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Autore: _RockEver_    08/01/2014    3 recensioni
- Aspetta, John, lasciami finire – ribadì il detective, guardando per qualche attimo il fumo di un camino che si levava alto da una casa appena fuori dalla loro finestra.
- Te l’ho detto, il giorno del tuo matrimonio –
- Cosa?-
Sherlock arricciò le labbra in una smorfia di amarezza.
- Tu guardi ma non osservi, quante volte dovrò ripertelo.
- Allora aiutami ad osservare –
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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                           If only...



Buonsalve!! Dunque, è la prima volta che scrivo una Johnlock, quindi se non dovesse piacervi vi chiedo di essere clementi :)
Prima di dire qualsiasi cosa, vorrei semplicemente complimentarmi con tutti coloro che hanno visto “ The sign of three” e sono ancora vivi. Complimenti ragazzi.
Allora, vorrei avvisarvi che i personaggi sono leggermente AU, ma spero che un po’ di arcobaleni e miele non dispiacciano a nessuno ;)
Ringrazio in anticipo tutti coloro che leggerano/ recensiranno/ inseriranno tra preferite, seguite o da ricordare, grazie mille :D Che altro dire, buona fortuna per “His last vow” (I JUST CAN’T) e, sulle note di tre splendide canzoni, buona lettura :)
 
Ps. Naturalmente, tutto ciò che ho scritto è frutto solo della mia mente malata, nulla di tutto ciò mi appartiene e non guadagno assolutamente nulla. Ancora, buona lettura!!
 
 _RockEver_
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“And I will swallow my pride
You’re the one that I love
And I’m saying goodbye
Say something, I’m giving up on you”

(Say Something – A Great Big World ft. Christina Aguilera)



“I was just guessing at numbers and figures,
Pulling your puzzles apart.
Questions of science, science and progress,
Do not speak as loud as my heart.”
 
(The Scientist – Coldplay)
 


“You are the moonlight of my life every night
Giving all my love to you
My beating heart belongs to you
I walked for miles 'til I found you
I'm here to honor you
If I lose everything in the fire
I'm sending all my love to you”

( Last Night On Earth – Green Day)







Le foglie d’autunno fluttuavano trasportate dal vento, accompagnando il passo svelto e deciso di John, che cercava in tutti i modi di ripararsi dal vento. Sollevò il colletto della giacca e si affrettò, desideroso di arrivare il prima possibile a quella che un tempo era la sua casa.
Giunto dinnanzi alla porta del 221B di Baker Street estrasse la chiave dalla tasca e la infilò nella serratura. Le conservava ancora, quelle chiavi: essa era il simbolo di tutte le avventure passate accanto al suo migliore amico.
Una volta entrato si diresse subito alla porta alla sua destra. Stava per suonare il campanello quando la signora Hudson lo precedette.

- John caro! E’ dal giorno del matrimonio che non ti vedo! Come stai? Ti trovo bene! Hai messo su qualche chilo… -
L’ex-soldato sorrise alle tante domande della sua padrona di casa – ex padrona di casa –, la dolce vecchina che lo trattava come se fosse suo figlio.

- Scusi se non mi sono fatto vivo, signora Hudson. Io sto… bene, sì. Direi che sto bene. Anche lei mi sembra in salute come sempre. – fece una pausa – E… lui? – concluse lanciando un’occhiata alle scale che conducevano al piano si sopra.

La donna si incupì vistosamente e abbassò lo sguardo. Il suo viso era rassegnato e preoccupato, ed era una sola la persone che sarebbe potuta esserne la causa. Immediatamente John corse al piano di sopra, irrompendo in quello che tempo addietro era anche il suo salotto.
Il disordine era lo stesso. Il teschio era al solito posto. Lo smile sorrideva come sempre. Sul tavolo c’erano degli avanzi di cibo – per quanto la parola “avanzi” fosse un eufemismo, considerato il fatto che erano integri.
 
Poi lo vide.

