FUORI DALL’INTERNO -–
il “Mamihlapinatapai”.
Lì
scrisse. Lì lasciò il suo personale segno. Forse sarebbe rimasto
impresso per secoli,
forse per minuti. Persino il futuro di una scritta è
incerto, figurarsi quello
degli uomini. Quella frase ormai faceva parte della sua pelle, della
sua
storia. Un giorno l’avrebbe tatuata sul polso, tanto ne era
contento. Su un
vecchio muro di una casa abbandonata, la frase campeggiava, nera e acre
in
tutta la sua grandezza. Mordechai riusciva ancora a sentire il forte
odore
della bomboletta spray nera gocciolante e della scritta appena creata.
Due
ore prima, 12:18
L’anno
scolastico procedeva. Monotono come sempre,
leggero come mai.
Mordechai afferrò un libro di testo e si diresse verso
l’aula teatro
della prossima, agognante lezione. Sbadigliò davanti ad uno
dei suoi compagni
di classe, che non si accorse di avere di fronte. Seduto al suo banco,
in
seconda fila, vicino alle finestre, poggiò la penna sul
foglio e la lasciò
libera, libera di esprimersi. “Almeno lei può
farlo senza restrizioni”, era il
commento che il sedicenne riservava a tutti coloro gli chiedessero il
motivo di
tutte quelle ore buttate a scrivere sui quaderni frasi incomprensibili,
totalmente estranee ai temi scolastici delle lezioni quotidiane.
Apparentemente,
Mordechai sembrava uguale dentro e fuori. I vestiti che indossava erano
molto
simili al resto della scuola, riusciva ad uniformarsi senza particolari
difficoltà agli altri. Conoscendolo meglio, però,
si riusciva ad intuire quanto
in realtà fosse diverso. Per questo suo aspetto era spesso
emarginato, poiché
non molto socievole. Nessuno, a parer suo,
lo conosceva davvero.
L’ultima ora era appena suonata, solo sessanta minuti ed
un’altra
giornata sarebbe terminata.
Da
qualche tempo, Mordechai si sentiva osservato durante le lezioni, anche
se non
dava mai molto peso alle sue sensazioni. Come suo solito, dava spazio
alla sua
penna. Ma qualcuno lo osservava davvero, furtivo, in ultima fila, in
diagonale
a lui. Ueli, un suo coetaneo, cercava di mascherare
l’attrazione per Mordechai
che da qualche tempo provava. Ogni giorno che passava, si rendeva conto
un po’
di più di quanto in realtà lo amasse. Cercava di
convincersi, sempre con più
impegno e
volontà, di non provare “ciò
che tutti chiamavano amore”, perché lo sapeva,
l’amore faceva male. Mordechai
pareva eterosessuale a tutti gli effetti. Aspetto che, sicuramente, non
aiutava
affatto Ueli, considerando la sua apparente irremovibilità.
Mordechai aveva i
capelli arancioni, lo stesso pel di
carota di Rupert Grint, la sua stessa bacchetta rotta, per
lungo tempo
irreparabile, sempre sotto la minaccia del suo Platano Picchiatore e la
sua
grande paura di perdere di nuovo quel Silente tanto amico. Gli occhi
color
nocciola lo avevano sempre distinto dalla maggior parte dei rossi della
sua
scuola; anche se non erano in molti a possedere quel colore di capelli,
avevano
tutti gli occhi bruni, se non neri, verdi o blu. Il suo nocciola
brillava molto
di più in estate, forse perché quei tre mesi
riuscivano a farlo sentire un po’
più libero rispetto al resto dell’anno,
perché si sapeva che gli occhi fossero
da sempre lo specchio dell’anima. Era tipo da adorare
l’inverno, con la sua
temperatura da maglioni e abbracci, con le sue ricreazioni scolastiche
passate
a fare a gara per l’ultimo posto rimasto davanti al
termosifone ed il suo
piccolo pezzo di felicità dopo aver coperto anche il naso
sotto il piumone, ma
la risolutezza si faceva viva solo d’estate. La stagione in
cui riusciva ad
evadere dalla realtà della cittadina in cui era nato e
cresciuto e da cui non
si sarebbe spostato permanentemente almeno fino alla maggiore
età. Per un mese,
un solo mese all’anno, riusciva ad evaderne, e a sentirsi
meglio con se stesso.
