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Autore: Amens Ophelia    08/01/2014    6 recensioni
[MadaHashi]
dal testo:
«Abbiamo combattuto troppe guerre, noi due. Ci siamo ridotti a odiarci, quando ciò che volevamo era vivere pacificamente. Ci siamo uccisi a vicenda, mentre desideravamo solo amarci», spiegò con voce roca, osservando i suoi zigomi ben delineati. [...] «E adesso siamo di nuovo qui, al pari di marionette, per darci battaglia. Siamo già morti una volta…».
«Infinite volte», lo corresse il Senju, afferrando il suo polso.
Lo vide sorridere di una triste felicità, con quell’espressione malinconica che aveva solcato solo poche volte il suo volto austero e minaccioso.
«Dopo tanti conflitti, facciamo l’amore?», domandò l’Uchiha, chinandosi rapidamente sulle sue labbra.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hashirama Senju, Madara Uchiha
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Di nuovo la guerra,
 di nuovo l'amore



 
 
 
Quanti anni erano passati dall’ultima volta che l’aveva visto? Non riusciva a ricordarlo, perché i morti non si dilettano a registrare il tempo. Eppure, era perfettamente fedele all’immagine che aveva custodito nel cuore.
Già, il suo cuore. Anche lui ne possedeva uno, per quanto si fosse convinto che così non fosse, a furia di venir giudicato come un essere immondo e crudele.
Adesso non batteva più, quel muscolo appassito nel petto.
 
Era stato riportato alla luce, riesumato dal suo giaciglio eterno, per distruggere Konoha e il mondo intero, una volta per tutte. Ed era fermamente convinto che stavolta ce l’avrebbe fatta sul serio, Madara Uchiha, il dio della guerra, il terrore delle Terre Ninja.
Non si sarebbe mai aspettato, però, che quegli occhi scuri potessero ancora incrociare il suo sguardo. Il suo volto era identico a quello che ricordava, se non per quelle increspature orizzontali che gli scalfivano leggermente i lineamenti degli zigomi e del naso, e la sclera del bulbo oculare che si era tinta di un color carbone, da bianca che era.
Gli tornò in mente il giorno in cui gli era giunta all’orecchio la notizia del suo decesso, quell’istante in cui avrebbe desiderato, pure lui, prendere congedo dalla vita.
 
«L’Hokage è morto!».
Quell’urlo, nel cuore della notte, l’aveva ridestato dal sonno nel modo più atroce. Si era lentamente avvicinato al pertugio della spelonca in cui si era ritirato, lontano da qualsiasi contatto umano, e aveva accostato l’orecchio alla dura roccia, tremando. Sentendo lo scalpitio di quei quattro ninja allontanarsi velocemente, verso Nord, alla volta della Foglia, si era accasciato adagio contro la fredda parete porosa.
Hashirama era morto.
L’uomo che l’aveva sconfitto era stato vinto dalla vita. L’uomo che l’aveva conquistato con un sorriso inestinguibile era stato costretto a smorzare quella smorfia solare, per sempre. L’uomo che aveva fatto breccia nel suo cuore, per poi obbligarlo a tumularlo e a vivere da eremita, se n’era andato. Hashirama era deceduto, mentre lui era ancora lì.
L’unica ragione che lo costringeva a non mollare, a continuare a provare odio, non esisteva più.
L’unico motivo che lo spingeva ad amare, il polo attrattivo del suo affetto viscerale e sanguigno, era stato rapito dalla mano divina.
Perché non poteva godere dello stesso privilegio?
 