Raggomitolato sul divano con le gambe raccolte al petto. Aveva uno sguardo vacuo, fissava un punto indefinito davanti a sé, come in stato catatonico. Non si era accorto nemmeno della sua presenza. Decisamente non da lui.
John restò a osservarlo spaesato per alcuni secondi, finchè un dubbio atroce quanto una lama lo trafisse da parte a parte. Si precipitò verso di lui e gli sollevò delicatamente il viso, cercando il suo sguardo.
 
- Sherlock? Sherlock che ti succede? Ehi? Guardami –

Il consulente investigativo lo fissò in silenzio, come se non lo vedesse veramente. Aveva occhiaie profonde e gli zigomi più accentuati del solito.
Poi gli sorrise.
John si sentì mancare il fiato e le ginocchia cedere. Quanto gli era mancato quel sorriso. Quel sorriso raro e autentico come una cometa, splendente come un diamante. Quel sorriso che riservava solo a lui. Era come una mano che gli perforava il cuore, scombussolando tutto ciò che aveva sempre creduto e tutte le stupide certezze a cui era sicuro di potersi appoggiare.
Rimase a fissarlo per alcuni secondi, incantato dalla meraviglia di quel sorriso, da quell’arco di cupido di quelle labbra così perfette – e invitanti-, dalle fossette che l’inarcarsi di quel sorriso gli creava sulle guance.

 - Sei tornato – sussurrò il consulente investigativo.

 - Certo che sono tornato, come avrei potuto non tornare, razza di idiota – rispose, alzando la manica della sua preziosa vestaglia blu, scoprendo quel niveo braccio costellato da tantissimi fori estremamente piccoli, come si aspettava.
 
 - Oh mio Dio, Sherlock! Cosa cazzo ti è saltato in mente, Cristo! Da quando non mangi e non dormi? – chiese quasi urlando, provando un dolore che aveva sentito una sola volta prima di allora in tutta la vita: quando un’ombra nera era precipitata nel vuoto dal tetto del Bart’s.

 - Da un po’…-

John fece una smorfia e sospirò.

 - Vieni, ti faccio mangiare qualcosa –

 - No, John… John…-

Dio, amava il modo in cui quella voce baritonale sussurrava il suo nome.
 
 - Cosa c’è, Sher?

 - Prima devo parlarti, John. E’ importante. Ti prego, ascoltami –
Sherlock lo stava implorando. Lui, che non aveva mai detto per favore, o ti prego, o grazie. Vederlo sconvolto in quelle condizioni era più di quanto John potesse sopportare.

 - Certo che ti ascolto. Sono qui, dimmi tutto quello che vuoi – lo tranquillizzò il medico militare, stringendo le sue mani tra le proprie per riscaldarle, dopodiché si sedette sul divano accanto a lui.

 - John, mi dispiace per tutto il dolore che ti ho causato. Farti soffrire è l’ultima delle cose che voglio, ma ho dovuto farlo per te. Quando ho finto il suicidio ho abbandonato la mia Londra e vagabondato a lungo consolato solo dall’idea di saperti al sicuro. Non rimpiango nemmeno una delle ferite che mi sono procurato…-

 - Sherlock…-

 - …perché ogni secondo di tortura corrispondeva a un secondo della tua vita salvata, e se servisse a garantire il tuo sorriso lo rifarei altre mille volte –

 - Sherlock – lo interruppe John, anche se non sapeva esattamente cosa dirgli.
Non sapeva cosa dire all’uomo che aveva attraversato l’inferno e ne aveva fatto ritorno solo per la sua sopravvivenza. Non c’era nulla che potesse dire per fargli capire quanto gli dovesse.

 - Aspetta, John, lasciami finire – ribadì il detective, guardando per qualche attimo il fumo di un camino che si levava alto da una casa appena fuori dalla loro finestra.

 - Te l’ho detto, il giorno del tuo matrimonio –
 
 - Cosa?-

Sherlock arricciò le labbra in una smorfia di amarezza.

 - Tu guardi ma non osservi, quante volte dovrò ripertelo.

