Fanfic su artisti musicali > One Direction
Segui la storia  |       
Autore: Acinorev    09/01/2014    12 recensioni
«Hai mai visto i Guinness World Records?» chiese ad un tratto Harry, continuando a fissare il sole splendente sopra le loro teste.
«Cosa c'entra ora?» domandò Zayn spiazzato, guardando l'amico attraverso le lenti scure degli occhiali.
«Hai presente quei pazzi che provano a stare in apnea per un tempo sempre maggiore? Ecco, tu devi fare la stessa cosa», spiegò il riccio, come se fosse un'ovvietà.
Gli occhi di Zayn si spalancarono, mentre iniziava a pensare che Harry si fosse beccato un'insolazione. «Devo provare a battere un record di apnea?»
«No, ovvio che no - rispose l'altro scuotendo la testa. - Loro si allenano per rimanere sott'acqua, un posto dove non c'è la nostra fonte di vita, l'ossigeno. Tu devi fare lo stesso, devi imparare a vivere senza di lei.»
Sequel di "Unexpected", da leggere anche separatamente.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Unexpected'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Capitolo 31

Make me stay

 

Vicki.
 
Rimasi ancora qualche istante ad occhi chiusi, mordendomi nervosamente l’interno della guancia che temevo potesse iniziare a sanguinare da un momento all’altro. Quella era la prova del fatto che avevo ragione, che non sarei riuscita a fare quel piccolo discorso di fronte a Louis, nonostante ne avessimo affrontati di peggiori: era più forte di me, mi imbarazzava e in qualche modo mi intimoriva. Forse perché si trattava di sentimenti allo stato puro, di quelli che avevo sempre sognato e che non volevo sapere di non poter ancora raggiungere.
Il giorno prima Louis se ne era andato lasciandomi a bocca aperta e con il cuore in attesa, promettendomi che ci saremmo visti l’indomani, anche se quella garanzia non mi aveva offerto consolazione. Io gli avevo confessato i miei più profondi sentimenti nei suoi confronti, ma lui non aveva ricambiato: avevo passato la notte sveglia a rimuginarci su – ovviamente – ed ero arrivata alla conclusione che dovevo smetterla di essere paranoica. Louis provava qualcosa di molto forte, che ero quasi sicura fosse amore: certo, non potevo giurarlo al posto suo, ma non potevo nemmeno metterlo in dubbio. Come si sarebbero spiegati, altrimenti, gli ultimi mesi? Il suo paralizzante terrore e quel modo di guardarmi che lo era forse ancora di più?
Più che altro, credevo avesse paura: conoscendolo, ero arrivata ad ipotizzare che esternare i suoi sentimenti li potesse rendere troppo reali e quindi spaventosi. Non sarebbe stata la prima volta, in cui si tirava indietro per non affrontare la realtà, ed io volevo che fosse l’ultima: volevo che capisse che con me poteva sentirsi al sicuro, qualsiasi cosa temesse, da una semplice frase ad un gigantesco disastro.
Ovviamente cercavo di mantenere i piedi per terra e di tenere in considerazione la possibilità che lui non mi amasse quanto io amavo lui, e che per questo non volesse dirlo.
Strinsi il mio vecchio Nokia tra le mani e sbuffai: presa da un irrefrenabile attacco di codardia, proprio come se fossi tornata ad essere una bambina timida alle prese con il mio primo fidanzatino, decisi di scrivergli un messaggio. Persino chiamarlo mi sembrava un’idea troppo azzardata.
 
Nuovo messaggio: ore 13.42
A: Louis
“Ok, tutto questo è imbarazzante, perché dovrei essere in grado di parlarti a voce, invece sono qui a scriverti uno stupido messaggio. Il fatto è che devo ripetertelo ancora una volta, anche se ormai penserai che sono noiosa almeno quanto un disco rotto: non devi avere paura. Voglio dire, io ti amo, adesso questo lo sai e di certo non cambierà: se tu provi lo stesso, non devi temere che possa rovinare qualcosa tra di noi, perché credo che ormai ci voglia ben altro. E se non provi lo stesso… Be’, va bene comunque: non devi temere di ferirmi, perché io lo accetterei e perché non posso di certo convincerti a ricambiare un sentimento tanto forte. Ed ora che l’ho detto, non so come finire questo messaggio, quindi… Ciao?”
 
Rilessi quelle parole almeno una decina di volte: nonostante le innumerevoli correzioni, i sospiri e l’indecisione, riuscivano comunque a far trasparire un certo disagio, un certo imbarazzo. Avrei voluto che così non fosse, ma ormai ero sicura che sarei potuta rimanere a correggerle ancora cento volte e il risultato sarebbe stato lo stesso. Proprio per questo, evitai di rimuginarci ancora su e premetti il tasto di invio.
Louis avrebbe avuto un piccolo incoraggiamento da parte mia al quale non poteva sottrarsi e dal quale, magari, non si sarebbe sentito in dovere di scappare. Speravo soltanto che sarebbe servito a qualcosa.
Sobbalzai e rischiai di far cadere il fermacarte dalla scrivania del mio ufficio, quando il telefono mi vibrò tra le mani, nemmeno due minuti più tardi.
 
