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Autore: Water_wolf    09/01/2014    13 recensioni
Tutti conoscono Percy Jackson e Annabeth Chase. Tutti sanno chi sono. Ma ancora nessuno sa chi sono Alex Dahl e Astrid Jensen, semidei nordici che passano l'estate a sventrare giganti al Campo Nord.
Che cos'hanno in comune questi ragazzi? Be', nulla, finché il martello di Thor viene rubato e l'ultimo luogo di avvistamento sono gli States.
Chi è stato? No, sbagliato, non Miley Cyrus. Ma sarà quando gli yankees incontreranno il sangue del nord che la nostra storia ha inizio.
Scritta a quattro mani e un koala, cosa riusciranno a combinare due autori non proprio normali?
Non so bene quando mi svegliai, quella mattina: so solo che quel giorno iniziò normale e finì nel casino. || Promemoria: non fare arrabbiare Percy Jackson.
// Percy si diede una sistemata ai capelli e domandò: «E da dove spunta un arcobaleno su cui si può camminare?» Scrollai le spalle. «L’avrà vomitato un unicorno.» «Dolcezza, questo è il Bifrost» mi apostrofò Einar. «Un unicorno non può vomitare Bifrost.»
Genere: Avventura, Comico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Annabeth Chase, Gli Dèi, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache del Nord'
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Un corvo, un dio e una coppia di cibo per cani ambulante

♦Astrid♦

Piantai la mezzaluna nella pancia del ragno, che si disintegrò, investendomi di fiocchi di neve. Scossi i capelli, togliendomela dalla testa, visto che non volevo né sembrare un albero di Natale fuori stagione, né avere delle sottospecie di budella di mostro sul mio corpo.
Ancora con le armi in pugno, mi voltai indietro verso Chirone e gli altri semidei. Incrociai lo sguardo di Alex, che mi condusse alla gamba destra di Percy. Dal polpaccio, colava viscoso il veleno del ragno dell’Hellheim, come denso punch nero. Ritrasformai le mezzelune in orecchini, che mi infilai furiosamente nei lobi, maledicendo mia madre, l’Hellheim, la sfortuna e tutto ciò che mi veniva in mente.
«Non conosco questo tipo di veleno» stava dicendo Chirone. «Come si può curare?»
Alex spostò il peso da una gamba all’altra, indeciso. «…ehm…»
«Non si può curare» intervenni io, lapidaria.
Annabeth mi guardò così intensamente che temetti di essere risucchiata in quella spirale grigia.
«Cosa vuol dire, “non si può curare”?» domandò Talia, unendosi al gruppo, stringendosi con una mano il fianco ferito.
«Vuol dire che non c’è, non esiste una cura per questo veleno» specificai, iniettando quella sentenza negativa di tutto l’odio che avevo in corpo. «Hell è molto brava a uccidere e si sente in perfetto agio con la morte, così come lo sono i suoi servitori.»
Sentii gli occhi puntati su di me. Tipico. Hell era mia madre, non ci voleva tanto a fare due più due; se lei era perfetta nei panni di dea dalla morte, lo dovevo essere anch’io, in quanto sua figlia. Mi uscii un basso ringhio dalla gola.
Levai il capo al cielo e gridai: «Grazie mille per il regalo di compleanno, mamma! Veramente, lo aspettavo per il diciassette Novembre dell’anno scorso!» Strinsi i pugni, sentendo la rabbia scavare contro il mio omero per uscire. «Vedo che ci sei sempre, quando si tratta di uccidere i miei amici!» Non soddisfatta, alzai ancora di più la voce e inveii: «Be’, vaffanculo! VAFFANCULO!»
Ero conscia degli sguardi attoniti degli altri su di me, una semidea qualunque, probabilmente pazza, che si metteva a insultare il proprio genitore divino quando c’erano ben altri problemi da affrontare. Ma me ne fregava quanto un centesimo in una fontana, e l’odio che si riversava in parolacce dalla mia bocca, scottandomi la lingua, era un balsamo che non usavo da troppo tempo.
Esplosi.
Sentii delle braccia forti stringersi attorno alle mie spalle, bloccarmi i fianchi, e seppi che era Alex perché le borchie della sua armatura mi graffiavano la pelle. Gridai, dibattendomi da quella stretta, ma senza un piano né mosse precisi. Volevo solo liberarmi di un peso, scrollarmi di dosso tutti gli insulti velati e non che avevo ricevuto, tutte le ingiustizie, tutte quelle cose una sedicenne non dovrebbe aver conosciuto in così poco tempo, tutto l’odio di cui ero capace. Non ero più una ragazza, ma una tempesta con la pelle, un ciclone trattenuto nelle ossa.