Ed eccolo lì, invece, con quei tratti ben definiti ma incredibilmente affascinanti e dolcemente levigati, così finemente smussati che nemmeno la morte era stata in grado di distruggerli.
I suoi capelli castani danzavano al vento, in mezzo a quella devastazione senza pari, e le sinapsi del cervello si connettevano velocemente fra loro per trasmettergli più diapositive possibili riguardo a quella chioma. L’aveva accarezzata poco rispetto alle volte che aveva desiderato farvi vagare le dita, ma erano state occasioni in cui l’ardore aveva vibrato in entrambi i corpi, durante nottate illuminate dalla luna piena, sotto una trapunta di stelle e di brividi.
Le sue labbra sottili non erano più arrossate dai lievi morsi che vi aveva lasciato, ma erano comunque fulcro di una passione che Madara non riusciva ancora a sopprimere, dopo tutto quel tempo. I morti non contano gli anni, d’altronde.
Incrociò il suo sguardo e capì che anche per il Senjū valeva tristemente lo stesso. Dietro le sue iridi poteva leggere i medesimi pensieri, rimorsi e rimembranze.
Un boato improvviso disinnescò quell’esplosivo contatto visivo, costringendoli a tornare al presente. Una contemporaneità che non doveva riguardare due fantasmi, soprattutto perché troppo simile al loro passato.
Di nuovo la guerra, di nuovo l’amore. 
 
Madara rigirò il grande ventaglio nella mano, osservandolo. Era lo stesso di quella battaglia alla Valle dell’Epilogo, quando Kurama aveva dato parecchio filo da torcere al Primo, costringendolo a ricorrere a tutte la proprie risorse. Il Senjū aveva vinto, il Villaggio era stato salvato, e lui, sconfitto, aveva riposto l’arma dietro la schiena, lasciandosi per sempre Konoha alle spalle. La Foglia era costantemente stata al centro dei suoi pensieri, anche in maniera turbolenta e malsana, nel bene e nel male, ma la cosa più preziosa che là aveva abbandonato era quell’uomo.
L’aveva amato quanto la propria vita, anche di più; l’affetto che aveva provato per lui era comparabile solo a quello per Izuna. E poi c’era stato l’odio, il rancore di un’anima sconfitta e danneggiata, a separarli. Una rabbia di facciata, perché dietro quegli occhi vermigli, prede dello sharingan, lui lo amava ancora. Seppure il battito del suo cuore fosse clinicamente estinto, lui non poteva smorzare quella passione per Hashirama, suo storico nemico, suo eterno amante.
Per questo impugnò con vigore il manico dell’arma e si scagliò verso l’altro redivivo, tingendo le proprie iridi di un color porpora abissale e raccapricciante.
 
Si fronteggiarono senza scambiarsi una parola, lasciando che fossero i loro corpi a comunicare attraverso calci, rapidi pugni che raramente andavano a segno, celeri gesti per invocare tecniche ed altri assi nella manica. Una folle danza che aveva fin troppi precedenti, ma non vi era nessuna certezza sull’esito di questa.
Si allontanavano e riavvicinavano ad una velocità sorprendente, incuranti degli sguardi che potevano attirare. Non erano leggende, non erano divinità, a dispetto di come venivano definiti; in quel frangente, erano tornati ad essere uomini, carne e spirito, istinto e sregolatezza.
 
Un duro fendente abbatté il Senjū, scaraventandolo a terra. Madara non esitò a piombargli addosso, facendo cozzare sonoramente le loro armature e raggiungendo subito il suo collo, il punto più vulnerabile che le corazze lasciavano sconsideratamente scoperto.
Il contatto lo fece rabbrividire. Non era per niente la temperatura corporea che ricordava. Dov’erano il calore di quel corpo, le pulsazioni accelerate del cuore, il vibrare continuo e melodioso del suo sangue nella giugulare?
Hashirama era morto, quello era solo un cadavere, proprio come lui.
 
Intorno ai due si era annullata ogni grida umana, per lasciar posto a loro, abitanti dei sepolcri, costretti a indossare le spoglie dei mortali, come in un gioco. Non vi era nulla di giusto nella Quarta Grande Guerra, proprio come in quella che li aveva divisi.
Protetti da una recinzione spontanea di rocce desertiche, i loro occhi si rincontrarono. Era come se si fossero rivisti per davvero solo in quel momento, come se la lotta di prima non fosse mai avvenuta. D’altronde, i loro corpi non provavano dolore, non sanguinavano, non percepivano nulla, probabilmente nemmeno la dolcezza di un bacio.
 