Un nuovo messaggio: ore 13.43
Da: Louis
“Stasera vieni da me per le 9? Mangiamo insieme, quando finisco in studio”
 
Corrugai la fronte e inspirai fino a riempire completamente i miei polmoni.
Come diavolo avrei dovuto interpretare quella sua risposta? E perché diavolo il ragazzo che amavo doveva essere sempre così criptico?
Dopo tutte quelle parole, mi invitava semplicemente a cena? Insomma, lo sapeva o non lo sapeva quanto fossi paranoica? Si divertiva a tenermi sulle spine rimandando così a lungo un argomento tanto delicato?
Arrivai ad odiarlo.
 
 
Niall.
 
Avevo voglia di uscire all’aria aperta, di camminare per strada a testa alta e incurante dei passanti che mi avrebbero riconosciuto, o che avrebbero scritto su qualche sito internet persino quali calzini indossavo. Volevo avere il braccio di Rosie a sfiorare il mio e il suo sorriso illuminato dal sole, volevo che tutti la vedessero e capissero perché rimanere nell’anonimato fosse così stressante per me. Lei era da mostrare al mondo intero, ma non per vantarsene – non solo, almeno -, quanto più per dimostrare che esisteva per davvero.
Eppure non era possibile, non ancora. Ci vedevamo di nascosto e in posti lontani dalla folla, quasi come se fossimo due clandestini: entrambi eravamo d’accordo a non rischiare di rovinare tutto a causa del gossip e delle malelingue, o delle eccessive attenzioni che quella ancora precoce relazione tra di noi avrebbe attirato su di sé. E in fondo, nonostante io volessi iniziare a viverla nel modo più completo, dovevo anche proteggerla, perché sapevo che uscire allo scoperto non sarebbe stato semplice.
Proprio per questo, anche quel giorno avevamo deciso di rimanere in casa, la sua. Era un appartamento a quindici minuti dal centro di Londra, al terzo piano e arredato con mobili in legno scuro sommersi da cianfrusaglie, libri e videogames – videogames! –, che però dichiarava di non usare da un po’ di tempo.
Rosie non aveva esitato a mostrarmi tutti gli angoli di quelle quattro piccole stanze, adatte ad una ragazza di vent’anni che cerca di vivere e mantenersi da sola, anche i più disordinati. Io, d’altro canto, l’avevo seguita in silenzio, cercando di cogliere tutti i particolari che avrebbero potuto darmi qualche altro indizio su di lei: sapevo che praticava nuoto a livello agonistico, che non le piaceva la pasta e che era nata in Scozia, che lavorare nell’ufficio di un commercialista e che odiava Lady Gaga senza un motivo preciso, eppure volevo di più.
«È strano» esclamai, dopo la fine del film che avevamo fatto finta di guardare, dato che avevamo passato il tempo a parlare e a raccontare. Gli immancabili pop-corn erano finiti da un pezzo – e stranamente potevo dire che non fosse merito mio – e le sue gambe erano distese su di me, seduto sul divano con un braccio allungato sullo schienale piuttosto comodo. Rosie si era sdraiata, occupando i rimanenti due cuscini in stoffa beige del divano e appoggiando la testa sul bracciolo: teneva gli occhi socchiusi ma fissi su di me, in grado di farmi sentire al posto giusto, e i capelli lisci sciolti un po’ dappertutto, per quanto erano lunghi.
«Che cosa?» domandò, arricciando leggermente il naso cosparso di lentiggini. La sua naturalezza era disarmante, così come la sua spontaneità, che le permetteva di trattarmi come un amico di infanzia e allo stesso tempo provocarmi come non credevo fosse capace di fare.
«Questo – sospirai, guardandomi di nuovo intorno. – Stare qui a vedere un film, con te che mi hai fatto addormentare una coscia per come ti ci sei sdraiata sopra, e questa casa che è così… vissuta. Non ci ero più abituato» confessai, abbassando il tono di voce e anche gli occhi. Sembrava di essere tornato a quando gli One Direction non erano famosi, a quando Abbie non esisteva ancora, e sembrava che ci fosse sempre stata Rosie e solo lei.
Quando la sentii ritrarre la gambe da me per mettersi a sedere, tornai a guardarla: si passò la lingua sulle labbra e mi osservò limpidamente, portandosi i capelli sulla spalla destra. Il maglioncino color panna aveva risentito di quel movimento e la scollatura si era abbassata forse un po’ troppo, ma feci finta di niente.
«Niall?» esclamò, senza far trasparire alcuna emozione sul suo volto.
«Hm?»
«Perché non mi hai ancora baciata?» chiese, cogliendomi alla sprovvista. Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva, per quella domanda schietta e sincera. Già, perché non l’avevo ancora fatto? Perché quelle labbra non me le ero mai prese, se le desideravo così tanto? Se le conoscevo ormai a memoria e se non potevo fare a meno di studiarle in ogni dettaglio?
Cercai di non far emergere l’imbarazzo e «Tu perché non hai baciato me?», ribattei, alzando un sopracciglio.
Rosie si strinse nelle spalle e incrociò le gambe davanti a sé, con i jeans aderenti e chiari che gliele definivano con cura. «Perché non mi va» rispose.
Oh.
«Oh» ripetei soltanto, in un respiro stupito. Mi schiarii la voce e provai a nascondere quel disagio che mi aveva appena colpito lo stomaco, guardando qualsiasi altra cosa in quel piccolo salotto che non fossero le sue iridi verdi.
«È sempre troppo facile prenderti in giro» disse qualche istante dopo, liberandomi da tutti i pensieri che avevano iniziato a vorticarmi in testa, riguardo quanto fossi stato ingenuo e un illuso.
Mi voltai a scrutare il suo viso, sbalordito. «A volte i tuoi stupidi scherzi sfiorano il sadismo» la rimproverai, sorridendo sia per il sollievo sia perché, per l’ennesima volta, era riuscita a farmela. Lei rise, con una di quelle risate che ti contagia e che ti fa sentire schifosamente sentimentale, perché rimarresti incantato a guardarla per minuti ed ore.
«Sì, però adesso baciami davvero» esclamò, distendendo le labbra sottili in un sorriso genuino.
E ok, va bene, come vuoi tu.
 
