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Autore: holls    07/01/2014    9 recensioni
Un investigatore privato, solo e tormentato; il suo ex fidanzato, in coppia professionale con un tipo un po' sboccato per un lavoro lontano dalla luce del sole; il barista del Naughty Blu, custode dei drammi sentimentali dei suoi clienti; una ragazza, pianista quasi per forza, fotografa per passione; e un poliziotto un po' troppo galante, ma con una bella parlantina.
Personaggi che si incontrano, si dividono, si scontrano, si rincorrono, sullo sfondo di una caotica New York.
Ma proprio quando l'equilibrio sembra raggiunto, dopo incomprensioni, rimorsi, gelosie, silenzi colpevoli e segreti inconfessati, una serie di omicidi sopraggiungerà a sconvolgere la città: nulla di anormale, se non fosse che i delitti sembrano essere legati in qualche modo alle storie dei protagonisti.
Chi sta tentando di mettere a soqquadro le loro vite? Ma soprattutto, perché?
[Attenzione: le recensioni contengono spoiler!]
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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21. Decisioni
 
 
20 gennaio 2005.
Erano almeno due ore che sbatteva la testa sul suo libro di Scienze delle Costruzioni, cercando di trovare un senso al calcolo delle reazioni vincolari. Continuava a fissare il disegno, raffigurante due bambini su un’altalena a bilanciere; era tappezzata di frecce che spiegavano al povero studente che, all’altalena, non era concesso spiccare il volo verso il cielo, condannata a oscillare continuamente sotto il peso di bimbi festosi.
Aveva provato a svolgere qualche esercizio, ma alla fine il suo quaderno si era riempito di strani disegni geometrici, simili a quelli che partoriva in stato di semi-incoscienza durante le telefonate. Troppi pensieri per la testa, soprattutto relativi al suo imminente appuntamento con Alan, che si intrufolavano senza permesso tra lui e la sua voglia di studiare.
L’unico motivo per cui non era ancora tornato a casa era uno strano senso del dovere che lo aveva incatenato alla sedia. Nathan sapeva che il famigerato nemico sarebbe riuscito a farlo sentire in colpa in un nanosecondo, se avesse chiuso quei libri. Era quella la principale ragione per cui se ne stava seduto a quel tavolo della biblioteca, con la testa appoggiata al palmo della mano destra, continuando a fissare i due bambini in cerca di concentrazione.
Non contava ormai più le volte in cui aveva alzato gli occhi al cielo sbuffando, mentre nella sua testa cercava di convincere l’ormai famoso Senso che, in quelle condizioni, era inutile continuare. E dopo mille improperi, suppliche e compromessi, il nemico cadde sconfitto, e Nathan si sgranchì un po’ le gambe senza pensare al tempo prezioso che rubava allo studio.
Adesso riusciva a osservare il libro con maggior distacco, quasi come se non fosse più un problema suo – poteva vivere con quell’illusione per qualche minuto, sì.
 