«Madara…», mormorò il bruno, incapace di aggiungere altro.
I pensieri erano un vortice impetuoso, troppo travolgente perché la lingua potesse articolare frasi.
Gli era mancato, ecco la verità. Quegli anni al Villaggio, circondato da ammirazione e rispetto, erano stati un Tartaro infinito, senza l’approvazione e la vicinanza di quell’uomo.
Erano cresciuti insieme, cercando sempre d’ignorare quel fantasma che invece li seguiva ovunque, la guerra. Fin dalla tenera età, avevano finto che i duelli non esistessero, che le rivalità fossero solo un gioco, che il sangue non fosse davvero un fluido vitale, ma semplice inchiostro che si poteva facilmente rimuovere, giù al fiume.
Avevano trascurato i reciproci appellativi, evitando persino di nominarsi a vicenda, negli anni più felici della loro vita. Eppure, la fine avrebbe dovuto avere inizio, prima o poi, perché i Senjū esistevano per perseguitare gli Uchiha, e viceversa.
La morte di Izuna era stata un trauma per entrambi, in verità, ma Madara si era arrogato il diritto di chiudere il proprio cuore al suo miglior amico, per sempre. Da quel momento, la guerra aveva cominciato a osteggiare anche loro, con brevi tregue in cui i loro corpi si incontravano per cedere alla passione, riesumando sentimenti mai davvero estinti, mai davvero prede del rancore.
Si rese conto che la vera morte, per entrambi, era stata alla Valle, quel giorno.
 
«Non pensavo ti avrei rivisto, Madara», sorrise debolmente, dismettendo i panni da Hokage, come sempre faceva con lui.
 
«Taci, Senjū! Hai sempre parlato troppo e non sono qui per ascoltarti».
 
Hashirama boccheggiò qualche secondo, sbattendo le ciglia con espressione confusa. «È davvero necessaria questa nuova carneficina?», tentò di farlo ragionare, ignorando la sua mano ancora stretta sul collo.
 
Madara sorrise sprezzante, alzando il viso e osservando, in lontananza, le gesta eroiche dei ninja, spezzate brutalmente dall’esercito di Zetsu bianchi. Tornò a concentrarsi sul volto dell’altro, sospirando amaramente.
 
«Non ci riguarda, Hashirama», sussurrò.
Al Primo Hokage vennero i brividi, quando sentì il proprio nome accarezzato da quella voce. Erano secoli che non la udiva… o forse di più? Cos’era il tempo, per due fantasmi?
«Abbiamo combattuto troppe guerre, noi due. Ci siamo ridotti a odiarci, quando ciò che volevamo era vivere pacificamente. Ci siamo uccisi a vicenda, mentre desideravamo solo amarci», spiegò con voce roca, osservando i suoi zigomi ben delineati. L’avevano sempre attratto, con quella spigolatura armoniosa, per quanto marcata.
«E adesso siamo di nuovo qui, al pari di marionette, per darci battaglia. Siamo già morti una volta…».
 
«Infinite volte», lo corresse il Senjū, afferrando il suo polso.
Lo vide sorridere di una triste felicità, con quell’espressione malinconica che aveva solcato solo poche volte il suo volto austero e minaccioso.
 
«Dopo tanti conflitti, facciamo l’amore?», domandò l’Uchiha, chinandosi rapidamente sulle sue labbra.
Non v’era sapore, né calore, in quella bocca. Pura carne, come la sua, ma i sensi erano morti, in quelle membra. Dove non arrivarono il tatto, il gusto e l’olfatto, ci pensò l’immaginazione a sopperire alle lacune, rinfrescandogli la memoria con le sensazioni che avevano provato insieme, quando ancora erano vivi: le notti passate avvinghiati selvaggiamente in un groviglio di capelli e sospiri, i giorni spesi fianco a fianco, sia in guerra, sia in pace, fino al loro epilogo.
Persino Mito Uzumaki non era stata in grado di dividerli, con la mostruosa energia che sigillava nel proprio corpo. A separarli era stato l’orgoglio di Madara, come sempre.
 
«Nemici o amanti? Eroi, leggende o comuni mortali? Cosa siamo, noi, ora?», domandò sottovoce Hashirama, non appena l’Uchiha si era risollevato dal suo viso.
Non esistevano parole adatte a descriverli, ma era cosciente di quale fosse quel legame che li univa.
 
«Siamo semplicemente noi, come sempre», e gli regalò un ultimo sorriso, prima di rialzarsi.
 