La sua altezza ed il suo peso non erano mai stati un problema fisico;
l’unica
altezza che doveva raggiungere era quella degli altri, comuni, ragazzi
che lo
circondavano e l’unico peso che doveva portare era quello
della gravità sulla
sua testa. Le felpe
dei Doors
e degli AC/DC lo
avevano
sempre accompagnato, sin dalle medie, quando aveva cominciato ad
ascoltarli.
Canticchiava “Highway to hell” ogni mattina, quando
il cellulare suonava la
canzone come sveglia. Quel poster in camera sua era appeso sulla parete
rosso
bordeaux da tre anni. Ricordava ancora il giorno in cui suo padre era
tornato a
casa con un tubo in mano, porgendoglielo; non aveva esitato un attimo a
tappezzarvi
quella parte di parete leggermente deteriorata dal tempo. Ora tutto
appariva
così diverso, aveva desiderato più volte di poter
tornare ai vecchi tempi, in
quegli anni in cui il suo unico problema ruotava attorno alla scelta
dell’uovo Kinder con la
sorpresa migliore sullo
scaffale del supermercato vicino casa sua. Aveva sempre i capelli
arruffati, ma
con stile. Era come se fossero cresciuti selvaggi ma con un certo
rigore. Le
lentiggini chiare occupavano tutta la zona al di sopra della bocca,
guance escluse.
Ciò lo aiutava a risaltare i suoi occhi, e a donargli ancora
più luce.
Ueli non faceva altro che guardarlo di nascosto. Forse, un
giorno
avrebbe avuto il coraggio di parlargliene. Ma tutto ciò che
faceva rendeva la
situazione sempre più scomoda. Era impacciato nel parlargli,
sudava spesso e si
agitava, mentre con gli altri era tranquillo. Mordechai aveva
cominciato a
farsi qualche domanda, pensò. Non voleva, però,
che lo capisse da solo: se
avesse dovuto saperlo, lo avrebbe ascoltato dal diretto interessato,
non
intuito da solo. Ueli era sempre stato coraggioso, persino in momenti
critici.
La freddezza ed il suo sguardo sicuro lo rendevano d’acciaio
agli occhi delle
persone. Nonostante tutto, si reputava un buon attore,
perché non era affatto
d’acciaio; era d’aria, niente di più
facile da spostare, trasformare, tagliare
a piacimento del resto del mondo.
Mordechai
ed Ueli sospirarono di sollievo: un’altra
giornata scolastica era finita, loro erano liberi di tornare a casa e
imprigionarsi
di nuovo con i libri di testo.
Mordechai adorava la sua
bicicletta, e non perdeva occasione di salire sulla sua sella e andare
ovunque
in suo potere, così aveva preso l’abitudine di
tornare a casa in bici. Ueli
aveva sempre fatto affidamento sui suoi piedi. Sulla via di casa, si
incontrarono, e Mordechai si fermò a salutarlo.
<< Beh,
devo dire che quel compito ci è andato meglio del previsto,
o no? A detta della
classe, nessuno sapeva neanche di cosa trattassero i capitoli da
studiare. >>
<< In effetti, ehm, non è andato poi tanto
male. Pensavo, ehm…
Sarebbe stata una catastrofe. >>
<< Già, ero pronto ad innalzare un monumento
ai caduti. Comunque
sia, pensi di venire alla festa, sabato. >>
<< Ehm, non so, domenica sono fuori
città, ti farò sapere. Credo di
sì, comunque. Ci vediamo domani, Mordechai. >>
<< Certo, a domani. >>
Nella
sua camera, Ueli cominciò a pensare a
Mordechai. Per lui, ogni più piccola conversazione, compreso
il saluto, era
diventata motivo di felicità temporanea. Da poco sapeva
dell’iscrizione di
Mordechai ad un sito di domande e risposte personali. Qualcuno chiedeva
qualcosa di personale ad un altro, l’altro gli rispondeva il
più sinceramente
possibile. Nel suo profilo, Mordechai aveva risposto ad un anonimo che
gli
chiedeva se fosse omosessuale. Il sedicenne aveva risposto di non
esserlo a
tutti gli effetti, ma di aver provato e voler provare esperienze
simili. Per
Ueli fu un grande passo avanti. L’amore che Ueli provava per
Mordechai durava
da tre anni, dal primo liceo, ma aveva completamente preso forma solo
all’inizio del secondo. Nessuno sapeva del suo orientamento
sessuale, poiché
nessuno l’aveva lontanamente mai intuito.
<< Se
sono coraggioso come dicono, dovrò dimostrarlo a me stesso.