Poi, arrivò lo schiaffo. Violento, che mi fece girare la faccia e che interruppe l’eruzione in corso.
«Dannazione!» sbottò Alex. «Pensa, Astrid» aggiunse, più piano, quasi sussurrando. «Pensa.»
Non volevo pensare. Avevo pensato per tutta la mia vita, ero stanca di considerare come poteva essere interpretato ogni mio movimento, ero stufa di stare alzata la notte a ideare mosse e contromosse per prevenire ciò che sarebbe accaduto il giorno dopo. Diedi uno strattone e intravidi la libertà per una frazione di secondo, prima che Alex mi afferrasse i polsi e mi incrociasse le braccia davanti al collo, in modo che se avessi tentato di fuggire mi sarei strozzata da sola.
«Hell può uccidere, così come può decidere di non farlo» sussurrò sibillino.
Il suo fiato caldo e ansimante contro il mio orecchio mi fece tremare. Fui grata di quella posizione, quando realizzai quello che intendeva.
«Okay» mormorai con un filo di voce, arrochita per le grida.
Allentò la presa, si assicurò che non mentissi e mi lasciò andare. In un attimo, mi voltai e puntai gli occhi su Percy, steso a terra semi-svenuto. Avanzai, sapendo che avevo poco tempo, e mi fermai appena qualche istante prima di venire trafitta da un pugnale che fischiava nella mia direzione.
«Dimmi che cosa vuoi fargli» intimò, la voce controllata.
In un altro momento, avrei avuto paura. Se avesse gridato, avrei saputo che quello era il massimo di ciò che era capace. Invece, così, mi dimostrava semplicemente che poteva accadermi di molto peggio. Ma da me dipendeva una vita e non me ne importava niente delle premure della sua ragazza.
Feci una finta, come se volessi oltrepassarla, e quando lei fece sibilare il pugnale, le colpii il polso e me ne impossessai.
Rimase stupita, gli occhi color pietra sgranati, e approfittai dal suo stato di sgomento per arrivare a Percy. Mi misi a cavalcioni su di lui, tenendo il coltello alzato per mantenere Annabeth a distanza. Era bello, da vicino, anche in quelle condizioni. La fronte era imperlata di sudore e gli occhi socchiusi mostravano frammenti di sfumature uniche.
Mi chinai sul suo volto, sentendo le narici invase da un forte odore di sale, e poggiai le mie labbra sulle sue. Sentii Annabeth sussultare, ma la ignorai. Percy non era ancora abbastanza fuori gioco da tenere la lingua ferma, come credevo, perché accarezzò la mia e la strinse debolmente.
Era molto diverso dal mio primo bacio, dato più per dimostrazione che per amore, a un ragazzo tra i più carini della mia scuola. Speravo che, in quel modo, sarei stata accettata da un gruppo qualsiasi o qualcuno si sarebbe ricordato di me, ma tutto ciò che ottenni fu l’invito del preside a non molestare più alcuno studente, se non volevo cambiare un’altra scuola. Era stato breve, forzato e l’intreccio delle lingue rude, durato appena qualche secondo.
Percy aveva un modo tenero di arricciare lievemente le labbra, che faceva crescere pian piano il desiderio di un nuovo bacio, attizzando un focolare all’altezza del petto.
Ma non ero lì per spassarmela con un ragazzo, bensì per liberarlo del veleno del ragno. Entrando così in contatto con lui, potevo frugare il male che pervadeva il suo corpo e attirarlo verso il mio, dove non avrebbe fatto molti danni. Non stavo dando vita – impossibile per una figlia di Hell–, ma potevo togliere la morte. Quando una sensazione strisciante si depositò nella mia gola, mi staccai da Percy, tirandomi su di scatto.
«Ce l’hai fatta?» domandò Alex, teso.
Deglutii più volte, inghiottendo l’essenza del veleno, e risposi: «Sì.»
Mi alzai, dopo aver deposto il pugnale di Annabeth a terra, e barcollai nel scavalcare il corpo di Percy. Alzai il pollice, pronta a dire “sto bene”, quando un capogiro mi contraddisse. Crollai al suolo con l’eleganza che contraddistingue le megattere e gli gnu, atterrando dolcemente quanto un pellicano zoppo. Vidi la faccia di Alex ed Einar sfocate sopra di me.
«Ehi, dolcezza, non credevo che limonare ti stancasse tanto» mi prese in giro il figlio di Loki.
«Va’ all’Hellheim» borbottai.
«Sembri brava, però» continuò, imperterrito. «Quand’è che lo rifacciamo, noi due?»
«Einar» tuonò Alex.
Il figlio di Loki alzò le mani in segno di resa.