 
Brian.
 
«Amico, te l’ho già detto: o vai tu da lei, o me la porto io in stanza» borbottò Maxime, scuotendo la testa e passandosi una mano sui capelli rasati e più neri della sua carnagione.
Io alzai gli occhi al cielo e diedi un’altra occhiata fuori dalla finestra, dove Stephanie perseverava e stava seduta sul marciapiede dall’altra parte della strada.
«Tu provaci e poi ti ritrovi appeso per le palle» ribattei, facendolo ridacchiare. E pensare che ero serio.
Forse però aveva ragione, forse dovevo davvero raggiungerla e perdonarla e stringerla a me. Anzi no, probabilmente perdonarla non ancora, ma almeno ascoltarla. In fondo si era presentata lì il giorno prima ed era ancora lì, sempre: mi ero sentito addirittura in dovere di controllare che non fosse rimasta in quel punto anche di notte, ma fortunatamente aveva avuto il buon senso di prendersi una stanza da qualche parte.
Aveva chiesto di me a chiunque l’avesse avvicinata, mentre io mi limitavo a raccogliere i racconti dei miei compagni, ad ascoltare le parole riferite e a mettere al proprio posto chi esagerava con i commenti su “quella figa di Brian”. Era impossibile, per me, credere davvero che Stephanie – Stephanie! – fosse partita e si fosse stabilita sotto la mia base in attesa di vedermi e di parlarmi: ne ero lusingato, mi apriva una breccia di speranza e sentimenti nel petto e mi sconvolgeva, ma era abbastanza?
«’Fanculo» mormorai, staccandomi dalla parete alla quale mi ero appoggiato e precipitandomi fuori dalla stanza.
Quando Stephanie, dall’altra parte della strada, mi vide varcare la porta d’ingresso, si alzò in piedi con uno scatto e per poco non si fece investire per raggiungermi. Io la aspettai immobile sul marciapiede, con gli occhi che ripercorrevano quel viso che tanto mi era mancato e con le mani a stringersi a pugno perché il dolore era ancora presente e faceva ancora schifo.
«Ciao» sussurrò, con il respiro accelerato, fermandosi ad un metro da me. Vieni più vicino.
«Hey» ricambiai flebilmente, spiazzato dal modo in cui quelle iridi verdi avessero assunto una sfumatura particolare a causa del sole di quel pomeriggio.
Non volevo parlare, non volevo ripetere sempre le stesse cose: stavolta toccava a Stephanie dare voce ai propri pensieri, quelli veri. Non avevo nemmeno intenzione di chiederle cosa ci facesse lì, quando fosse arrivata e quanto sarebbe rimasta, perché non volevo aiutarla in alcun modo. Doveva imparare a rendermi partecipe di quello che le passava per la testa, o nel cuore. Era il minimo che potesse concedermi ed io ne avevo un disperato bisogno, perché avevo bisogno di lei.
La vidi mordersi un labbro e stringersi nella giacca in pelle nera, spostare il peso da un piede all’altro e inspirare a lungo. Dentro di me, la incitavo silenziosamente, perché sapevo quanto fosse difficile per lei.
«Mi dispiace, ok?» sbottò all’improvviso, stupendomi nonostante stessi aspettando quelle parole dal momento in cui l’avevo salutata. Altrettanto inaspettatamente, non mi diede il tempo di rispondere. «Sono un disastro e mi dispiace così tanto. Tu… Tu hai ragione: sono stata schifosamente egoista e non ho mai pensato a te, come se potesse essere difficile solo per me. E sono stata una stronza di prima categoria a stare con Liam, perché in fondo sapevo che, anche se io e te non eravamo insieme, tra noi c’era qualcosa. C’è sempre stato. Invece… Voglio dire….»
Corrugai leggermente la fronte e aspettai che continuasse. Il cuore mi batteva nella cassa toracica, tanto da farmi temere che se un mio compagno fosse passato di là avrebbe potuto sentirlo.
«Ti amo anche io, ok?» disse velocemente, in un respiro secco e con gli occhi spaventati e increduli ad attendere una mia risposta.
 