- Allora aiutami ad osservare –

A quel punto Sherlock lasciò il suo posto e si posizionò carponi sul divano, avanzando verso il medico.
Quando i loro visi furono vicinissimi entrambi smisero di respirare. Il detective si fermò e osservò il viso dell’uomo, irrigiditosi improvvisamente.

Poi chiuse gli occhi, e accadde.
 Annullarono la distanza tra di loro e le labbra di entrambi si unirono in un innocente bacio. Le labbra di Sherlock aderivano perfettamente a quelle di John, sembravano essere nate per questo. Era questo ciò che avrebbero dovuto fare tempo addietro, quando ancora ce n’era la possibilità. Si maledissero entrambi contemporaneamente per aver aspettato così a lungo, per aver a lungo negato ciò che era esattamente a un passo dai loro nasi.
Sherlock si allontanò per primo, dopo pochi secondi. Non aveva idea dell’impatto che quel gesto aveva avuto sul compagno. Non sapeva neanche quante cose all’interno del suo animo si stessero finalmente disgregando.

E ne era terrorizzato.
All’improvviso, una stanza del suo Mind Palace si spalancò su un giardino. Al centro di questo giardino un gruppo di bambini si rincorreva e giocava felice. In disparte, quasi al confine, c’era un bambino con un libro aperto sulle ginocchia, solo, che guardava i compagni divertirsi e ne provava indifferenza. O almeno ci provava. La sua mente vagava tra storie di tesori e pirati, la bellezza delle stelle e una lezione di anatomia appena appresa da un libro di suo fratello. Poi vide quel bambino crescere e diventare uomo. Non molto del bambino era scomparso nell’adulto. Tutto ciò che è stato era rimasto, seppur chiuso nel cassetto più alto della più remota stanza del suo brillante cervello.
John capì immediatamente che ciò a cui Sherlock stesse pensando lo addolorava, perché se Sherlock riusciva a leggere tutti, solo lui era in grado di leggere Sherlock. E lo faceva con una tale naturalezza, quasi istintivamente, che si domandava ancora se significasse qualcosa.

Alzò una mano e la sistemò sulla guancia del consulente, in un gesto che voleva dire: va tutto bene, non sei solo. Non ti accorge che sei circondato da un sacco di gente che ti ama, Sherlock. Io stesso per primo.
Sherlock posò la sua mano su quella dell’ex-soldato ancora sulla sua guancia e la strinse forte.
“Non credevo ti importasse” pensò.

 - Dovevo farlo, almeno una volta – ammise infine, più a se stesso che a John, che gli regalò il più bello dei sorrisi.
In quel momento Sherlock non potè fare a meno di pensare a quanto la gente fosse stupida. Gli altri consideravano meraviglioso un tramonto, il primo fiore che sbocciava in primavera, l’arcobaleno dopo una giornata uggiosa. Nessun poeta aveva mai cantato del sorriso di John Watson. Un sorriso che è tutto questo e anche di più. Un sorriso in cui si concentravano le forze della natura, in cui compare tutta la maestosa magnificenza di tutto ciò che di migliore l’essere umano ha da offrire. Nessuno si era mai soffermato prima ad ammirarne la bellezza, la capacità di irradiare calore all’anima e liberarla in un istante di tutta la paura.
Forse perché quel particolare sorriso era riservato solo a lui, o forse perché Sherlock riusciva a scorgerne tutti i significati.

 - Avrei desiderato che non te ne fossi mai andato, con tutte le conseguenze che ciò avrebbe comportato –
“ Avrei desiderato che mi avessi aspettato”
Aspettò per vedere la reazione dell’uomo a quella risposta, prima di rendersi conto di averlo solo pensato.

 -  Provo questa… cosa per te, John. L’ho provata dal primo momento che ti ho visto, anche solo se mi sei vicino. Sento le api nello stomaco –
John soffocò una risata.

 - Quelle sono le farfalle, Sherlock -
Non riusciva a ancora a capacitarsi del fatto che il suo migliore amico si fosse dichiarato. Cosa avrebbe dovuto rispondergli? Che la cosa che credeva si fosse assopita dopo la sua (finta) morte era tornata più travolgente di prima? Che aveva commesso l’errore più magistrale della sua vita? Che si sentiva un traditore? Che ciò che avrebbe voluto fare per una vita intera era baciarlo e ammirare tutte le sfumature dei suoi occhi, che riflettevano lo spettro della sua anima?