«Stai bene?» chiese poi, e riuscii a sentire dalla sua voce quanto i due combattimenti l’avessero stancato.
«Credo di stare per svenire» ammisi, strizzando le palpebre. «Ci pensate voi a spiegare ad Annabeth che non ho baciato il suo ragazzo per divertimento?»
«Non è il mio ragazzo!» protestò la bionda, che aveva udito solo ciò che voleva.
Anche se non potevo vederla, la immaginai stretta a Percy con la faccia rossa come un pomodoro.
«Okay» disse Alex.
«Mh-mh» mormorai, prima che gli occhi mi si chiudessero da soli. Scivolai nel buio.


 
Mi svegliai col presentimento di trovarmi in un luogo diverso da quello in cui ero addormentata. Mi sentivo le ossa molli, sciolte dalla spossatezza. Ispezionai con lo sguardo intorno, riconoscendo la stessa sala di ieri, dove si erano riuniti i capi di ogni Casa. Ero sdraiata su un divano, un cuscino ricamato dietro la testa e una coperta a toppe colorate all’altezza del grembo.
Come ci ero finita lì? Mi alzai a sedere di scatto e la protesta dei muscoli mi ricordò quello che era accaduto: il ragno dell’Hellheim, Percy ferito, io che lo salvavo, la mia serie di imprecazioni contro Hell…
«De udødelige guder*» mormorai, ripensando a quanto ero potuta sembrare ridicola in quelle circostanze. Senza contare che avevo bellamente ignorato la mia posizione nell’impresa, scavalcando e probabilmente mettendo in ridicolo Alex. Bella trovata, Astrid, complimenti, mi schernii da sola.
«Oh dritt» sospirai, lasciandomi ricadere sul divano.
Il mio occhio cadde su un bicchierone, simile al contenitore di un frullatore o di un caffè gigante, riempito fino a metà di uno strano miscuglio, sopra un tavolino all’altro capo del sofà. Mi allungai per prenderlo, e un post-it giallo fosforescente si staccò.
“Bevi quando ti svegli. Attenta a prenderne poco, altrimenti ti incenerisci. C.” lessi l’appunto, scritto con una calligrafia ordinata.
Lo accartocciai, lanciai uno sguardo scettico al bicchiere e mandai giù un sorso. Sapeva di biscotti al cioccolato, frullati con qualcosa di sconosciuto, che, però, mi stava restituendo velocemente energia. Ne bevvi un altro po’, senza esagerare, perché non volevo provare se diventavo realmente un mucchietto di cenere. Riappoggiai il bicchiere sul tavolino, mi liberai della coperta e cercai le mie scarpe. Le trovai ai piedi del divano e me le infilai, senza annodare le stringhe.
Mi affrettai ad uscire, perché più rimanevo in quell’edificio più mi sembrava che un qualche spirito verdognolo mi avrebbe aggredito. Scrutai il Campo, individuando subito il gruppo delle Cacciatrici; Alex, invece, stava osservando una partita di basket svogliatamente. Non avevo voglia di ritornare dalle ragazze, né sarei andata a farmi strigliare dal mio capo, così mi ritrovai a osservare la foresta con un certo interesse.
Ragazze super apprensive, comandante a cui devi delle spiegazioni o bosco pieno di mostri? Preferii la terza opzione.
Fiancheggiai la Casa Grande, sgattaiolando via come una ladra e, non appena fui fuori dalla vista della maggior parte di persone, me la diedi a gambe per la foresta. L’odore penetrante dei pini e il tappeto formato coi loro aghi, mi ricordò il Campo  Nord. Quando mi sembrò di essermi addentrata abbastanza, smisi di correre e cercai un luogo ospitale dove poter raccogliere le idee in pace. Scovai un grosso masso che, per via della sua forma, assomigliava a un sedile naturale. Mi sedetti, le foglie dell’albero mi solleticarono i capelli.
Mi misi in ascolto, nel caso ci fosse qualche mostro nella zona, ma tutto era tranquillo, si udiva persino il cinguettio dei passeri. Un pettirosso atterrò davanti a me, mi guardò con i suoi occhietti neri simili a biglie e, notando che non ero pericolosa, si mise a spulciare il terreno con il piccolo becco. La luce che filtrava tra gli alberi aveva una sfumatura ambrata, come oro vecchio. Osservai il pettirosso, immaginando quanto dovesse essere morbido il suo piumaggio e leggere le sue ossa.