 
Vicki.
 
Inspirai a pieni polmoni e alzai il mento, quasi come se quel semplice gesto potesse infondermi più coraggio. Strisciai per l’ennesima volta gli stivaletti neri sullo zerbino, cercando di asciugarli dalla pioggia infima di quella sera o di prendere tempo, e mi ravvivai i capelli sciolti sulle spalle.
«Ok» sussurrai tra me e me, decidendomi, dopo dieci minuti buoni, a suonare il campanello di casa di Louis.
Aspettai pazientemente, ma dovetti premere di nuovo il pulsante, perché la porta rimaneva chiusa e dall’appartamento non arrivava alcun rumore. Eppure erano le nove passate e Louis sarebbe dovuto essere a casa.
All’improvviso, la porta si aprì e davanti a me apparve Harry, con un accappatoio allacciato male a coprirlo e i capelli più in disordine del solito. Non sapevo ci sarebbe stato anche lui: mi impedii di lasciar correre la fantasia, che stava già insinuando che a Louis la sua presenza non disturbasse perché la cena programmata non sarebbe stata importante. Di quel passo avrebbero potuto rinchiudermi in manicomio.
«Harry, ehm, ciao» lo salutai, colta alla sprovvista.
«Vicki! – ricambiò lui, alzando un po’ troppo la voce e sorridendomi in modo poco convincente. – Che piacere vederti qui!» continuò, stavolta gettando un’occhiata alle sue spalle, come se stesse cercando di farsi sentire da qualcuno.
«Anche per me… - mormorai, un po’ confusa. – Dovevo vedermi con Louis-»
«Sì, certo, entra pure! – mi accolse, con ancora il tono di voce alto. Che diavolo stava succedendo? – Mi aveva detto che saresti venuta, ma-»
«Harry! Ma che cazzo fai?» sbottò una voce femminile, interrompendolo e attirando la mia attenzione. Abbie?
Ah.
Harry, con ancora una mano sulla mia schiena per guidarmi in salotto, si voltò giusto in tempo per vedere Abbie nascondersi dietro il divano mentre cercava di infilarsi i pantaloni, con la sua maglietta messa al contrario.
«Ok, questo è imbarazzante» confessai, girandomi di spalle e cercando di trattenere una risata. Ecco perché nessuno rispondeva al campanello, evidentemente non ne avevano l’intenzione, ed Harry di sicuro aveva cercato di avvertirla della mia entrata, in modo da permetterle di rivestirsi, urlando un po’ di più.
«No, cioè sì – si corresse lui, con una mano tra i capelli e un sorriso divertito sul volto. – È che forse abbiamo perso un po’ la cognizione del tempo, ma ora ce ne andiamo. Sì» mi assicurò.
«Vicki, scusami tanto – riprese Abbie. – Sono vestita adesso, puoi voltarti» aggiunse, un po’ in imbarazzo e un po’ ilare. Io lo feci e risi liberamente, mentre la guardavo fulminare con lo sguardo il suo ragazzo.
«Ma sei stupido, scusa? – sbottò infatti, mentre lui raccoglieva qualche vestito da terra, a pochi passi da lei. – Dammi almeno il tempo di vestirmi, prima di far entrare qualcuno!»
«Ti ho dato del tempo! Non per niente Vicki mi avrà preso per pazzo mentre urlavo per farti capire che stava per entrare – ribatté Harry, mentre io assistevo alla scena. Erano esilaranti, tutti presi a recuperare in fretta le loro cose e a rimediare a quell’inconveniente. Non stavano davvero litigando, anzi, i loro potevano essere considerati quasi preliminari per il secondo round. – E non è colpa mia se ci impieghi tre anni, a metterti una maglia addosso.»
Se avessi saputo cosa stava succedendo in quella casa, non mi sarei di certo accanita contro il campanello. Dovevano aver pensato che fossi una vera scocciatura.
«Quanto sei idiota, santo cielo.»
«Ti amo anche io – fu la risposta, seguita da un bacio a fior di labbra. – E tranquilla, Vicki sa com’è fatto un paio di tette.»
Spalancai gli occhi ed evitai di ridere solo per non scatenare ancora di più l’ira che si stava impadronendo di Abbie, mescolandosi al divertimento. «Non è questo il punto» borbottò lei, imbronciandosi.
 