Quest’agonia dura
da tre anni. Voglio togliermi questo peso. >>
Così prese il cellulare,
cominciò a scrivere qualcosa. Dopo alcuni minuti lo ripose.
Pensò che fosse
meno impersonale fare outing con una lettera che con un messaggio.
Prese una
penna nera ed un foglio, poi cominciò a scrivere.
“Mordechai,
da
tre anni non faccio che pensare a come ti senti quando torni a casa e
tutti i
problemi vengono alla luce. Ti ho preso a cuore. Forse fin troppo. Ti
ho preso
a cuore talmente tanto che mi sta facendo male. Mi sta facendo male,
ciò che
tutti chiamano amore. Lo stesso amore che dovrebbe rendermi felice, in
realtà
mi sta uccidendo. Su quel sito hai scritto di voler provare esperienze
diverse,
prova con me.
Questo è il
grido disperato di qualcuno che conosci, che si reputa ed è
reputato
coraggioso, ma che in fondo sa di non esserlo nemmeno un po’,
tanto che non si
firmerà. Non voglio fare in modo che il mio amore ti
allontani da me, perché la
maggior parte delle volte è questo che succede. A me basta
averti accanto,
poterti guardare negli occhi, parlarti di qualsiasi cosa. Se a te non
dovesse
andare bene, sappi che io mi accontenterò di starti vicino
quando avrai bisogno
di qualcuno su cui contare, perché so che in questo mondo
quel qualcuno è
sempre più difficile da trovare, come un ago in un pagliaio.
E penso che ognuno
ne meriti. Anche solo per sfogarcisi. Ho notato che faccio pena a
scrivere.
Quando
mi chiesi quale fosse il mio nome, avevo già capito di
amarti, me ne serviva
solo la conferma. E da quando l’ho avuta, la mia vita non
è stata più la
stessa. Sono maturato, tanto. Guardando indietro, mi accorgo di quanto
poco
avessi capito del mondo, e della vita in generale. Mi hai aperto gli
occhi e
chiuso il cuore, ora è immune a tutti gli altri. Amo ed
amerò te, fino alla
fine dei miei giorni.
Con
affetto,
U. L., qualcuno che già
conosci.”
Ripiegò
la carta e la ripose in una busta da lettere
bianca. Dopo aver bagnato la porzione adesiva, sigillò la
busta. La nascose
sotto il materasso logoro, perché avrebbe consegnato quella
lettera di notte,
in modo da non essere visto da nessuno.
Tredici
ore dopo, 01:18
Ormai
la notte si avviava alla sua metà. Ueli uscì
da casa e si diresse verso quella di Mordechai, due isolati
più avanti. La
strada era deserta, solo dei cani randagi passavano di tanto in tanto.
Qualche
ubriaco passeggiava per l’unico marciapiede presente. Tutta
la via, fino a casa
di Mordechai, era costeggiata di cespugli ed isole pedonali abbastanza
ristrette, ma comunque utili. Con i Coldplay
nelle cuffiette, Ueli camminava in compagnia di uno stato
d’animo indeciso
fra il panico e la determinazione.
“When you
try your best
But you don’t succeed,
When you get what you want
But not what you need,
When you feel so tired
But you can’t sleep,
Stuck in reverse.
And the tears come streaming
Down your
face,
When you lose something
You can’t replace,
When you love someone
But it goes to
waste,
Could it be worse?”
<<
Quando si dice che una canzone sia stata
scritta per te… >> Ueli mise una mano in tasca
e si accorse di essere
arrivato. Aveva indossato un felpa nera, a tinta unita, ed i jeans,
neri
anch’essi. In tanti gli avevano detto che il nero era il suo
colore, e che si
intonava perfettamente ai suoi capelli mori, simili a quelli di Jim
Morrison ai
tempi del suo gruppo, e ai suoi occhi verdi. La sua non particolare
altezza e
le cosce muscolose gli conferivano un’aria interessante. Di
solito portava una
catena di metallo appesa a due passanti dei jeans, gli era piaciuta
l’idea sin
da quando ne aveva vista una in un negozio etnico in Giappone, durante
uno dei
suoi viaggi. Nonostante non amasse particolarmente il metal, amava le
borchie.
La cassetta delle lettere era posta sul lato destro del
giardino
anteriore, diviso in due dal vialetto d’ingresso alla modesta
villa. Senza far
rumore, Ueli infilò la busta nella cassetta, poi
tornò a casa.
La
mattina seguente
Mordechai
si stiracchiò, ancora sotto le lenzuola.