C’era stato un tempo, quando ero ancora piccola e chiamavo ancora mio padre “papà”, in cui lui mi portava nei boschi nelle vicinanze di Oslo e mi insegnava tutto quello che sapeva su flora e fauna. Sapeva imitare perfettamente il verso delle renne e dei gufi, di cui conosceva numerose specie – della palude, comune, allocco–, e mi aveva insegnato il richiamo per la maggior parte degli uccelli di piccole dimensioni. Lo riportai alla mente e provai a riprodurre il motivo. Il pettirosso girò di scatto la testolina, aprì le ali e volò via di gran carriera.
Avrei imprecato, se qualcosa, o qualcuno, non mi si fosse schiantato addosso. Rotolai via dalla pietra, evitando di ferirmi per pura abitudine a rispondere repentinamente agli attacchi. Lui, lei o la cosa si lamentò, imprecando in una lingua che non conoscevo.
Balzai in piedi di scatto, già pronta a difendermi, quando vidi chi mi era caduto sopra. Un ragazzino da una folta zazzera nera, gli occhi dello stesso colore e l’incarnato un po’ pallido, come se non fosse esattamente in forma; indossava dei jeans strappati, a cui era legata una specie di stiletto, e un giaccone da aviatore di alcune taglie più grosso. Abbassai la guardia. Un… ragazzo di neanche quindici anni mi aveva urtato, comparendo dal nulla?
«Come hai fatto?» lo aggredii.
Lui sembrò accorgersi in quel momento che esistevo, si tolse dai capelli una foglia e si alzò in piedi, spazzolandosi i pantaloni.
«Non credo che tu sappia cosa sia, ma tanto vale provare… un viaggio d’ombra, comodo e efficiente, nella maggior parte dei casi» rispose, sottolineando l’ultima frase.
«Ovvio che sono cos’è un viaggio d’ombra, altrimenti non sarei in grado di sfruttarli» ribattei, acida. Poi, mi colpì la consapevolezza che ne ero capace solo perché ero figlia di Hell. «Grandioso, non sapevo di avere un fratello» commentai, sbuffando sonoramente.
Mi fissò, imbambolato, come un bambino che vede un cilindro magico risucchiare un coniglio bianco.
«Mia sorella è morta» disse. «E tu non sei Bianca, né un fantasma simile a lei o a mia madre.»
Mi uscii una risatina isterica. Quel ragazzino doveva essere piuttosto lento di comprendonio.
«Magari nostra madre fosse morta, mi risparmierei molte pene. Purtroppo, però, è immortale.»
«Senti» iniziò, irritato dal mio tono saccente, «non prenderti gioco di me. Chiunque tu sia, sappi che sono il figlio di Ade, che si dà il caso sia uno dei Tre Pezzi Grossi.»
Ade. Il nome mi riportò bruscamente alla realtà, così mi resi conto che, molto probabilmente, lui era il figlio della divinità greca della morte. Nello stesso istante in cui esclamai “greco”, lui realizzò “norrena!”
«Allora, le voci che circolavano tra gli spiriti erano vere…» considerò. «Percy sta bene?» domandò subito dopo, come se fosse ciò che gli premeva di più sapere.
«Sì, è stato fortunato» risposi, vedendo poi la sua espressione preoccupata dissolversi, lasciando spazio al sollievo. Mi morsi un labbro, a disagio. «Ehm… comunque, sono Astrid Jensen…»
«Grazie» mi interruppe di slancio. «So quello che hai fatto.» Mi porse la mano, un timido sorriso a incurvargli le labbra. «Io sono Nico, Nico di Angelo.»
Gliela strinsi, ma non feci in tempo a dire “molto piacere”, perché un grido rauco risuonò per la foresta. Nico guardò in alto, tendendo le orecchie.
«Questo non è God save the Queen?» chiese, frastornato.
«Ah-ah» ammisi, sollevando anch’io lo sguardo.
Dalla pronuncia, il ritornello sembrava cantare “God shaves the Queen”. Mi domandai se la regina avesse della barba, nel caso un dio la radesse. Il grido si intensificò, quando un corvo più grosso del normale sorvolò la zona del bosco dove ci trovavamo. Se gli occhi non mi ingannavano, al collo portava una sciarpa con la bandiera dell’Inghilterra. Sembrava che uno dei miei incubi si realizzasse. Afferrai Nico per il polso e incitai: «Forza, seguiamolo!»
Il ragazzo, preso in contropiede, quasi inciampò, quando me lo tirai dietro.
«Perché?» urlò, ma il fiato non gli bastò per ripetere di nuovo la domanda.
Seguii quella che doveva essere una melodia, correndo per la foresta e per il Campo, intimando di spostarsi ai semidei imbambolati a guardare il corvo. Nico ansimò qualcosa come un “ti prego, finiamola di correre”, ma non gli badai. Raggiunsi il campetto da basket, dove l’uccello si era posato ubbidiente sulla spalla di Alex. Il moro mi lanciò un’occhiata interrogativa, cui risposi indicando il suo amico alato.