Harry ed Abbie erano usciti da circa dieci minuti, quando la porta di casa si aprì, mostrando un Louis trafelato e con il fiatone: tra le mani teneva due cartoni della pizza, le labbra erano serrate intorno a quello che aveva l’aria di essere lo scontrino e da una tasca dei pantaloni della tuta pendevano le chiavi della macchina.
Mi alzai dal divano con un involontario ma immancabile sorriso sul volto e osservai meglio il suo viso, che si plasmò in un’espressione sorpresa e leggermente colpevole quando si accorse della mia presenza.
«Aspetta» sussurrai, andandogli incontro per aiutarlo.
Lui mi concesse di prendere le pizze dalle sue mani e si tolse lo scontrino di bocca, mentre io potevo specchiarmi negli occhi chiari contornati da leggere occhiaie e immergermi nel suo profumo di dopobarba. «Grazie» disse sospirando, prima di togliere le chiavi dalla porta e chiuderla alle nostre spalle, mentre io andavo ad appoggiare i cartoni sul tavolo della cucina.
Quando tornai in salotto, facendo i conti con quello strano silenzio che occupava l’appartamento e che mi pesava addosso, trovai Louis ormai senza la giacca di pelle e in maniche corte, in piedi accanto al divano mentre controllava qualcosa sul cellulare: rimasi ad un paio di metri di distanza, impacciata con non mai, e infilai le mani nelle tasche posteriori dei miei jeans.
Lui alzò lo sguardo su di me e corrugò la fronte, riponendo l’iPhone in tasca. «Be’, cosa fai lì?» mi chiese, aprendo le braccia in un tacito invito a raggiungerlo, mentre mi rivolgeva un sorriso stanco ma sincero. Ed io sentii il mio cuore sciogliersi, come se quel semplice gesto potesse rassicurarmi, quindi non esitai a mordermi un labbro e ad avvicinarmi velocemente a lui.
Louis mi accolse sul suo petto e affondò il viso nell’incavo del mio collo, respirando a lungo tra i miei capelli e permettendomi stringermi con tutta me stessa alla sua maglietta, al suo corpo. Cercò la mia bocca e la baciò ad occhi chiusi, una volta, due, tre, fino a quando sembrò averne abbastanza, anche se non era lo stesso per me. Mi era mancato così tanto e tutta quella situazione non faceva che gravare sulla mia povera salute mentale.
«Mi dispiace per il ritardo – sussurrò con la fronte appoggiata alla mia, avvolgendomi i fianchi con le braccia. – Abbiamo fatto un casino con una canzone e-»
«Non fa niente» lo interruppi, scuotendo piano la testa. Ed era vero, perché alla fine come poteva essere altrimenti se lui era lì e se io non capivo più niente?
Louis sorrise, obbligandomi a fare lo stesso, e mi baciò di nuovo, mentre io mi chiedevo se quei baci potessero già anticipare la sua risposta al mio messaggio di quella mattina. «Sto morendo di fame» aggiunse dopo qualche istante, mordendomi la mascella e facendomi il solletico.
«Andiamo, allora.»
«Potevamo mangiare qui», disse con la fronte corrugata, mentre io facevo scivolare la mia mano nella sua per guidarlo verso la cucina.
«No, fidati – lo contraddissi, ridendo e voltandomi verso il suo viso confuso. – Non ci tengo a mangiare su quel divano» spiegai.
«Perché?»
 