Mise le pantofole e scese in giardino a controllare la posta. Nella
cassetta
trovò una busta bianca, senza indirizzo, mittente o
destinatario. La aprì senza
esitare. Fu attento a non rompere troppo la carta. Quando ne lesse il
contenuto, pensò subito a Noah, un ragazzo omosessuale
dichiarato frequentante
la classe accanto alla sua. Il contenuto della lettera lo sconvolse
molto,
tanto che ebbe bisogno di qualche ora libera per rifletterci sopra.
Trascorse
tutta la domenica mattina a pensare a chi potesse aver scritto qualcosa
di
simile nei suoi confronti. Rilesse qualche riga della lettera.
“Mi sta
facendo male, ciò che tutti chiamano amore.”
Era
certo di aver sentito prima quella identica
frase, forse da qualcuno più vicino di quanto credesse.
<< Oh,
che casino. Ho mentito su quella risposta, non mi sono mai piaciuti i
gay. >> Una bambina di appena dieci anni gli si
avvicinò. Aveva l’aria di
essere più intelligente della media delle bambine della sua
età. Si sedette
vicino a lui, che teneva ancora la lettera aperta fra le mani. La
bambina gli
chiese quale fosse il suo nome.
<< Mordechai, piacere. Tu sei…?
>>
<< Zuri. I gay sono forti! >>
<< A
me non piacciono. Ma non sono omofobo, solo non so il
perché. Penso sia una
cosa… A pelle. Ma non è questo il punto,
è che ora mi sento in colpa, perché a
me un ragazzo piace, ed anche se spero che sia lui ad avermi scritto la
lettera, in realtà non mi ci vedo come gay. Ma tu non puoi
capire, hai dieci anni... >>
<< Fidati, capisco più degli
adulti che conosco. >>
<< Già, me ne sto accorgendo. Tu che mi
consigli,
Zuri? >>
<< Beh, io ti consiglio di andare dal
ragazzo che pensi ti abbia
scritto e parlargli. Anche se non tutte, avrai le idee sicuramente
più chiare.
Mordechai, già ti voglio bene, voglio darti una mano.
>>
<< Beh, mi piacerebbe, ma è una
cosa che devo fare da solo. Scusami,
Zuri. >>
<< Capisco… Però voglio sapere come
va a finire, okay? Io vengo qui
tutte le domeniche mattina. Ciao! >>
<< Ciao! E, Zuri… Grazie, davvero
tanto. Ora so cosa devo
fare. >>
<< Non preoccuparti, mi
piace aiutare i miei amici! >> la bambina
tornò dai genitori e diede la
mano alla madre. Poi scomparve nella folla di persone che si avviavano
verso
una fiera che si svolgeva tutte le domeniche del mese, per una volta
l’anno.
Mordechai ripiegò la carta e mise la lettera in tasca. Si
alzò dalla panchina
di marmo del parco cittadino e proseguì anche lui verso la
folla della fiera.
Pensò che, forse, svagarsi l’avrebbe aiutato a non
pensare.
La
fiera occupava tutta la strada principale della città, ed
aveva l’onore di
essere annoverata dai cittadini come la fiera più importante
e grande mai
svolta in quel luogo. Il suo tema era mangereccio, e forse era quello
il motivo
di un tale afflusso di potenziali clienti ad una banale rassegna sul
cibo. Una
specie di sagra attirava così tante persone da impedire il
traffico
automobilistico di tutta la città e favorire quello pedonale
e ciclistico. In
ogni angolo dello spazio occupato dagli stands, le donne litigavano per
il
posto in fila e gli uomini badavano ai bambini.
Mentre
Mordechai cercava di farsi spazio, scorse Ueli dall’altro
lato della fiera,
intento ad uscirne il prima possibile. Gli si avvicinò con
falsa casualità e
cercò di salutarlo, provando a far risaltare la sua voce
sopra l’isteria di
massa.
<< Ueli, ciao! Devo parlarti! >>
<< Mordechai?!
Ehm, dimmi! >> Ueli sembrava più sorpreso di
quanto dovesse essere.
<< Non qui, però! Si capisce
pochissimo! Andiamo verso il parco, ora lì non
c’è nessuno! >>
<
Il
parco era deserto. Mordechai ed Ueli si sedettero
uno di fronte all’altro, in orizzontale rispetto alla
panchina, che non aveva
schienale. Mordechai prese la parola prima di Ueli, che nel frattempo
aveva
assunto un’aria preoccupata.
