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Autore: BeAWriter    09/01/2014    0 recensioni
Mi faccio spazio tra la gente, spintonandomi come un animale in preda al panico.
Perché è questo che sono diventata: un animale in preda al panico.
La donna distesa a terra, proprio davanti ai miei occhi, è mia madre. Le lacrime che continuano ad uscire sono straziate dal dolore, il mio stomaco è a pezzi, il mio cervello ancora un po’ confuso e non riesco a smettere di piangere. Sono preoccupata. Che succede? Mia madre è ancora viva, vero?
Non mi importa nulla degli altri, a terra c’è mia madre, mia madre.
Sembra quasi un incubo, ma so che non lo è. Il dolore è sin troppo autentico…e poi a questo punto negli incubi ti svegli.
Sento un’ambulanza in lontananza. La testa continua a girare. Le lacrime non smettono di cessare.
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1836


Fisso apaticamente la finestra della mia stanza.
Piove.
Di solito amo la pioggia, ma non questa. Questa non è forte, non è devastante come la tristezza di chi urla dentro parole incomprensibili per chiunque le stia intorno; questa è una pioggerella passeggera. Un piccolo e fine strato di tristezza che si deposita su di te per qualche giorno e poi ti abbandona nuovamente, senza preavviso. Ebbene sì, lo odio.
So che è normale che a volte ci siano dei giorni strani, in cui non sai cosa ti succede, quale sia la fonte del tuo distacco dal mondo reale e della tua apatia, ma fa davvero schifo.
Mi ripulisco il vestito e mi stiracchio sbadigliando senza contegno. Cosa fare?
Ecco cos’altro c’è da odiare: le giornate vuote, prive di impegni. Un attimo prima sei piena di problemi sino al collo, un attimo dopo ti ritrovi ad affrontare giornate vuote e prive di attività come questa. Se qualcuno avesse sentito i miei pensieri, in questo momento, avrebbe sicuramente pensato che io non sono all’altezza del posto in cui mi trovo. Forse è così. Forse non dovrei assolutamente trovarmi in qui. Forse il mio destino indicava che io fossi nata in un villaggio povero e che avrei aiutato le persone come me a sopravvivere.
Un brivido mi attraversa la schiena non’appena mi rendo conto dei gelidi pensieri che ho appena formulato. Basta, devo tenermi occupata.
Mi alzo velocemente e mi sistemo meglio alcune ciocche di capelli ricadute sul viso dietro alle orecchie.
“Lucia!” pronuncio ad alta voce.
Nell’alba di qualche secondo la mia fidatissima governante, Lucia, entra nella mia stanza con un sorriso teso. Ultimamente è spesso tesa. Forse cerca di nasconderlo e potrei confermarlo dalla sua nuova goffaggine. Si preoccupa per la sua Mademoiselle, ovvio. E poi so che è dispiaciuta anche lei, dopotutto è parte di questa famiglia da circa quindici anni. Famiglia.
“Desidera qualcosa, mon cher?” chiede agitata.
Esito qualche secondo a fiato sospeso. Cosa desidero?
“Prepara la carrozza, facciamo visita a mamma.”
“Ma...il padrone non si arrabbierà? Oggi è Domenica, vuole passarlo con lei...” balbetta lei, confusa.
“Arrabbiarsi? Perché vado al cimitero da mia madre?” – sbotto irritata – “ma perfavore. Prepara la carrozza.”
Sì, mio padre si sarebbe arrabbiato per un motivo del tutto invalido. E’ fatto così. Ma non volevo passare un’altra giornata in quel posto pieno del suo profumo e dei suoi pianti imprecanti di perdono. Mia madre non lo meritava. Era così dolce e...unica. Lei al mio posto sarebbe venuta a trovarmi per intere giornate, ne sono più che certa. Avrebbe indossato il lutto anche per sempre e contro la volontà di tutti, se fosse successo. E questo perché mi vuole bene. Io lo so.
Infilo delicatamente il cappotto di pelle grigio, accompagnato dai guanti e da un cappello che non oso indossare spesso, perché non lo ricordo quasi per niente. Forse è nuovo. Sento i passi di mio padre salire frettolosamente le scale e, poi, dirigersi verso la mia camera.
“Angie!” – grida isterico, pur sapendo di essere a pochi metri di distanza da me. – “tu, tu! Quest’oggi resti qui, non vai da nessuna parte, nessuna!”
“Oh e invece sì, padre. Vado ovunque oltre che qui. Fuggo dalle urla, i litigi, la tristezza, la malinconia. Ne ho abbastanza.” rispondo alzando il mio tono di voce, questa volta.
Mio padre mi rivolge un’occhiata preoccupata, poi si avvicina al mio esile corpo e mi cinge le spalle in modo rassicurante.
“Va bene...scusami...sai che per qualunque cosa io ci sono sempre per te. Non hai idea di quanto io ti voglia bene, Angie.”
Una tempesta di emozioni tra l’amore e la tristezza, mi invade come non mai.
“Oh, ma io lo so. E tu sai che te ne voglio di più.” rispondo tirando su il mento.
“Allora, resti a pranzare con tuo padre e poi vai ovunque tu voglia?”
Annuisco sorridendo.