Era tutto apparentemente normale. Io e Louis avevamo finito le pizze molto lentamente, a causa delle infinite chiacchiere che non eravamo riusciti a trattenere: avevamo parlato, avevamo riso e parlato ancora, lui mi aveva baciata ed io l’avevo accarezzato, un morso di pizza e un sorso di birra, “ne vuoi ancora?”, “stasera avrei ucciso Niall”, avevamo passato in rassegna alcuni aneddoti avvenuti la settimana scorsa e “avrei voluto che ci fossi anche tu”. Era tutto normale.
Evidentemente, la confusione era solo nella mia testa, eppure non volevo fargli troppa pressione. Non potevo chiedergli per l’ennesima volta di farmi chiarezza sui suoi sentimenti, anche se il suo silenzio a riguardo mi torturava in modo intollerabile, né volevo spingerlo ad una reazione dettata dal disagio, perché quella serata stava andando così bene da non poter essere rovinata. Mi sembrava di essere tornata a quei pochi momenti in cui la nostra storia non era scossa da alcun dramma, da alcun litigio: era talmente naturale, per noi, ridere fino ad avere mal di stomaco e guardarci subito dopo come se non potessimo fare a meno l’uno dell’altra, che tutto il dolore affrontato mi appariva quasi giusto, necessario affinché potesse esserci dell’altro.
Forse dovevo solo smetterla di pretendere, lasciare che Louis facesse tutto con i suoi tempi, che ovviamente non corrispondevano ai miei. Perché insistere? Perché essere così egoista? Se anche io ero consapevole e quasi sicura dei suoi sentimenti, che bisogno c’era di esigere una loro verbalizzazione? Non mi bastava percepirli ad ogni sguardo e ad ogni contatto anche involontario?
Era questo che continuavo a ripetermi, mentre lavavo i due bicchieri e le posate che avevamo usato durante la cena. Un sorriso sul volto mentre lui mi raccontava la discussione di Liam e Niall su una questione di calcio che ancora non mi era chiara.
«Per me stai parlando arabo» commentai infatti, quando lui mi chiese conferma della sua teoria. Io facevo jogging, certo, ma la mia vena sportiva si esauriva esattamente a quel punto: non me ne intendevo di cartellini rossi o quant’altro, né avrei saputo dire se il giocare di cui mi stava parlando fosse davvero in fuorigioco come Liam sosteneva.
«Vicki, ti avrò spiegato le regole del fuorigioco più  o meno una ventina di volte» si lamentò lui, tra l’esasperato e il divertito.
Io riposi i bicchieri nel mobile sopra la mia testa e «Credo che dovrai farlo ancora una volta», gli risposi, ridacchiando tra me e me.
«No, mi arrendo» mi assicurò, mentre potevo immaginarlo scuotere il capo. Era seduto su uno sgabello intorno all’isolotto della cucina, al centro della stanza, e ogni volta che apriva bocca io mi divertivo ad immaginare ogni sua espressione, dato che non mi era dato di osservarle.
Mi asciugai le mani e con lo stesso straccio iniziai a pulire il lavabo.
«Oggi in ufficio stavo per scoppiare a ridere in faccia ad una cliente, te lo immagini? – cominciai, spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorridendo per quel ricordo. – Avrà avuto settant’anni, ma indossava dei tacchi che nemmeno io mi sognerei mai di mettere, per quanto erano alti. E aveva una pelliccia che era tipo il doppio di lei, senza contare lo stupido Chihuahua che si è portata dietro e che ha continuato a ringhiarmi per tutto il tempo. Sembrava uscita da un film, perché era davvero troppo ridicola. Ma la cosa divertente è che vorrebbe che le organizzassimo il ricevimento per i suoi dieci anni di matrimonio con il suo “amorevole Charles”, testuali parole: sai qual è il tema? Il leopardato. Il leopardato, capisci? Quale pazzo pot-»
«Ti amo.»
Mi immobilizzai, stringendo lo straccio nella mia mano destra con tutta la forza che mi era concessa. Gli occhi spalancati fissi sulle mattonelle chiare della parete che mi stava di fronte ed il respiro fermo.
«Cosa?» dissi flebilmente, quasi con un suono strozzato, mentre mi ostinavo a non muovermi. Le avevo davvero sentite, quelle parole, o me le ero immaginate? Magari avevo frainteso, magari avevo raggiunto il massimo livello di pazzia e quella era un’allucinazione.
«Ti amo.»
Chiusi gli occhi e inspirai a lungo, mentre mi lasciavo invadere da un sorriso che non riusciva ad esprimere nemmeno un quinto di quello che in realtà mi stava avvenendo dentro. Quando rialzai le palpebre, mi accorsi di avere gli occhi lucidi e di non essere interessata a fare qualcosa a riguardo, perché quella era solo la prova di quanto le due parole che Louis aveva appena mormorato mi fossero entrate nelle ossa, a scuotere ogni cellula del mio corpo.
Louis mi amava. Io potevo amarlo di più solo per quello?
Mi voltai lentamente, come se temessi di svegliarmi da un sogno con un movimento troppo brusco, e cercai i suoi occhi: erano fissi su di me, diretti e fieri, anche se potevo cogliere in loro un barlio di esitazione.
Non sapevo cosa dire, ero letteralmente paralizzata: forse anche lui aveva provato quella sensazione quando io gli avevo confessato di amarlo, forse anche lui si era sentito sprofondare sotto una felicità troppo grande e poi riemergere solo per potersi far abbattere di nuovo, come in un gioco masochista.
«Che fai, piangi?» domandò dopo qualche istante, passandosi la lingua sulle labbra e guardandomi con uno sguardo quasi terrorizzato. Sapevo quanto odiasse vedermi piangere, eppure non ero in grado di dirgli che in quel caso era tutta un’altra storia.
Quando lo vidi scendere lentamente dallo sgabello e fare un passo verso di me, fu come se mi fossi risvegliata: improvvisamente, la consapevolezza di ciò che era appena accaduto, di ciò che Louis mi aveva appena confermato, mi colpì in pieno. «È che… - singhiozzai, cercando di asciugarmi gli occhi umidi e continuando a sorridere senza sosta. – È che sono così… felice» riuscii a dire, mentre sentivo le sue braccia stringermi con foga e le sue labbra posarsi sul mio collo.
Chiusi gli occhi e lo abbracciai senza riserve, sentendomi stupida per quella reazione in pieno stile romantico e allo stesso tempo indifferente ad essa, perché non sarebbe potuto essere altrimenti. Avrei voluto ringraziarlo – si poteva essere grati di un amore, no? -, urlare al cielo e poi ripetergli cento volte che lo amavo anche io e che, santo cielo!, non potevo credervi. Invece mi limitai a baciargli le labbra e a sorridere, a sorridere e a stringergli i capelli tra le mani, a baciarlo ancora e a lasciarmi accarezzare.