La biblioteca era talmente silenziosa che il rumore di passi riempì subito l’atmosfera. Nathan li sentiva sempre più vicini, ma non credeva davvero che il suo proprietario sarebbe venuto ad occupare la sedia vuota accanto alla sua. Dovette ricredersi.
Un paio di mani depositarono sul tavolo un libro di Psicologia Infantile, dopodiché tirarono indietro la sedia, affinché il suo proprietario potesse sedersi. Aveva folti capelli neri, un naso aquilino e un cespuglietto di peli, altrettanto neri, che sbucavano dall’apertura del colletto della camicia. Gli bastò osservarne gli occhi per risvegliare immediatamente i ricordi nella sua mente.
Era il ragazzo di Alan.
Jack.
L’altro ancora non lo guardava, fingendo di voler sistemare le sue cose con estrema cura. Nathan invece lo fissava, con le labbra arricciate e le braccia conserte, certo che non fosse una coincidenza. Jack continuava a far finta di niente: aveva aperto il libro circa a metà e aveva già cominciato a leggere.
Nathan soffiò forte col naso, cercando di attirare la sua attenzione con quel sospiro, ma Jack non dava segni di reazione. Provò allora a tossicchiare, ma anche quel tentativo andò a vuoto. Capì che l’unico modo per attirare l’attenzione di Jack era provare a intavolare una discussione con lui.
« Con tutto il posto che c’è, proprio qui ti dovevi mettere? »
Finalmente Jack alzò il capo. Non sembrò affatto sorpreso di vedere Nathan, tant’è che riabbassò lo sguardo subito dopo.
« Non credo mi sia vietato stare qui, no? »
« No, certo. Comunque, » e qui Nathan cominciò a rimettere lapis e gomma nell’astuccio « sei fortunato, stavo giusto andando via. »
Nathan continuò a metter via le sue cose, chiudendo libro e quaderno e aprendo la borsa per infilarle dentro.
« Non penso proprio. »
« Che hai detto? »
Jack mollò il lapis in mezzo al libro aperto. Nathan era già in piedi, con la sua borsa a tracolla.
« Tra poco ti vedi con Alan, vero? »
Nathan non ribatté. Aggrottò invece le sopracciglia, cercando di capire cosa Jack volesse da lui. Riprese a parlare.
« Chissà come ci rimarrebbe male, Alan, se solo sapesse…! »
Nathan si ghiacciò. Quel ghigno tra il sadico e il minaccioso che comparve sul volto di Jack lo impietrì. Deglutì a fatica, come se la gola si fosse ristretta all’improvviso.
« Di che parli? »
Jack alzò gli occhi e lo fissò.
« Parlo del tuo segreto, Nathan. »
Nathan cominciò a innervosirsi, e le pellicine intorno alle sue unghie furono le prime a farne le spese, insieme allo stomaco, strozzato da quel nodo che ormai conosceva fin troppo bene. Provò a sdrammatizzare.
« Pensavo di non avere più segreti, ormai. »
Jack sbuffò.
« Non fare lo spiritoso. Non ti permetterò di avvicinarti ad Alan, finché farai la troia col professor Brucknam. »
A Nathan si mozzò il fiato. Quando aveva fatto quella battuta, pensava davvero di non aver più alcun segreto. O, quantomeno, nessun segreto conosciuto da terzi. E, invece, Jack sapeva. Non aveva la minima idea di come avesse scoperto dell’accordo tra lui e il professore, ma le sue parole avevano fatto esplicitamente intendere che non era un bluff.
Riprese il controllo del suo respiro, di cui Jack si stava avidamente saziando, e provò a giocare sulla difensiva.
« Che cosa vuoi da me? »
« Voglio che tu ti faccia da parte. Se non ti presenterai all’appuntamento di oggi con Alan e uscirai per sempre dalla sua vita, il tuo segreto sarà al sicuro; altrimenti, penso proprio che un uccellino gli porterà la notizia entro stasera. »
« Mi stai ricattando? »
« Vedila così, se vuoi. »
Ancora una volta, Nathan non seppe cosa dire. Un ricatto, ancora. Se Jack avesse davvero rivelato il suo accordo, Alan lo avrebbe perdonato? Gli aveva implicitamente promesso che avrebbe smesso, con quella vita; che cosa avrebbe pensato di lui, scoprendo che c’era ancora dentro, seppur per poco tempo? Era praticamente certo che Alan l’avrebbe mollato, dopo tutto quello che avevano passato.
L’alternativa era lasciare Alan per sempre. Sparire dalla sua vita e, probabilmente, lasciare campo libero a Jack. Si chiese se quel ragazzo, che lo fissava soddisfatto, fosse davvero quello giusto per Alan; in fondo, si disse, era quasi certo che Jack non lo avesse fatto soffrire come aveva fatto lui, nascondendo una doppia vita con bugie sempre più pesanti. Per un momento, pensò quasi che Jack potesse essere davvero un fidanzato migliore di lui.
Pensiero che svanì non appena l’altro aprì bocca.
« Pensaci, Nathan. Hai ancora qualche ora. Buona giornata. »
Così come era arrivato, così se ne andò: Jack si alzò dalla sedia, la spinse contro il tavolo, raccolse i libri e si incamminò verso l’uscita.
Nathan si piantò nuovamente su quella sedia, lo sguardo inebetito e il cuore che batteva alla velocità dei suoi pensieri.
Avrebbe scelto la via più facile, come aveva fatto in passato, o avrebbe trovato il coraggio per affrontare i suoi mostri?
 
