmente il proprio dirigibile e… questa! Ci ho dovuto lavorare un po’… beh, più di un po’… beh, diciamo tutta la notte. E il colore non è esattamente quello giusto, ma non ho potuto fare di meglio. E ovviamente le ho fatto qualche modifica. Ma mi sembra perfetta, che ne dici?» alla solita velocità impossibile scattò dietro il mezzo, afferrò qualcosa e corse da lei fermandosi a pochi centimetri: tra le mani teneva due caschi, uno rosa confetto ed uno bianco, simili a piccoli elmetti lucidi con tanto di visiera, come futuristici berretti da baseball.
«E poi ho questi.» riuscì ad essere invitante, accattivante ed entusiasta con un solo sguardo. «Dimmi che verrai con me…» la implorò, lasciando la frase in sospeso, quasi intimidito dalla propria audacia.
«Dove?» Mordendosi il labbro, Rose ricacciò giù il groppo che le era salito in gola, assieme all’assurdo istinto di rispondere “sì” senza mai domandare, come aveva sempre fatto con Lui.
«Beh…» mollandole i caschi tra le mani, John frugò nelle tasche del jeans per estrarre un mini-pad, sul cui schermo campeggiava una serie si scritte colorate.
«Due anni fa, quando il vostro Presidente non è riuscito ad impedire a Lumic di scatenare i Cyberman, questa nazione ha votato… giusto?»
«Giusto.»
«E ha votato per il ritorno alla monarchia, giusto?»
«Giusto.»
«Guarda l’annuncio.»
Tutti conoscevano quell’annuncio. Da settimane oramai veniva trasmesso in tutta Europa, con la promessa di uno spettacolo di decoro, patriottismo e antica tradizione inglese da togliere il fiato.
«E’ l’annuncio dell’incoronazione di Elisabetta IV, domani…» replicò Rose con un filo di voce, capendo dove John voleva andare a parare.
«Domani.» sorrise lui, esaltato come un bambino la mattina di Natale. «Un’incoronazione. Di una Elisabetta. Io, tu, la Vespa… ecco… mi sembrava una buona idea. Visto e considerato che stavolta non ci sono in giro assurdi mostri televisivi mangia faccia e…»
Rose esitò, lasciandolo a blaterare eccitato.
Poteva affrontarlo? Poteva fingere che tutto andasse bene per un solo giorno? Perché, pur consapevole che John non sarebbe mai stato il suo Dottore, era così terribilmente innamorata di quell’uomo da desiderare ardentemente un’avventura come quella.
Lasciò cadere i caschi sul tappeto, posandogli un dito sulle labbra per interrompere l’incessante fiume di parole che continuava ad uscire dalla sua bocca.
«Stavolta niente gonne a palloncino.»
«E perché mai?» replicò lui, scostandosi e ridendo.
«Non siamo nel 1953…»
«Ma adoravo quella gonna a palloncino.»
«Ma sarebbe anacronistica!»
La prese per la vita, facendola girare per il salotto e strappandole una risata allegra, una di quelle che le illuminavano il viso e gli occhi e la facevano sembrare una bambina.
«Al diavolo l’anacronismo! Magari lanceremo una nuova moda!»
Rose si concesse un momento per intrecciare le dita a quei capelli fantastici.
«Non dovremmo provare a riscrivere la storia…» iniziò, cercando dentro di se la saggezza che l’attesa di Lui le aveva insegnato.
«Non ci sono viaggi nel tempo qui, Rose.» la interruppe John con enorme sorriso. «Non possiamo conoscere il futuro, a meno che non siamo noi a crearlo. Capisci?» Ammiccò, più felice di quanto lei non l’avesse mai visto «Possiamo scrivere il nostro futuro. E’ una cosa che non ho mai fatto! Che non ho mai potuto fare! Beh…a parte una volta in cui…»
«Oh, sta zitto!»
L’aveva colta una stretta al cuore improvvisa, tanto forte da farle involontariamente salire le lacrime agli occhi. Senza riuscire a fermarsi, si alzò in punta di piedi per baciarlo come aveva sempre desiderato fare, per lasciarsi stringere in quell’abbraccio che le era mancato così maledettamente tanto… lo stesso abbraccio di sempre, ma con qualcosa in più.
Si staccò forse un po’ troppo in fretta, lisciandogli la maglietta che gli aveva stropicciato.
«Niente alieni televisivi, stavolta?» gli domandò con una risatina, per smorzare la tensione creatasi.
«Niente di niente.» Nonostante tutto, come sempre, aveva capito il suo stato d’animo. Fece un passo indietro, raccogliendo da terra i caschi e andando a posarli sulla sella della Vespa mentre lei si sistemava nervosamente i capelli.
«Allora domani…»
«Già… Ti aspetto fuori dal cancello.»
«Alle sei?»
«Alle sei. Buonanotte, Rose.»
«Buonanotte, John.»
Posò le dita sulla maniglia della porta, e lo sentì sospirare.
«Mi chiamerai mai col mio nome?»
Senza voltarsi, Rose tentò disperatamente di sembrare inconsapevole.
«Hai detto che quel nome non deve essere pronunciato ad alta voce, perché potrebbe echeggiare tra le dimensioni ed attirare attenzioni indesiderate…»
«Non QUEL nome. Il mio nome. Quello che mi sono scelto.»
Non riuscì a replicare.
Aprì la porta, uscì sotto il piccolo pergolato e la richiuse sbattendola forte.
Solo quando il freddo decembrino le pizzicò le guance ed il naso realizzò che forse, solo forse, quel qualcosa in più che avvertiva ogni volta negli abbracci di John non era quella parte di lui nata da Donna Noble, ma quell’amore per lei che per anni il Dottore aveva nascosto e non si era permesso di provare o di ammettere, per non ferire lei e se stesso.
Lo aveva sempre tormentato il pensiero di vedere le persone amate invecchiare e morire attorno a lui, ed ora che poteva avere qualcuno con cui vivere una vita normale (per quanto normale potesse essere la vita trascorsa accanto ad un eterno bambino genialoide ed iperattivo), lei stava mandando tutto al diavolo.
Asciugandosi con rabbia lacrime che non avrebbe voluto versare, Rose Tyler si avviò a passo spedito verso l’ombra della grande villa, mentre il Dottore la guardava malinconico dal salotto illuminato, la fronte poggiata contro il vetro freddo, le scarpe di tela ora poggiate sul davanzale, dimenticate.
   
 
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