Louis respirò sul mio volto e posò una mano sulla mia schiena, in quel gesto che sin dal primo momento che ci eravamo conosciuti mi aveva fatto rabbrividire, poi mi sfiorò le labbra e mi fece tremare le gambe. «Non ho avuto paura – sussurrò, guardandomi negli occhi mentre i miei fremevano per averne di più. – Voglio dire sì, ovviamente ne ho avuta. Avrei voluto dirtelo subito, perché ci penso da prima ancora che tu mi dicessi di amarmi, ma non è stata la paura ad impedirmelo. Io…»
Lo sentii sospirare sulla mia pelle e chiudere per qualche istante le palpebre. Aveva davvero appena confessato di amarmi da prima ancora che io me ne rendessi conto. Aveva davvero appena attentato alla mia vita.
«Hey» lo spronai flebilmente, stringendolo un po’ di più e regalandogli un sorriso di conforto. Sul suo viso c’era un’espressione un po’ sofferta, quindi tentai di alleggerire l’atmosfera. «Non vorrai dirmi che eri timido» scherzai, abbozzando una risata per quella che avrebbe dovuto essere una scadente battuta.
O la verità.
Louis, infatti, si voltò verso sinistra senza dire una parola, ma continuando a tenere salda la presa su di me, dandomi l’occasione di studiare ogni suo lineamento. Avevo ragione? La sua era stata timidezza? In effetti, ripensando a come aveva aperto e chiuso la bocca più volte, sospirato e guardato altrove, dopo la mia dichiarazione, quella spiegazione era più che plausibile.
«No, sul serio, ti vergognavi?» domandai, cercando di assumere un tono meno scherzoso. Quella eventualità mi spiazzava, forse perché Louis non si era mai dimostrato timido. Anzi. O forse perché avevo dato per scontata la sua paura, come se fosse stata in grado di giustificare qualsiasi comportamento.
Lui increspò le labbra in una linea dritta – orgogliosa – e rispose solo con un respiro più pesante degli altri.
La presi come una conferma e mi fu impossibile trattenere un sorriso che poi si trasformò in una piccola risata, appena accennata ma che lui riuscì a cogliere. Senza guardarmi negli occhi, si voltò e mi morse il collo solleticandomi i fianchi. «Non fare la stronza» mi ammonì, mentre ridevo e mentre lo sentivo sorridere sulla mia pelle.
Cercai di fermarlo, portando le mani ai lati della sua testa e divincolandomi dalla sua presa - “scusa, scusa!” -, ma più mi agitavo più lui mi mordicchiava e mi torturava: solo dopo una manciata di secondi riuscì ad avere pietà di me, concedendomi di tornare a respirare anziché di farmi morire sommersa dalle risate spensierate, e a guardarmi negli occhi con le labbra socchiuse e giocose.
La mia espressione si fece sempre più seria, mentre il mio respiro si regolarizzava e le mie dita gli sfioravano il collo magro, mentre le sue pizzicavano l’orlo del mio maglioncino e mentre il mio cuore cercava di sopravvivere, in qualche modo. Sentii la sua bocca posarsi all’angolo della mia, spostarsi sulla mia guancia e sfiorarla dolcemente, soffermarsi sull’angolo della mia mascella e poi baciare il lobo del mio orecchio destro.
Tenevo gli occhi chiusi e cercavo di non soccombere sotto gli attacchi del suo profumo.
«Ti amo – ripeté in un sussurro, come se, una volta detto, non potesse più fermarsi dal ripeterlo, ancora e ancora. – E ti voglio» aggiunse, premendo un po’ di più contro il mio corpo e bloccandomi tra sé e il lavabo. Sentii lo stomaco dimenarsi, stretto in pugno da quelle parole che mi percorrevano in lungo e in largo ad una velocità disarmante, e non riuscii a rispondere in altro modo se non afferrando i capelli di Louis tra le mani.
«Ti voglio dalla prima volta che ti ho vista – continuò, mentre con le dita fredde superare la stoffa sul mio addome per accarezzarlo, mentre io rabbrividivo per il contatto e per il desiderio. – Così tanto» soffiò tra i miei capelli, stringendo il mio seno sinistro con la mano.
«Mi hai» sussurrai con la voce rotta, assecondando i suoi movimenti. E sapevo che lui si stesse riferendo anche ad altro, ma mi ero comunque sentita in dovere di dirglielo, di fargli sapere che mi aveva nell’accezione più totalizzante del termine.
Anche io lo volevo, come poche volte o forse mai avevo desiderato qualcuno nella mia vita. Volevo sentirlo a pieno, non solo tramite un bacio e o un preliminare, che per tutto quel tempo non si erano mai rivelati abbastanza: avevo bisogno di unirmi a lui per sentirmi completa, come se mancasse solo quello affinché fosse possibile. Era una necessità, non un semplice capriccio.
Louis respirò più velocemente e tornò sulle mie labbra, per torturarle e arrossarle, mentre mi faceva sedere sulla cucina con delicatezza, stringendomi un fianco e continuando ad accarezzarmi. Io lo assecondai e cercai un contatto maggiore con la sua pelle, cercando di sfilargli la t-shirt e aiutandolo a fare lo stesso con la mia. Baciandogli la spalla e il collo, mi chiesi se sarei riuscita a sopportare tutto ciò che Louis era ormai diventato per me, tutto ciò che implicava e comportava.
Spostandomi i capelli su una spalla per permettergli di slacciarmi il reggiseno, gli sfiorai la mascella con una mano e con l’altra gli abbassai i pantaloni della tuta, per quanto mi fosse possibile. Ero quasi sicura che stessi tremando, anche se quei movimenti urgenti che non potevamo evitare mi impedivano di accertarmene, ma non avevo dubbi sul fatto che fosse il mio cuore stesso ad incespicare ad ogni carezza e ad ogni bacio.
«Fammi restare – soffiai sulle sue labbra, con il respiro accelerato. – Vuoi che io non me ne vada, ma tu… Costringimi a restare» ripetei, come in una preghiera. Era sempre stato lui a chiedermi di non lasciarlo, di resistere e sopportare, di rimanere, ed io ci avevo sempre provato: con tutta me stessa, con ogni fibra del mio essere, avevo combattuto per lui a costo di sentirmi soffocare per le conseguenze, a costo di perderlo e poi riaverlo. Ma era questo il punto, per quanti drammi potessero interessare la nostra storia, per quante volte noi avremmo discusso e urlato, io avrei cercato di stringere i denti e andare avanti e lui mi avrebbe tenuta con sé. Solo così avremmo potuto sopravvivere, aggrappandoci l’uno all’altra, aguzzini e salvatori di noi stessi.
«Tu mi distruggi» mormorò con la bocca sul mio petto, trattenendo un gemito quando le mie dita presero a giocare con l’elastico dei suoi boxer.
E no, avrei voluto dirgli. No, sei tu a distruggere me e a ricompormi con la stessa facilità. Sono io a lasciartelo fare e a volerlo, anche se lo nego e anche se è doloroso, perché questo sei tu e lo giuro, non posso farne a meno.