***
 
Stazione di polizia, Manhattan
Alan si sentiva eccitato, per i motivi più svariati. In primis, l’appuntamento con Nathan – e non gli sembrava vero di poter dire “appuntamento” -; inoltre, stava aspettando il ritorno di Ashton, impegnato a ottenere i nominativi dei possessori di macchine degli anni Settanta. Alan gli aveva infatti confidato le sue considerazioni sull’auto dell’assassino, e entrambi avevano convenuto che, se la macchina era in regola, non potevano essere molte le auto d’epoca usate abitualmente. Si era detto, infatti, che nessuno sarebbe mai stato tanto sciocco da spendere centinaia di dollari per assicurare un’auto da garage.
O almeno così sperava.
Avrebbe avuto piacere di andarci lui stesso, ma con quale titolo? Edmond lo aveva sollevato dal caso e non aveva voglia di invischiarsi in ulteriori guai. Così, a malincuore, aveva accettato che fosse Asthon a occuparsi della faccenda.
Per ingannare il tempo, aveva deciso di riguardare il video per l’ennesima volta. Aveva capito ben presto che, dalla sagoma dell’uomo, avrebbe ricavato ben poco: troppo scura per individuare qualunque segno particolare.
Era quasi certo che l’auto fosse uno dei due modelli di cui aveva parlato a Jack. Osservò ancora quell’accozzaglia di pixel sgranati, finché un particolare non balzò ai suoi occhi.
Si ricordò improvvisamente che la Ford Mustang II era una tre porte, al contrario della Mercedes Classe S. Quel dettaglio, all’apparenza insignificante, scatenò in lui una serie di rivelazioni. Infatti, a giudicare dal video, la portiera si apriva quasi all’altezza della ruota posteriore, segno che l’auto non poteva avere un ulteriore ingresso, in lunghezza, oltre a quello. Al momento di caricare Sánchez in auto, poi, l’assassino apriva chiaramente la portiera davanti, lato passeggero: gli fu chiaro, quindi, che non poteva esserci nessuno seduto lì, altrimenti sarebbe dovuto scendere per far posto al nuovo ospite. Certo, un possibile complice poteva anche essere seduto sui sedili posteriori, ma l’assassino gli avrebbe davvero schiaffato un cadavere accanto?
Alan rimandò indietro il video una manciata di volte, per assicurarsi di averci visto giusto. Dopo l’ennesima riproduzione, sorrise soddisfatto. Un piccolo dettaglio gli aveva permesso di certificare empiricamente il modello dell’auto e il numero di esecutori materiali dell’omicidio.
Si sentì euforico, onnipotente, in grado di risolvere qualunque problema.
Non vedeva l’ora che Ashton tornasse.
 