«Stavo inseguendo il pennuto» spiegai, a corto di fiato.
Il corvo si girò nella mia direzione e gracchiò qualcosa che mi stordì le orecchie.
«Hugin non è contento che lo si chiami “pennuto”, Astrid» chiarì Alex, accarezzando teneramente un punto dietro il collo dell’animale, nonché uno dei due accompagnatori di suo padre, Odino.
Si mise a conversare col corvo come se fosse del tutto normale, attirando attorno a sé vari gruppi di semidei incuriositi. Più guardavo la sciarpa rossa, bianca e blu di Hugin, più dovevo trattenermi dallo scoppiare a ridere. Sapevo che in Inghilterra ci fossero numerosi castelli presi d’assalto da questi uccelli, ma non sospettavo che anche quelli di Odino fossero degli anglofoni.
«Buone notizie, più o meno» annunciò, quando ebbe finito di chiacchierare col corvo. «Hugin dice che Loki è a New York. Potremmo andare da lui…» L’uccello gracchiò qualcosa nel suo orecchio, arruffando tutte le piume. «Va bene, va bene, Hugin suggerisce che potremmo andare da lui. Non può essere venuto in America in vacanza, visti i trascorsi burrascosi.»
«Il corvo ti ha detto tutto quello?» chiese uno dei fratelli Stoll.
Alex annuì. Il ragazzo fischiò, ammirato. «Sei una forza, pennuto! God shaves the Queen, eh? Sai cantare qualcos’altro?»
Hugin emise uno strano verso, si staccò dalla spalla di Alex e volteggiò sopra la testa di Stoll. Ci mancò poco che la cacca gli cadesse proprio in mezzo al capo, invece che imbrattargli le scarpe. Connor – o Travis– scoppiò a ridere, ma si dovette guardare dall’ira di Hugin, che gli mollò un peto in faccia. I due fratelli scapparono, difendendosi dai suoi artigli con le braccia. Stavo sorridendo talmente tanto che mi facevano male le labbra, nel tentativo di contenere la risata. Non era certo un gran cantante, ma si sapeva far rispettare.
«Vado a cercare Einar, tu occupati informare Percy e Annabeth» bofonchiò Alex, paurosamente sul rischio di scoppiare a ridere e rotolarsi per terra per il divertimento, come un figlio di Ares stava facendo.
Mi diressi alla Casa di Atena, con Nico che mi trotterellava dietro come un cucciolo. Bussai alla porta un paio di volte, poi aspettai che qualcuno aprisse. Comparve la bionda in persona, in mano un pc portatile. Mi squadrò dall’alto in basso.
«Che c’è?» domandò, con aria palesemente scocciata. «Sto lavorando.»
Pensavo che avendo salvato la vita al suo quasi-ragazzo, mi avrebbe ringraziato o mi sarebbe stata debitrice, invece sembrava vogliosa di tornare dentro e prendere un qualche pesticida per eliminarmi come le zanzare.
«Abbiamo una traccia, pensavamo che anche tu e Percy voleste partecipare» spiegai.
Annabeth mi chiuse la porta in faccia. Mi girai verso Nico, che mi alzò le spalle, confuso. La figlia di Atena riaprì poco dopo, il pugnale ben visibile alla cintura e un berretto arancione in mano.
«Vado ad avvisare io Percy» sentenziò, allontanandosi verso la Casa Tre.
«E che cavolo» brontolai. «Neanche un grazie.»
«Credo che la secchi il fatto di non aver avuto lei la soluzione per salvare Percy» osservò Nico. «Non me lo spiegherei, altrimenti.»
«Menomale che sua madre è la dea della ragione» commentai, tornando sui miei passi.
«E della guerra» aggiunse il ragazzo.
«Allegria» esclamai, sarcastica.
Scossi la testa. Erano a malapena trascorsi due giorni e già mi ero fatta una nemica imprevista. Nico propose di andare ad aspettare gli altri alla Casa Grande, cercando di spiegarmi che Annabeth non faceva quasi mai così, che era tutta una questione legata al controllo e alla sua famiglia, e altre scuse per addolcire il fatto che mi detestasse. Alex ed Einar si aggregarono, incontrandoci a metà strada, seguiti anche da Chirone. Il suo manto bianco risplendeva alla luce del Sole, circondando la sua parte equina da un’aura surreale.