<< Ueli,
credi che non abbia capito che quella lettera sia tua? >>
<< Eh? Ma che dici, di che lettera parli?
>> aveva cominciato
a sudare.
<< Di questa. Leggila. >> Mordechai gli
porse la lettera, che
pareva consumata, ed Ueli cominciò a leggerla ad alta voce.
Si mostrò
ingannevolmente sorpreso del suo contenuto, e Mordechai si disilluse.
<< Non l’ho
scritta io, non so scrivere così bene. E poi, questa non
è la mia
grafia. >>
<< Ah, va bene lo stesso. Senti, mi aiuteresti a capire
di
chi sia? Perché sicuramente hanno sbagliato indirizzo.
>>
<< In
che senso? >>
<< Nel senso che nessuno si è mai innamorato
di me. Non sono il
tipo su cui la gente riflette di notte, non si perde il sonno per me.
Io non
rimango impresso nella memoria di qualcuno, io sono passeggero,
così, senza una
dimora fissa nella mente di qualcuno disposto a conoscermi. E non sono
in
molti, comunque. >>
<< Mordechai,
devo dirti qualcosa. So di chi è la lettera, è
stata scritta da qualcuno che
conosco troppo bene e che darebbe la vita per conoscerti
meglio.>>
<< Non
capisco… Chi è? >>
<< Ti prego, non andare via quando lo
saprai. Non togliermi la
parola, perché io per te ci perdo il sonno ogni notte, ci
rifletto, ci piango
da tre anni ormai! Tu hai una
dimora
fissa nella mia mente, tu sei rimasto impresso nella mia memoria!
Cazzo, sei
tu! Tu e basta! Tu come sei, tu senza compromessi, tu ed i tuoi occhi!
Io ti
capisco, cazzo! Io ti amo e dovrei esserne contento, perché
dicono che l’amore
faccia bene e renda felici, invece sono più triste di quanto
dovrei e vorrei
con tutto me stesso, ma non posso farci niente, mi sta facendo male,
ciò che
tutti chiamano amore! E non posso farci niente, niet, nada, un cazzo!
Ma io ti
amo più di così, solo che non riesco ad
esprimerlo. Scusa, ehm… Sono patetico.
Lo so, non dovrei mettermi a piangere per cazzate simili, invece di
scordarmi
di te sono qui a piagnucolare come un cretino per una cosa che sento
solo io.
Scusa, dimenticati di me, sparirò dalla tua vita. Comunque
sappi che ti amo più
di quanto Romeo amasse Giulietta. >> Ueli raccolse la
giacca di pelle nera
e fece per avviarsi verso casa sua. Mordechai non fece in tempo a dire
qualcosa, l’emozione ed il modo in cui Ueli gli avesse
confessato tutto gli
impedirono di aprir bocca, ma lo prese per un braccio. Prese una penna
dalla
tasca destra e scrisse qualcosa sul retro della lettera, poi la
consegnò ad
Ueli. Egli la lesse, la accartocciò e la gettò
lontano da lui. Cominciò a singhiozzare
silenziosamente. Le lacrime erano scese fin sotto il mento, ed il suo
morale
fin sotto l’asfalto della strada. Non sapeva il motivo di
quello stato d’animo,
sapeva solo che in qualche secondo aveva cominciato a piangere
sorridendo.
Mordechai gli asciugò le lacrime con il polso e lo
guardò negli occhi. Rimasero
a guardarsi reciprocamente negli occhi finché Ueli non
sussurrò, abbracciando
Mordechai, con la voce rotta dal pianto, qualcosa di incomprensibile.
<< Aspetta, questa è quella cosa in dialetto
Yaghan, il “guardarsi
reciprocamente negli occhi…” ehm…
Già. >>
<< Sperando che l’altro faccia
quel qualcosa che tutti e due
desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due ha il coraggio di fare
per
primo”… Io, ehm, la conosco bene, e pare che si
stia accadendo proprio adesso,
giusto? >>
<< Già, è vero. Ma
adesso baciami. >>
La
domenica seguente, 10:20
<<
Zuri! Zuri, ti ricordi di me? >>
<< Mordechai,
certo che mi ricordo! Non è passato molto tempo, in fondo.
Aspetta, sembri
felice… Com’è andata con la lettera?
>>
<< Vieni,
ti racconto. In poche parole, il ragazzo della lettera si chiama Ueli,
è lo
stesso ragazzo che speravo mi avesse scritto. Ci siamo baciati, e credo
mi sia
piaciuto. Sai, ancora non mi ci vedo come omosessuale. >>
<< Sono felice! Voglio conoscerlo! >>
<< Sapevo che me l’avresti chiesto, ti ho
prevenuta. Ueli, vieni
qui! >>
<< Ehi, ciao, qual è il tuo nome?