L’altro non si fece attendere per molto. Come Alan lo vide, gli andò incontro quasi correndo.
« Quanta allegria! L’amore fa questi effetti? »
Alan emise un mugolio lamentoso, ma ben presto tornò quell’espressione esaltata.
« Non si tratta di questo, Ash. Le indagini. Ho scoperto qualcosa che delimiterà il nostro campo d’azione. »
« Proprio quello che volevo sentire! Raccontami tutto mentre poso le mie cose. »
Alan non si fece pregare. Mentre camminavano verso l’ufficio, raccontò ad Ashton le sue intuizioni, lasciando che l’entusiasmo, alla fine, scemasse.
Dopo che ebbe aggiornato Ashton sulle ultime scoperte, decise che era il suo turno di fare domande.
« Com’è andata la ricerca dei proprietari di auto? »
Ashton depositò la sua valigetta, prese qualche spicciolo dalla tasca del giubbotto e fece cenno ad Alan di seguirlo per il corridoio.
« Siamo stati fortunati. Solo ventinove persone pagano l’assicurazione di macchine degli anni Settanta, e adesso che abbiamo anche un’ipotesi sul modello dell’auto, il cerchio si stringe ancora di più. Non credo che ci vorrà molto a interrogare tutti. »
Alan si sentì nuovamente pervaso da quella sensazione di avere la soluzione sulla punta della lingua e di sapere come farla uscire.
« Qualcuno di loro ha precedenti penali? »
I due si fermarono davanti alla macchinetta del caffè, dove Ashton si serviva ritualmente prima di mettersi al lavoro. Come previsto, il collega infilò i centesimi nella buca degli spiccioli e aspettò che la macchina erogasse la sua bevanda.
« Non ho ancora controllato. Ma, se dovesse essere, darei loro la priorità. »
Alan annuì.
« Sono d’accordo. Purtroppo, però, dovrai fare da solo. Teoricamente, io non posso agire in alcun modo. »
« E nemmeno in pratica, Alan. Non voglio che tu finisca nei casini. »
« Come vuoi. Ma mi dispiace che debba fare tutto tu. Vorrei poterti aiutare. »
Ashton afferrò con due dita il bicchierino fumante, girandone poi il contenuto con la paletta.
« Lo fai già. Abbiamo ristretto il numero di persone da interrogare grazie a te, o sbaglio? »
Alan non disse altro. Si accorse che moriva dalla voglia di prendere parte attivamente a quell’indagine.
Ma come poteva fare?
 
Guardò distrattamente l’orologio al muro, e si accorse che mancava solo un’ora all’appuntamento con Nathan. Nonostante non avesse più sedici anni, provò le stesse sensazioni di un ragazzino: cuore impazzito, stomaco sottosopra, gambe improvvisamente prive di struttura ossea. Fece un respiro profondo, cercando di seguire il ritmo della lancetta dell’orologio.
« Siamo nervosetti, eh? »
Ashton gli rivolse un sorrisetto affettuoso e canzonatorio.
« Non ci vediamo da così tanto tempo. In quel senso, intendo. Mi sento in imbarazzo. »
« Alan, è normale, soprattutto dopo quello che c’è stato tra di voi. Ma non ti preoccupare, sono sicuro che, una volta rotto il ghiaccio, sarete entrambi molto naturali. »
Alan provò a riallineare il suo respiro con l’orologio, dopo aver fallito una prima volta.
« Se lo dici tu. »
« Vabbè, dai, incamminati. Sennò fai venire l’ansia anche a me. »
« Dici che è meglio se vado? Sì, forse è meglio. Vado, allora. »
Ashton gli diede una pacca sulla spalla, alla quale Alan rispose con un sorriso nervoso.
Era ora di andare.
 
***
 
Avevano scelto, come luogo dell’appuntamento, lo stesso dove si erano incontrati due giorni prima: il parco di Washington Square. Alan aveva deciso di aspettarlo davanti alla stessa panchina dove si erano scambiati quel bacio che scalpitava da secoli. Se ripensava a quel momento, riusciva a ricordare solo quanta voglia avesse avuto di possederlo, di marchiarlo a fuoco con quel bacio, di imprimere il suo nome nel cuore di Nathan.
 