«Nico!» esclamò, e batté una pacca sulla spalla al ragazzo. Lo presentò a tutti, felice che si fosse fatto vivo, e procedette con le classiche domande da genitore premuroso. Se Hermdor, al Campo Nord, fosse così morbido, sarebbe tutto di un’altra pasta. Annabeth e Percy arrivarono poco dopo, la bionda che sembrava essersi sciolta un po’ solo in presenza del ragazzo, anche se non mancò di riservarmi uno sguardo gelido.
Se non fossi una figlia di Hell, che domina su una landa desolata, fredda e battuta dalle piogge, probabilmente sarei diventata una scultura di ghiaccio a grandezza naturale da esporre a un matrimonio. Percy mi si avvicinò, sfoggiando un radiante sorriso a trentadue denti, che lo rendeva bello da mozzare il fiato. Il cuore accelerò i battiti, ripensando al bacio che gli avevo dato.
All’improvviso, mi sembrava impossibile che mi fosse capitato di farlo con un figo così maledettamente attraente. Mi imposi di essere naturale, anche se dubitavo di riuscirci. I miei rapporti con i ragazzi erano stati un disastro dopo l’altro, con l’unica eccezione di Alex, e in gran parte per colpa mia.
«Ehi, Astrid» salutò, senza smettere di sorridere. «Grazie per avermi… ehm, salvato la vita. Credo di essere in debito con te.»
«No, ma figurati» ribattei, la voce più acuta di quello che volevo. Dannazione. Prossima fase: farfugliare frasi senza senso. «Lo farei tutti i giorni. Cioè, non il fatto del bacio, il salvarti la vita, si intende. Non che tu non sia abbastanza bello per essere baciato ogni giorno, perché lo sei, anche molto, però io… ah! Sai quello a cui mi riferisco, basta.»
Percy rise, mentre Annabeth sogghignava ed Einar si stava scompisciando al fianco di Alex. Mi sporsi verso di lui e gli tirai un calcio negli stinchi. Sentivo la faccia andare a fuoco e avrei tanto voluto un estintore.
«Non dovevamo andare?» feci io, sbrigativa. Non sopportavo quegli occhi su di me. «Forza!» sbraitai, separandomi dal gruppo a grandi falcate.
Avrei tanto gradito l’aiuto di Freyja in quel momento, però, come sempre, lei era assente in ogni situazione in cui mi serviva quel genere di spinta.
Ignorai gli altri per un bel pezzo, finché non rischiai di perdermi tra la folla, arrivati in città. Con i mezzi pubblici, la strada era molto più breve rispetto all’andata, che avevo fatto a piedi. Hugin non aveva riferito un punto preciso riguardo a dove si trovava Loki, aveva solo indicato l’area attorno alla down town, il quartiere degli affari.
«Be’, visto che siamo qui, perché non ci prendiamo qualcosa?» propose Percy, già progettando ciò che avrebbe messo sotto i denti.
Nessuno si oppose, così seguimmo il ragazzo e Annabeth tra gli isolati, sgusciando tra le ondate di persone che si affrettavano per strada. Percy si improvvisò guida turistica, indicandoci i posti dove andare, quelli da assolutamente non provare e coinvolse la bionda, che probabilmente si era studiata a memoria la pagina di Wikipedia di ogni monumento esistente.
«Oh, eccoci!» esclamò, fermandosi all’improvviso a pochi passi da un caffè.
Si fece da parte, mostrando con una mano, come uno showman, il cartello: Starbucks. Spostai lo sguardo dall’insegna verde all’entrata, e la mia attenzione fu subito attirata da un uomo appoggiato al muro.
Era alto, le gambe slanciate e la vita stretta, le spalle più larghe; la clavicola formava una lieve curva, mostrando la pelle chiarissima, quasi non fosse mai colpita dai raggi della luce. I capelli erano spaghetti neri che gli ricadevano ribelli sul viso, abbastanza lunghi da poterli legare in una piccola coda da cavallo, e sembravano fatti apposta per evidenziare gli occhi, di un colore che passava dal blu più intenso al verde-acqua, senza la possibilità di distinguerne la tonalità precisa. Indossava jeans strappati sulle ginocchia, una maglietta nera piuttosto attillata e stivaletti di pelle dall’aria rock.
Aveva un modo sensuale di succhiare il frullato dalla cannuccia, e le sue labbra sembravano morbide come i petali di un fiore. Si girò verso di noi, attirato dalla stessa forza che aveva attratto me, e si illuminò completamente.
Si mise in mostra, sventolò una mano e chiamò: «Einar! Oh, non pensavo di trovarti qui, figliolo!»
Un momento… quello era Loki?
 
 
«Per Odino, ragazzi, queste magliette arancioni sono così orribili che non le indosserebbe nemmeno un’arancia!»
Nessuno accennò al fatto che le arance non si vestono, tantomeno con delle T-Shirts.
