Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Beatrix Bonnie    09/01/2014    0 recensioni
Lei mi ascoltò in silenzio, ma alla fine mi fece un'unica domanda che mi tormentò per molti anni a venire: «Sei sicuro che ne valga la pena, Remus?»
Accettare quel posto per pagarmi il liceo avrebbe significato passare la giornata a scuola, per poi attraversare buona parte del centro e raggiungere il porto, dove avrei passato due ore a lavorare; e avrei dovuto ridurmi a studiare e fare i compiti la sera dopo cena, con un pessimo rendimento. Tutto questo, solo per riuscire a frequentare prima il liceo e poi l'università.
Ne valeva davvero la pena?
Era il mio sogno, dopotutto.
Valeva la pena, combattere per i propri sogni?
Sorrisi.
«Sì, mamma, ne vale la pena».

La storia di un giovane ragazzo sognatore che decide di combattere fino alla fine pur di veder realizzati i suoi obiettivi. Un esempio di virtù e costanza, sullo sfondo di un Irlanda che si affaccia faticosa alla modernità industriale.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Ciclo di Faerie'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 10
Le due richieste




Dublino, 1989




Suonai il campanello con una certa titubanza. Stavo cercando di portare a termine un mio proposito ma, francamente, non ero il tipo che si mettesse a progettare piani astrusi: di solito preferivo la limpidezza dell'onestà. Ma questa volta avevo bisogno di agire nell'ombra.
Venne ad aprirmi il signor Sangster e lessi un certo stupore sul suo viso. «Remus, oh ciao. Eleanor è ancora in università» mi disse, facendomi entrare in ingresso.
«Lo so, signore. Non sono venuto per lei» risposi, non senza un certo disagio. Il signor Sangster mi rivolse uno sguardo interrogativo, mentre mi faceva accomodare in salotto. Non potevo biasimarlo. «Io... sono qui per lei, signore» spiegai in un sussurro.
«Quante volte devo dirti di chiamarmi Jeremy?» intervenne lui, con un sorriso bonario.
«Ancora una volta, signore» risposi. Jeremy era gentile e cordiale, ma non mi sentivo pronto ad usare un tono confidenziale perché mi metteva una certa soggezione.
Jeremy si lasciò sfuggire un piccolo sbuffo e alzò gli occhi al cielo, ma vidi un lampo divertito balenare sul suo volto. «Dimmi, Remus. Di cosa hai bisogno?»
Ecco, era arrivato il momento critico. Avevo preparato il discorso anche questa volta, con l'aiuto di Murphy, tanto per cambiare, eppure non mi ricordavo più nemmeno una parola di quello che avevo scritto. Improvvisai.
«Ho un grosso favore da chiederle, signore. Io... ho bisogno di un prestito» spiegai, cercando di apparire serio e convincente. «Restituirò tutto fino all'ultimo centesimo, signore; e non chiederei a lei per ottenere dei favoritismi, se non fossi costretto dal fatto che tutte le altre banche mi hanno rifiutato il prestito perché non ho nessun bene che possa fungere da garanzia...»
Avrei continuato oltre, ma Jeremy alzò una mano per fermare il mio sproloquio. «Tranquillo, Remus. Non c'è nessun problema».
«No, signore» lo interruppi io, questa volta. «Un prestito vero. Non sono qui per chiedere...» mi bloccai perché non riuscivo a trovare la parola giusta senza sembrare offensivo. Era elemosina il vocabolo che volevo usare, ma mi pareva indelicato.
«Non voglio farti l'elemosina» mi rassicurò Jeremy, come leggendomi nel pensiero. Mi parve anche di scorgere una certa ammirazione nel suo sguardo per la mia caparbietà. «Dimmi quanto ti serve».
Sospirai. Nota dolente. «Ventimila sterline» annunciai infine.
«Accidenti, figliolo, che cosa ci devi comprare?» chiese Jeremy, ma il suo tono era tranquillo e quasi divertito.
Mi stropicciai le dita con un certo disagio. «Una casa» risposi alla fine, restando sul vago.
Le labbra di Jeremy si aprirono in un sorriso. «Vuoi chiedere ad Eleanor di sposarti?» mi domandò.
Non c'era modo di eludere una domanda così diretta e non aveva nemmeno senso mentire, anche se avrei preferito che la cosa restasse segreta ancora per un po'. Così mi limitai ad annuire, troppo sulle spine per parlare.
Passarono alcuni secondi che mi parvero interminabili: il signor Sangster stava soppesando l'ipotesi di concedermi il prestito o di concedermi la mano di sua figlia? Le due cose erano strettamente connesse, se ne rendeva conto anche lui. Ciò che mi stavo chiedendo era se, oltre ai modi gentili e disponibili, Jeremy Sangster fosse davvero disposto ad accettare che la sua preziosa figliola gli venisse portata via da un ingenuo sognatore squattrinato. Potevo essere l'uomo giusto per la sua Eleanor?
Alla fine Jeremy sorrise e i suoi occhi verdi si illuminarono di una luce tanto limpida che mi sembrò rendere serena tutta la stanza. «Vieni da me in ufficio, domani alle quattro. E la mia banca ti concederà il prestito».