Guardò l’orologio ancora una volta, constatando che mancavano ancora venti minuti. Sapeva che qualunque tentativo di passare il tempo avrebbe avuto l’effetto di rallentarlo, così pensò all’unico rimedio immune a quella deformazione spazio-temporale: la musica. Tirò fuori il suo lettore mp3 e portò le cuffiette agli orecchi, dopodiché scelse accuratamente quattro canzoni che, bene o male, durassero ciascuna cinque minuti: al termine dell’ascolto, potevano esserne passati solo venti.
E così, effettivamente, fu.
L’ora dell’appuntamento era arrivata, ma di Nathan, per il momento, nemmeno l’ombra.
Per evitare di farsi inghiottire dall’impulso di controllare l’orologio ogni minuto, decise di non sfilarsi le cuffiette e di lasciar scorrere altre canzoni.
In un primo momento, teneva il pollice sopra al tasto di spegnimento, certo che avrebbe dovuto schiacciarlo di lì a poco. Ma quando furono passate ormai altre quattro canzoni, la cosa cominciò a impensierirlo.
Perché Nathan non arrivava? Dove si era cacciato?
 
Si sfilò una cuffietta e compose a memoria il suo numero sul cellulare. Lo portò all’orecchio, sperando di sentir cessare presto quello snervante suono atono. Ma, alla fine, la chiamata cadde per mancata risposta.
Innervosito, Alan si sfilò anche l’altra cuffietta e spense il lettore mp3. Si alzò dalla panchina e guardò entrambi i lati del viale, nella speranza di veder arrivare quel cappellino grigio regolarmente troppo in su.
Alan tornò a guardare l’ora: era in ritardo di ben trenta minuti. Non era mai stato il tipo da farsi attendere troppo, anzi: quando era nervoso arrivava spesso in anticipo.
Sapeva che Nathan poteva aver avuto un qualsiasi contrattempo, senza che comportasse qualcosa di tragico, ma si sentiva inquieto, specialmente per il fatto che non lo aveva nemmeno avvertito.
Gli salì il panico quando si rese conto che, forse, il ritardo di Nathan era da attribuirsi a un suo possibile cambio di rotta. Forse aveva deciso che non voleva più vederlo, che non aveva intenzione di ricominciare.
Per mero scrupolo, Alan decise di aspettare un altro quarto d’ora.
Si impensierì seriamente. C’era un assassino a piede libero, omicida di un uomo che aveva avuto a che fare con lui, seppur indirettamente. E se Sánchez fosse stata solo un’intimidazione?
 
Prese nuovamente in mano il telefono e stavolta compose il numero di casa.
Niente.
Squilli a vuoto.
Ormai era davvero preoccupato. La sua mente era una mistura di domande e suppliche. Si chiedeva dove fosse finito e pregava perché arrivasse il prima possibile.
Poi, però, mentre volgeva lo sguardo verso il prato, qualcuno catturò la sua attenzione.
Un enorme sorriso si dipinse sul volto di Alan e corse verso il ragazzo, alleggerito ormai da quel macigno che gli stringeva l’anima. Lo raggiunse e, con un abbraccio, sfogò tutte le sue preoccupazioni.
Gli sembrava quasi di volare.
Nathan, però, non sembrava dello stesso umore. Sorrise appena quando notò Alan venire incontro alla sua fronte corrucciata e dubbiosa, e ricambiò a stento quell’abbraccio così sentito.
Alan tornò a guardarlo negli occhi, scrutandolo con uno sguardo interrogativo.
Ma Nathan, di fronte all’espressione attonita dell’altro, schiuse le labbra per dire solo una cosa.
« Scusa il ritardo. »

 

Sera a tuttiiiiii! *__* Prima cosa: scusate il titolo tremendo, ma non avevo davvero fantasia! Sono pessima per i titoli, ma ormai ve ne sarete accorti da voi XD Seconda cosa: la pausa delle feste mi è servita per revisionare per bene gli altri tre capitoli già pronti e questo implica che avrò più tempo per scrivere *___* Inoltre, mi è venuta proprio una bella idea per questo capitolo 25 che mi sta facendo dannare, perciò mi auguro che la cosa si risolva in fretta... XD
Spero che il capitolo vi sia piaciuto <3 Aspettatevi un po' di conflitto u.u
Ringrazio tutti coloro che seguono e/o commentano questa storia, mi spronate tantissimo ad andare avanti, quindi posso solo ringraziarvi! 
Alla prossima *____*
   
 
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