«A me piace» bofonchiò Percy, succhiando il Frappuccino che gli aveva offerto il dio.
Quest’ultimo fece una smorfia, prese un sorso della sua bevanda e si rivolse ad Annabeth.
«Cara, perché non sorridi un po’?» Gliene si dipinse uno sul volto identico a quello di Einar. «Non vuoi assomigliare a una statua di gesso, vero? Altrimenti, potresti chiamare quella tizia dai capelli di serpente della vostra mitologia… Medusa, mi sembra.»
«Sì, Medusa» confermò Annabeth, che non aveva toccato nulla di ciò che le aveva offerto Loki.
«Già, che creatura orribile e attraente al tempo stesso» commentò il dio, gesticolando con le dita mimando le vipere. «E dov’è?»
«Le ho tagliato la testa qualche anno fa» rispose Percy, scrollando le spalle.
Avevo l’impressione che gli piacesse Loki, probabilmente i trascorsi con le divinità greche non erano state delle migliori. «Oh, peccato, ne faremo a meno» fece l’altro, muovendo la mano in un gesto non curante. Spostò la sedia accanto ad Annabeth, catturò la sua attenzione e ordinò: «Sorridi, avanti.»
La ragazza si schiuse in un aperto e radioso sorriso, accontentando Loki, che tirò fuori un IPhone, si accostò a lei e fece una foto. Giocherellò con l’applicazione, gli occhi che gli brillavano e le dita sottili da pianista che toccavano in giro, armeggiando con gli effetti, finché non fu soddisfatto e decretò: «Carina. Va su Instagram
Mi trattenni dal chiedergli perché mai avesse Instagram, se si era iscritto pure Tumblr, Facebook e Twitter, e che cosa se ne facesse. Ipotizzai che la risposta alla prima domanda fosse sì. Mosse il polso e disse, sbadatamente: «Ritorna musona.»
Annabeth sembrò svegliarsi all’improvviso, si guardò intorno, confusa, e si toccò la faccia.
«Ok, ora che ha fatto, potrebbe ascoltar-» provò Alex, calmo, ma Loki lo ignorò.
«Papà…» tentò allora Einar, ma il padre si voltò verso Nico, studiandolo attentamente.
«Tu sì che mi piaci.» Il ragazzino rabbrividì da capo a piedi. «Avanti, spiegami perché mi stavate cercando.»
«Ci chiedevamo se lei sapesse qualcosa sul GPS del martello di Thor» rispose Nico a comando.
Loki fece una smorfia. «Ovvio che so qualcosa del giocattolino di Thor, non fa che rompere.»
Mimò il dio mentre si lamentava, facendo parlare la sua mano destra con un vocione e quella sinistra, che rappresentava lui e le altre divinità, con pigolii vari.
«Altro?» indagò.
Dalla bocca di Nico uscirono le informazioni precise. Loki roteò gli occhi.
«Può aiutarci?» azzardò Alex.
«Sì» rispose.
Spalancai gli occhi. Da quando un dio era così mansueto? C’era qualcosa sotto. Si impose il silenzio.
«Allora?» incalzò Alex, allargando le braccia.
«Uh?» Loki alzò un sopracciglio. «Ho detto che posso, non che voglio, figlio di Odino. È diverso.»
«Vuole aiutarci?» ripose la domanda, sbuffando.
Loki alzò l’indice, ci pensò su e, con un movimento che coinvolse testa e labbra, disse: «No.»
«Però, papà, a noi serve la tua mano…»
Il dio si alzò in piedi di scatto, assumendo un’aria tra l’offesa e l’irata. «Non usare i tuoi poteri illusori su tuo padre, Einar» lo fulminò sia con la voce che con gli occhi. «Se proprio non avete niente da cui partire, avrei un indirizzo.»
«Va bene!» accettammo immediatamente.
Loki scarabocchiò sullo scontrino il numero civico e il nome di un locale, usando una penna che si era sfilato dai pantaloni. Appoggiò il suo frullato sul tavolino attorno al quel ci eravamo riuniti e annunciò: «Io vado.»
Si frugò nei jeans, sfilando una mascherina igienica. «Se fossi in voi, mi munirei di queste.» E si allontanò.
Ci scambiammo uno sguardo confuso, tutti turbati da quell’incontro. Ci alzammo all’unisono, Annabeth agguantò lo scontrino e lesse l’indirizzo, che indicava un qualche bar nel Bronx. Prendemmo la metropolitana, truffando i controllori grazie ad Einar, visto che eravamo senza soldi e biglietti. Ci orientammo usando lo scontrino, camminando in uno dei quartieri di New York meno raccomandabili. Fu Alex a scovare il locale. Un’insegna, in legno, riportava la scritta a grossi caratteri ALL’ORCO NERO. Come premessa, non mi piaceva per nulla. Nonostante questo, entrammo.