 - Che idea stupida. Come se le farfalle…-

 - Oh, sta’ zitto Sherlock –

Velocemente portò le mani dietro la nuca del detective e lo attirò verso di sé. Le loro labbra si scontrarono ancora una volta, ma con la delicatezza e il significato che solo John era capace di infondere alle cose. Le braccia di Sherlock andarono a posizionarsi sulle spalle dell’altro. La bocca del medico però chiedeva di più. John dischiuse le labbra e sfiorò con la lingua quelle del compagno, per incoraggiarle. Dopo un po’ ti timore iniziale, queste seguirono i suoi movimenti, perlustrando ogni angolo di quella bocca che aveva scoperto di amare alla follia.
Anche il grande Sherlock Holmes si era arreso all’inesauribile potere dei sentimenti. Gli stessi sentimenti che aveva severamente dichiarato un ostacolo alla sua mente. Ed era effettivamente così. Anche il ragionamento più semplice si rivelò impossibile in quel momento. La sua mente, il suo hard disk, era in completo blackout.
E gli piaceva da morire.

         -   Wow…Non credevo fosse così – disse una volta che si furono staccati per mancanza di ossigeno.
 
        - Ah no? E come credevi che fosse? – rispose dolcemente John, accarezzandogli col dorso della mano quel viso perfetto, spostandogli una ciocca dalla fronte.

          - Credevo sapesse meno di… te –
John gli cinse le spalle con le braccia e lo attirò al suo petto, stringendolo in un dolce e soffocante abbraccio.
Sherlock si lasciò cullare da quelle braccia forti e morbide, affondando il naso nel suo maglione beige. Il corpo di John era caldo, sicuro, come la guancia di un bambino, o la pelliccia di un cucciolo, o il camino che ti riscalda i piedi d’inverno. Quante volte nei suoi sogni aveva sognato di potervisi rifugiare ogni giorno, ogni secondo.
Le braccia di John erano la cosa più simile a una casa che avesse mai avuto. Un posto dove la gente ti vuole bene e ti accetta per come sei, un posto in cui poter ritornare, sempre.

 - John, io non sono bravo con i sentimenti, lo sai meglio di chiunque altro. Li ho sempre ritenuti pericolosi. Ma da quando ho conosciuto te… beh, diciamo che non hanno più voluto lasciarmi in pace. Scusa, ma sto ancora imparando ad amare. Il mio cervello è la cosa più preziosa che ho, John, tutto ciò che saprei donare all’umanità. Ma getterei volentieri tutto nel fuoco pur di saperti felice, perché in ogni stanza del mio Mind Palace ci sei tu. Tu hai le chiavi di ogni stanza. Hanno sempre avuto il tuo nome sopra –
John, nonostante la fermezza da soldato, non riuscì a non chiudere gli occhi, stringere quel corpo indifeso ancora più forte, che mai prima di allora era sembrato così tanto un bambino innocente, e pianse. Pianse per tante cose, troppe per poter essere elencate.

 - Io non lo merito, Sherlock, non merito nulla di quello che tu hai da offrirmi –

 - Oh no, John – disse lui sollevandosi e baciando le guance del dottore, rigate dalle lacrime – Una persona che ha salvato così tante vite merita qualsiasi cosa. Soprattutto per quante volte ha salvato la mia di vita. Così tante volte in così tanti modi…-
Un altro bacio sulla fronte, uno sulle palpebre.

 - La verità e che io non ti merito. Cosa avrei da offrirti? Stress, nervosismo, disordine, resti umani nel frigorifero. Non ho mai preteso nulla più di ciò che già avevamo. Mi rendo conto di essere insopportabile, maleducato, strano, la persona più ostile che si possa avere la sfortuna di incontrare. Ma volevo solo che tu lo sapessi, dovevo dirti quanto ti amo. Tu mi hai reso capace di amare. E tutto il mio amore è con te, fino al resto dei miei giorni-

 - Tu hai da offrire molto più di quanto immagini, Sherlock. Se solo te ne rendessi conto…-
Sherlock strinse le labbra e sorrise sinceramente.