Si erano persi di vista, erano morti e poi si erano ritrovati proprio come si erano lasciati, su campi opposti. Erano rinvenuti nel modo in cui non avrebbero mai voluto risvegliarsi, di nuovo avversari.
 
«Non c’è Inferno, né Paradiso, dopo la morte, lo sai bene, ed io ti perderò ancora. Tu che eri per me Ade ed Empireo…», constatò tristemente Hashirama, sollevandosi da terra e scrollandosi di dosso la sabbia. «E poi, ancora un conflitto, ancora dolore, e noi, ancora divisi sul campo…». Asseriva frasi senza senso, costernato dalla sofferenza di vedere i suoi unici due sogni – la pace e Madara – tuttora irraggiungibili.
 
«Nemmeno il decesso ci ha veramente separati, credi che basterà questa guerra a riuscirci?», domandò retoricamente l’altro, riprendendo in mano il ventaglio.
 
«No, certo che no», sorrise il Senjū, preparandosi a sferrare un nuovo attacco. Entrambi sapevano cosa dovevano fare.
 
Riaprirono le danze, con quel sottofondo atroce di esplosioni e rantoli umani. Erano consapevoli che l’unico modo per non distruggere il loro sogno di pace era di annientarsi a vicenda, prima che potessero andarci di mezzo altri innocenti.
Quella non era la loro guerra, d’altronde; il loro conflitto non era mondiale, ma intimo, inestinguibile, costellato d’odio e d’amore in egual misura, anche se a spuntarla, quasi sempre, era la passione. Era il loro modo di amarsi, non potevano farci niente, né avrebbero mai voluto che quel legame contraddittorio potesse cambiare caratteristiche. Senza conoscere la rabbia più cieca, non si può godere dell’amore più alto.
 
Un duro fendente colpì Hashirama al collo, sballottandolo di nuovo a terra, ma sorrise quando sulla sua armatura cadde anche il corpo ferito di Madara. Era la loro fine? Non l’avrebbe mai scoperto, ma sarebbe stato felice se il Cielo avesse deciso di lasciarli perire insieme, stavolta.
 
«Il sapore del sangue non dovrebbe mai diventare consuetudine, sulla nostra lingua, né le ferite sul nostro corpo un tatuaggio», biascicò debolmente il Primo, con un rivolo vermiglio – appartenente al corpo di cui si erano serviti per riportarlo in vita – ai lati della bocca.
 
Madara si guardò le mani, scoprendole bianche e tremanti. Sapevano uccidere, avevano appena agito per strappare la vita al Senjū, ma, per quanto letali, erano monde. Pensò che voleva solo abbandonarle fra i suoi capelli, per l’ultima volta, e così fece, sollevandosi sui gomiti e attorcigliando quelle ciocche liscissime intorno alle dita.
Hashirama sorrise fiaccamente, chiudendo gli occhi.
 
«Dopo l’odio e la morte, posso amarti? Prima che le tenebre ci seppelliscano ancora, posso consacrarmi a te?».
Madara sperò che il suo storico nemico, il suo eterno amante, fosse riuscito a cogliere quella richiesta, prima di spirare.
 
Dopo qualche istante, le giunture dei cubiti cedettero sotto il peso della mortale fatica, mentre il corpo di Hashirama si era ormai ridotto in cenere. L’Uchiha osservava le proprie mani rarefarsi velocemente, scomponendosi in innumerevoli frammenti di tessuto epidermico sottile quanto la carta di riso.
Non l’avrebbe più rivisto, né abbracciato, né baciato. Non l’avrebbe più odiato, né amato, dacché ad attenderli c’era solo il nulla. Tuttavia, se n’erano andati insieme, almeno stavolta, e questo bastò a farlo congedare dal mondo con un sorriso. 




 
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Eccoci, la mia prima MadaHashi! Non so bene come sia uscita, ma sento di doverla ad Allyn per avermi fatta invaghire pazzamente di questa coppia :)
Ho immaginato un finale alternativo alla guerra – quella che impazza fuori e dentro di loro. 
Spero possa piacervi! 
Grazie a tutti

Ophelia

 
   
 
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