La prima cosa che si notò, fu la puzza di stantio, fango e qualcosa che il mio naso non voleva identificare. Mi portai una mano al viso, nel tentativo di non respirare quell’aria fetida. Nico aveva un colorito verdognolo, Annabeth cercava di controllare il bisogno di vomitare. Non c’erano che poche luci soffuse, che illuminavano una pista da ballo e un bancone, riflettendosi su una moltitudine impressionante di alcolici e liquori.
Alex si diresse là, appoggiando le braccia sul legno e batté due volte un pugno. Si udì un fruscio di tende, ed uscì la donna più brutta e puzzolente che avessi mai avuto l’occasione di incontrare. Era così grassa che la ciccia formava un triplo mento, la pelle dallo strano colore grigio-verde muschio era spessa, ruvida e screpolata come quella di un elefante.
Aveva due occhietti neri infossati e una bocca dalle labbra troppo rosso e grosse, come se avesse fatto un intervento chirurgico andato male. Con la sua imponente mole, si piazzò davanti ad Alex, che impallidì. Assomigliava a un leone marino.
«Cosa desideri?» domandò, con un insolito accento russo.
«Niente, solo…» rifiutò il ragazzo, ma la donna-che-forse-non-era-poi-tanto-una-donna decise al posto suo: «Uno stivaletto di birra nera.»
«Veramente…»
«Birra piccola per tutti gli altri, va bene, sì sì.»
Fummo costretti a sederci al bancone. Scambiai un’occhiata inquieta con Alex, che sembrava fin troppo turbato dalla donna.
«Clienti?» grugnì una voce, e presto comparve un uomo con la barba divisa in due trecce, altrettanto brutto. Annusò l’aria, spostando il suo grugno da ognuno su ognuno di noi, inspirando per bene il nostro odore.
«Semidei» intuì. «Il tuo olfatto da schifo» si rivolse alla donna. «Che ci fate qui?»
«Ci manda Loki» disse Percy. «Riguardo al martello di Thor. Sai qualcosa?»
«Birra!» annunciò l’elefantessa, spingendo davanti a ognuno di noi un bicchiere talmente alto che superava la mia testa.
«E se anche fosse? Da quando greci e norreni vanno d’accordo?» chiese l’uomo barbuto.
«Non importa» replicai io, raccogliendo le briciole del mio coraggio.
L’uomo rise. Si chinò su di me, inghiottendomi nel suo grasso, le sue unghie nere tamburellavano sul legno. «Davvero?»
Venni investita dal tanfo che emanava, dandomi l’idea che un enorme blob di cibo per cani in scatola volesse dare qualche contributo di vitamine al resto.
«Non importa che tu sei una figlia di Hell, e che una figlia di Hell ha portato il GPS al Campo Mezzosangue?»

 
*Dèi immortali
koala's corner.
Buonasera a tutti! Eravate curiosi di sapere la sorte della Percabeth e, be', c'è stato solo un bacio. 
"Solo un bacio". Ceh, io mi sono troppo divertita a scrivere quella scena è.é Tutte le scene Percy/Astrid le ho immaginate su un tono amichevole, esilarante, lievemente sentimentale perché damn, Percy's so hot, chi non lo noterebbe?
Ti prego -.-"
U.U This is my chapter, baby. Comunque, Annabeth è gelosa! Più o meno, ma mi stuzzica molto la sua immagine in questi canoni. Uuuh e poi c'è Nico! *---* Chi è che non ama il figlio di Ade? Chi, mh?! Ed è preoccupato, molto preoccupato per Percy. Ah-ah, Pernico forevah
Sei spaventosa, i tuoi scleri non attirano lettori!
But who cares? Sicuramente sono più carini dei due orchi, che fanno la rivelazione dell'anno: una figlia di Hell è implicata nel furto del martello. Tan-tan-taaaaaan (?) I'm so goingout today lol Loki è restio a condividere informazioni, che ci sia dentro anche lui? Oppure è troppo impegnato a postare foto con Annabeth? Per quanto riguarda il dio, me lo immagino come un incrocio tra Tremotino di Once Upon a Time e Tom Hiddleston in Thor, che tra l'altro è Loki
*-* Spero che vi sia piaciuto come l'ho interpretato, così come la parte inziale molto Alrid. Ma l'avete voluta voi. Eh.
Io mi sono divertito a leggere questo capitolo, e il prossimo riserverà altra azione (:
Speriamo che volgiate dirci cosa ne pensate, tanti figli di nome Nico alla prossima!


 
 
  
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