Se chiedere i soldi a Jeremy Sangster per attuare il mio piano mi era parsa un'impresa degna di essere narrata in un poema cavalleresco, non avevo la più pallida idea di quello che mi aspettava dopo. Il peggio doveva ancora venire.
Prima di tutto dovevo ricercare il proprietario dello stabile che volevo comprare e, una volta trovato, avrei dovuto convincerlo a vendermelo. Infine, era assolutamente necessario pensare a qualcosa di brillante per fare quella proposta. Volevo essere romantico, ma insieme spiritoso e originale: volevo stupirla.
Capii subito che non poteva esserci altro luogo per la richiesta se non quello che era diventato il mio chiodo fisso in quegli ultimi mesi. Quello per cui avevo organizzato tutto.
Là le avrei chiesto di sposarmi.
Presi la mia decisione una fredda domenica di gennaio. Andai a prendere Eleanor con la mia irrinunciabile bicicletta, la caricai sulla canna e cominciai a pedalare in direzione del porto.
«Dove stiamo andando, Rey?» mi chiese Eleanor, decisamente incuriosita dalla meta piuttosto particolare: non si poteva dire che ci fossero chissà quali attrattive nella zona portuale di Dublino.
«Vedrai» risposi, restando sul vago.
Avevo il cuore che mi batteva a mille nel petto, e non solo perché portare qualcun altro sulla canna poteva risultare faticoso dal punto di vista fisico; era di tutt'altro tipo il motivo della mio battito accelerato: ero agitato come non lo ero mai stato in vita mia.
Quando arrivammo abbastanza vicini al luogo che avevo preparato, mi fermai, feci scendere Eleanor e legai la bicicletta ad un palo della luce. Eleanor si guardò in giro con aria spaesata, alla ricerca di punti di riferimento che potessero darle qualche indizio su dove fossimo. Il compito non le era facilitato dal fatto che ci trovavamo nel bel mezzo del nulla: avevamo lasciato alle spalle la città e il Sean Moore Park, per inoltrarci su un sottile istmo che si protendeva nell'oceano. Una sola stradina sterrata, circondata da terreni incolti, proprietà di chissà quale fabbrica o cantiere, attraversava la lingua di terra fin quasi alla punta.
«Dove siamo?» domandò Eleanor.
Io non le risposi, perché ero intento a cercare la sciarpa che avevo disperso nella borsa. Quando la trovai, rivolsi un sorriso speranzoso a Eleanor e le chiesi: «Hai voglia di fare un gioco?»
Lei mi guardò sospettosa, ma alla fine accennò un sì con il capo. Io allora le legai la sciarpa intorno agli occhi, non senza qualche protesta da parte sua. Quando mi fui assicurato che lei non ci vedeva, la presi sottobraccio e le sussurrai all'orecchio: «Ti fidi di me?»
«Sì» rispose Eleanor e in quel momento mi sentii completamente pieno di ogni sicurezza.
Camminammo in silenzio per alcuni minuti, Eleanor sempre saldata al mio braccio per paura di cadere, ma con una completa fiducia nella mia capacità di guidarla.