 - Ho da offrire, è vero. Ho da offrire tutto il mio aiuto a voi tre: tu, Mary e vostro figlio. Dovrò pur insegnargli come usare una fiamma ossidrica, no? –
Entrambi si abbandonarono a una risata che era una liberazione, un sospiro di sollievo. E di speranza.

 - Anche se da un po’ mi sono reso conto che la scienza non parla forte come il mio cuore. Sì, ho scoperto di averne uno. E sono davvero contento che tu abbia Mary, John. Spero che lei possa darti tutta la felicità di cui hai bisogno –
L’ex-soldato baciò dolcemente le tempie del suo migliore amico e si alzò per poggiare il viso nell’incavo del suo collo. Profumava di bagnoschiuma alla ciliegia, sigarette e sostanze chimiche, e di tante altre cose buone, come solo il profumo di Sherlock sarebbe potuto essere.

 - L’avevo trovata anche con te, sai. La felicità. Due anni fa. L’avevo trovata davvero-
Rimasero stretti l’uno all’altro ancora per qualche minuto, beandosi della reciproca compagnia e sussurrandosi ancora tante altre cose in quel silenzio, così profondo che uno sentiva il battito del cuore dell’altro.

 - Sher, devi fare una cosa molto importante, per me –
 - Cosa? –
 - Smettere di drogarti, devi prometterlo –
 - Non posso promettertelo – disse Sherlock abbassando lo sguardo.
 - Promettimi almeno che ci proverai –
 - Ok, te lo prometto –
 - Va bene – sorrise accarezzandogli il viso – E ora a mangiare! – esclamò il dottore suscitando la risata divertita dell’amico.

Così si alzò e sparì in cucina, tornando qualche minuto dopo con due panini e una tazza di tè.

 - Ecco. Sono alla marmellata di fragole, la tua preferita – disse posando il vassoio sul tavolo.
 - Come sai che è la mia preferita? –
 - Osservo meglio di quanto credi, caro il mio sociopatico iperattivo –
 - Questo è da vedere – lo schernì il detective.
 - E comunque non avevo molta scelta. In frigo c’era… come si chiamava… July, Judy…-
 - Jusy –
 - Sì, Jusy. Ho riconosciuto il neo accanto all’unghia. Strano che sia ancora lì…-

Passarono del tempo a ridere, punzecchiandosi come erano soliti fare. Il fatto che a Sherlock fosse tornato l’appetito era da ritenersi un miracolo.
John lo osservò a lungo mangiare, un gesto così scontato ma che lo rendeva umano agli occhi della gente. Per lui, invece, Sherlock Holmes era già l’essere umano migliore che si potesse incontrare, ed era lusingato di avere il privilegio di essere nella sua vita.
E nel suo cuore.
Quando ebbe finito di mangiare si raddrizzò sulla sedia, passandosi una mano sulla pancia piena.
Non riuscì a trattenere uno sbadiglio. Dopotutto, anche uno iperattivo come lui aveva delle – inutili- necessità primitive.

 - Ok, adesso vieni che andiamo a dormire –

John prese per mano il consulente e, sorridendogli, lo aiutò ad alzarsi dalla sedia.
Salirono nella camera da letto di Sherlock e, una volta entrati, il medico gli sfilò la vestaglia e lo aiutò a sistemarsi sotto le coperte, come si fa con i bambini.
Subito il suddetto bambino allungò le braccia reclamandolo al suo fianco.
John non potè fare a meno di accontentarlo, quindi fece il giro del letto e si sistemò accanto a lui.

 - Non te andare, ti prego –
 - Non me ne vado, Sherlock. Non ho alcuna intenzione di farlo –

Un braccio di John a stringergli le spalle e l’altra ad accarezzargli i suoi soffici capelli, giocherellando con le ciocche. Di tanto in tanto ne approfittava per posare un bacio tra quell’ammasso di ricci del colore dell’ebano.
 