 
 
Buoooooooonasera! Oggi pomeriggio, come promesso, mi sono messa a scrivere il capitolo e ho finito solo ora (perdonate l’orario!)! (nuovo banner che ci ho messo trent’anni per fare hahah pian piano lo cambierò anche negli altri capitoli (:)
Insomma, PENULTIMO capitolo!!!! Non mi dilungo su quanto questo sia deprimente hahaha Piuttosto, passiamo al contenuto:
  1. Niall e Rosie: spero che vi piacciano almeno la metà di quanto piacciono a me hahah Preciso che Niall non è innamorato o robe del genere, ma che è sulla strada giusta :)
  2. Brian e Steph: finale aperto per loro due, e lo so che mi odiate per questo hahahaah Ma tranquilla, si avranno loro notizie!
  3. Harry ed Abbie: non commento ahhaha
  4. LOUIS E VICKI CAZZO CE L’HANNO FATTA ahahhaha Sorridevo come un ebete mentre quel deficiente si dichiarava! Ha fatto penare anche me, immaginate un po’! Come avevo anticipo su facebook, lo avete di nuovo frainteso, come in fondo ha fatto anche Vicki: è vero, i sentimenti l’hanno sempre terrorizzato e bla bla bla, ma quello che gli ha impedito di rispondere “anche io” alla nostra Vicki è stata semplice timidezza. Insomma, non  è facile dirlo e diciamo che lui si è sentito un po’ a disagio, orgoglioso e tonto com’è :)
Per il resto, lascio a voi i commenti! (Vicki non poteva non piangere hhaahha)
Detto questo, scappo, perché ho delle cosucce da fare: spero che il capitolo vi sia piaciuto! Il prossimo sarà l’ultimo, AIUTO! Cosa vi aspettate di leggere? (: Ah, in questo non è comparso Zayn, ma don’t worry (Y)
Per favore, fatemi sapere cosa ne pensate: ho notato che gli ultimi capitoli sono stati recensiti meno, quindi temo di aver fatto qualche cazzata (?)
Grazie di tutto, un bacione,
Vero.
 
AAAAAAAAAAAH, dimenticavo: qui c’è la nuova storia, su Harry! Cliccate sul banner per il link, si intitolo "Little girl" (:

 
 
  
  
Leggi le 12 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Acinorev