Non appena giungemmo al luogo che avevo preparato, tirai fuori dalla tasca una chiave: era una di quelle grosse, vecchie e arrugginite che possono andare bene per il portoni di un antico castello. La misi tra le mani di Eleanor e la feci avvicinare alla porta.
«Apri» le ordinai.
«Come faccio? Non ci vedo!» protestò lei, ma non acconsentii a toglierle la benda dagli occhi, così Eleanor fu costretta a tastare a casaccio alla ricerca della toppa. Solo quando riuscì ad aprire la porta e a fare un primo passo nella stanza, mi avvicinai a lei e sciolsi delicatamente la sciarpa.
Il luogo nel quale entrammo era un saletta circolare, piuttosto mal ridotta: l'intonaco in certi punti era scrostato, i vetri delle finestre sporchi e appannati, il pavimento un unico strato di polvere. C'era una scaletta a chiocciola, in un angolo, che portava al piano superiore. Ma non fu l'ambiente la prima cosa che Eleanor notò: furono le candele che io avevo acceso (ormai consumate per la metà, a dire il vero) e disposto in terra a formare un cuore.
«Questo è...» cominciò a dire Eleanor, incredula. Si guardò meglio intorno e alla fine lo disse: «Il vecchio faro vicino alla spiaggia».
Era ammirata e stupita: leggevo la gioia più profonda nei suoi occhi scuri e capii che non esisteva cosa più bella che rendere felici le persone che amavo.
«È tuo» le dissi, indicando la chiave. «Nostro, se vorrai».
«Nostro?» soffocò Eleanor in tono titubante.
Ma non ebbe tempo di chiedere ulteriori spiegazioni perché io le afferrai una mano e la introdussi dolcemente dentro il cuore di candele. Poi mi inginocchiai ai suoi piedi.
Avevo la gola riarsa e le labbra incollate per mancanza di salivazione. In compenso, mi sentivo le orecchie bollenti e immaginai che dovessero assomigliare a due parabole dipinte di rosso. Le ignorai, come ignorai ogni altra reazione fisica che mi stava consumando. Dovevo chiederglielo, ora, o sarei morto lì.
Estrassi di tasca una scatolina di velluto e la aprii sotto il suo sguardo sbigottito. Conteneva un anello con un brillantino quasi invisibile, tutto ciò che mi era concesso con la mia misera paga di operaio.
«Eleanor Sangster, vuoi sposarmi?» sussurrai in un tono che voleva essere deciso ma assomigliò più che altro ad un pigolio speranzoso.
Quella manciata di secondi che mi separarono dalla sua risposta furono i più interminabili della mia vita. Avrei potuto giurare di sentire il mio cuore battere a rallentatore, come se il tempo si fosse dilatato per farmi straziare ancora di più nell'attesa di un responso.
E poi Eleanor sorrise.
«Oh, Remus, sì! Assolutamente sì!» esclamò entusiasta.
Di colpo tutta la mia ansia si sciolse. Presi l'anello e glielo infilai al dito, dopodiché mi alzai in piedi e le presi il volto tra le mani per baciarla.
Avevo finalmente trovato il mio posto nel mondo: in quel vecchio faro abbandonato, al fianco di Eleanor.





Ecco qui l'ultimo capitolo.
Seguirà un breve epilogo. A presto,
Beatrix

   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Beatrix Bonnie