 - Ci sono delle persone… – cominciò il detective, la voce innegabilmente segnata dal sonno -  …delle persone che pensano che tutti nascano per qualcosa, che tutti abbiano uno scopo nella vita.  Se questo è vero, lo scopo della mia vita sei tu, John –

L’ex-soldato rimase immobile, solo la sua mano si muoveva ad accarezzare ogni centimetro della sua schiena.
Quante volte da quando lo conosceva aveva pregato che dicesse una cosa del genere? Quante volte aveva desiderato sentire il suo corpo fremere sotto il suo tocco? Quante volte aveva desiderato poter baciare e prendersi cura di ogni cicatrice che urlava il suo nome e che deturpava quel corpo statuario? Questi sogni erano l’unica cosa che non era precipitata con lui dal tetto di un edificio, le uniche rimaste integre tra i brandelli della sua anima.

 - Se solo avessimo avuto più tempo. Se solo ti avessi aspettato, Sherlock. Non so quante volte ho desiderato che tu mi amassi. Ed era così. Ero solo troppo cieco e ottuso per rendermene conto, ti chiedo perdono. Scusami se il mio povero cervello non regge confronti con il tuo. Mentre tu… tu avevi sempre saputo, che per quanto negassi e non me ne rendessi conto, ti ho sempre amato. Lo avevi sempre saputo. Se solo avessi avuto il coraggio di dirtelo prima. Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile. Dovevo solo buttarmi. Mi sarei sempre buttato per te. Una tua parola e ti avrei seguito sino in capo al mondo. Hai chiesto il mio perdono per esserti finto morto. Certo che ti perdono, idiota. Hai rischiato la vita per salvare la mia. E sarò per sempre in debito con te. Averti conosciuto è stato un miracolo. Ero solo come un cane e ti devo così tanto. Tu mi hai ridato alla vita. Tu hai dato un senso alla mia vita. Sei il mio dolce miracolo, Sherlock – un altro sorriso, un altro bacio sulla fronte, mentre si spogliava di ogni segreto e ogni parola non detta – Avrei dovuto semplicemente aspettarti. Tu, Mary e il piccolo siete le persone che amo di più al mondo. Mi avete stravolto la vita e me l’avete resa migliore. E come tu hai promesso di proteggere noi, io prometto di proteggere te finchè vivrò. Qualunque cosa accada, io ci sarò per te, Sherlock –sociopatico iperattivo- Holmes, perché meriti tutto il meglio che questo mondo corrotto e pieno di idioti ha da offrirti. Meriti l’amore incondizionato. E io ti amo –
Il respiro di Sherlock si era fatto regolare, le sue mani avevano smesso di vagare per la sua schiena, segno che probabilmente si era addormentato.
John chiuse gli occhi e sorrise, sussurrando ancora nei suoi capelli: - Chissà se avrò il coraggio di ripeterti tutto questo. Sai, all’accademia militare non ti insegnano ad affrontare le emozioni… Ti amo, Sherlock-
   
     - Ti amo Sherlock… e ci sarò… sempre…- fu l’ultima cosa che disse, mentre                        Morfeo lo accompagnò verso la soave tranquillità di quello che non poteva essere     altro se non il più bello dei sogni.
Sherlock, disteso nell’ovattato limbo creato dalla sua mente, incapace di distinguere se ciò che aveva sentito fosse reale o semplicemente frutto della sua immaginazione, si abbandonò al disarmante bisogno di amare ed essere amato. Perché Sherlock Holmes, lo strambo, il mostro, aveva finalmente imparato ad amare, e l’aveva capito il giorno in cui Mike Stamford aveva buttato nella sua solitaria vita l’uomo più saggio, coraggioso e gentile che si potesse avere l’onore di incontrare.
“Riportami all’inizio, John”
Confuso tra quel mare di sentimenti, profondo e rassicurante come il blu degli occhi di John, Sherlock sorrise.
  
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