>>
<< Zuri, sono un’amica di
Mordechai. State insieme adesso,
vero? >>
<< Io direi proprio di sì, piccola. Lo amo, e
non penso che avremmo
potuto finire diversamente dal fidanzarci. >>
<< Ti amo più di quanto riesca ad
esprimere a parole, sul serio,
Ueli. Ma io non riesco a vedermi come un omosessuale. >>
<< Non è proprio lo scoprire un
lato di noi stessi diverso dai
soliti che ci terrorizza? Si deve accettare ciò che si
è, altrimenti si finisce
per autodistruggersi. Ci amiamo, e credo sia questa la cosa
più importante.
Imparerai a far parte della tua pelle, Mordechai, e da quel giorno in
poi non
avrai più paura; ed io sarò qui, al tuo fianco, a
testimoniarlo e a esserne
felice per te. Per noi. Sai, non mi piace pensare al mio futuro, ma se
lo penso
insieme te, allora diventa la cosa più bella che
potrò mai fare. Tu mi rendi
migliore, tu mi aiuti a guardare negli occhi la paura e a sconfiggerla
con le
mie forze, tu mi fai capire che l’amore sopravvive persino
alla
morte. >>
<< Giuro che non troverò mai un
fidanzato come te, Ueli. Mordechai,
credo che tu, insieme a lui, farai grandi cose. Ho capito che siete
grandi da
quando Mordechai me ne ha parlato. Vi voglio bene, ragazzi, siete
fantastici.
Devo andare adesso ma, lui lo sa, io vengo in questo parco ogni
domenica
mattina. Ciao! >>
Mordechai ed
Ueli si presero per mano. Attraversarono la strada davanti al parco, la
stessa
su cui si estendeva la fiera cittadina. Ancora con la mano unita a
quella di
Mordechai, Ueli si sentì trasalire. Con i piedi ancora sulle
strisce pedonali,
uno davanti all’altro, vide Mordechai venire spazzato via da
un’auto nera alla
cui guida c’era, probabilmente, un ubriaco. Ueli si trovava
dal lato opposto a
quello della macchina, sulla destra. Istintivamente si
catapultò lontano
dall’impatto e portò gli avambracci alla nuca. Si
alzò in piedi e guardò la
scena. Il sangue di Mordechai era steso su tutta la strada e ricopriva
gran
parte del parabrezza rotto dell’auto. I pezzi di esso avevano
invaso la corsia
e tre automobili avevano arrestato la loro corsa barbaramente davanti
alla
scena. I proprietari delle rispettive si erano precipitati sul ragazzo,
morto
sul colpo, ed avevano tentato di rianimarlo fermando con una maglietta
l’emorragia al capo. Il sangue aveva però
continuato a scorrere copiosamente,
mentre Ueli, con le mani ancora attorno al collo, non era riuscito a
tornare
alla realtà ed era rimasto bloccato con lo sguardo perso nel
vuoto, a mirare ad
un futuro insieme svanito come sabbia tra le dita. Tutte le loro
speranze erano
volate via in sessanta secondi, lasciando al loro posto le lacrime. Le
loro
anime, intrecciate fino a far male, si erano sciolte inevitabilmente
sotto i
duri colpi della falce mortifera tenuta saldamente da mani
scheletriche. Mai
Ueli aveva provato qualcosa di più forte, anche se
negativamente, del suo amore
debilitante per Mordechai.
Mordechai era morto
sul colpo, ma il suo cervello era riuscito ad elaborare la situazione,
facendogli subire dolore e disperazione. La sua morte aveva sconvolto
la sua
mente, tutto ciò che aveva visto erano i suoi vestiti
sporchi del suo sangue,
le immagini dell’auto e della strada capovolte e mescolate in
ordine
completamente casuale, fino a che l’auto non si trovasse
sospesa nel cielo e la
luna calante sull’asfalto accompagnata nella sua discesa da
quei corpi di luce
e gas che tanto osservava ogni sera dalla sua camera, sognando un
giorno, di
essere libero come loro. Ueli si era avvicinato dopo qualche minuto, in
cui non
aveva fatto altro che fissare il vuoto in lacrime, ed aveva chiuso gli
occhi,
cambiato la benda e ripulito, per quanto possibile, la persona da lui
tanto
amata.