La tavola è già allestita per Natale, che sarebbe stato tra qualche giorno, ma non importa, adoro il bianco messo vicino al rosso. E’ come il buono ed il cattivo che diventano migliori amici.
Mi avvicino silenziosamente alla sedia e mi accomodo di fronte a mio padre.
Mi sorride e mi passa un piattino di porcellana. Li usa sempre nei giorni che si avvicinano al Natale.
“Sei contenta?”
Sono contenta?
“Sì.” rispondo annuendo semplicemente. No, non lo sono, mi sento così vuota.

 

2013


“Angie! Alzati o farai tardi a scuola!” urla mia madre dalla cucina.
Lo dice ogni dannata mattina. Tranne la Domenica. Oh, che bella la Domenica. Non è che forse domani è Domenica?
Apro istintivamente il diario scolastico situato sul comodino di legno alla mia destra. “Lunedì”. Ah.
Vorrei tanto sprofondare nelle coperte per sempre. Ma non lo faccio, perché la mia parte di brava ragazza dice di fare ciò che è giusto.
E’ giusto che io oggi vada a scuola.
Mi sistemo i capelli, in pochi secondi, perché non c’è molto da sistemare, dato che sono corti e ricci, quanto li vorrei lisci…
Mi dirigo velocemente verso l’ingresso ed urlo ad alta voce un “Sono pronta”. Anche io questo lo dico ogni mattina. Sembra un copione. Svegliarsi, andare a scuola, tornare a casa, mangiare, dormire, svegliarsi…
Non dimentichiamoci di cantare. Non esiste un solo giorno in cui non canto, anche un pezzettino minuscolo di una canzoncina stupida e con la febbre. Lo faccio sempre.
Sento i passi di mia madre avvicinarsi ed istintivamente apro la porta ed esco, poi mi fermo ad aspettarla accanto alla macchina.
Accade tutto in una frequenza di mille secondi, che non capisco nulla di nulla. L’unica cosa che so è che ho un mal di testa fortissimo. E non vedo bene nulla, perché i miei occhi sono offuscati dalle lacrime che cominciano a risalire. Perché sto piangendo? Cosa è successo?
Sembra che tutti abbiano capito tutto, tranne me, è come se fossi andata in coma, ma il mio cervello ha già capito ogni singola cosa di ciò che sta accadendo.
Un ragazzo mi prende forte le spalle, ha l’aria preoccupatissima.
“Conosci quella signora?” mi urla contro.
Non capisco.
“Quale signora?” dico, riprendendomi completamente dalla paralisi di qualche secondo prima e guardandomi intorno. C’è una macchina ferma per strada ed i vicini in cerchio subito dopo. Sento il campanello d’allarme chiamare tutte le parti del mio corpo che si drizza immediatamente e che reagisce d’impulso, come non credevo avesse mai fatto. Ma non c’è tempo per pensare, è solo un procedimento automatico. Mi faccio spazio tra la gente, spintonandomi come un animale in preda al panico.
Perché è questo che sono diventata: un animale in preda al panico.
La donna distesa a terra, proprio davanti ai miei occhi, è mia madre. Le lacrime che continuano ad uscire sono straziate dal dolore, il mio stomaco è a pezzi, il mio cervello ancora un po’ confuso e non riesco a smettere di piangere. Sono preoccupata. Che succede? Mia madre è ancora viva, vero?
Non mi importa nulla degli altri, a terra c’è mia madre, mia madre.
Sembra quasi un incubo, ma so che non lo è. Il dolore è sin troppo autentico…e poi a questo punto negli incubi ti svegli.
Sento un’ambulanza in lontananza. La testa continua a girare. Le lacrime non smettono di cessare.

 

2015 (Presente)

E’ l’ora di Scienze Motorie.
Equivale all’inferno.
Per fortuna, ho falsificato un certificato che mi esonera dalle lezioni di Educazione Fisica per tutto l’anno. Causa? Tachicardia troppo elevata, quando faccio movimento. La professoressa sa che è una scusa, ma non può fare nulla contro un certificato medico autentico. O quasi autentico.
Tiro fuori il cellulare e le cuffiette e le metto immediatamente alle orecchie. Ora sento ogni suono, ogni chiacchiera, ogni tutto ovattato, come se fossi intrappolata in una bolla invisibile. Ed amo tutto ciò.

“Do you ever feel like breaking down? 
Do you ever feel out of place? 
Like somehow you just don't belong 
And no one understands you”

 
Come sempre, mimo le parole una ad una, con tutti I sentimenti ribollenti nel mio stomaco, ad assistervi.
Amo la musica, l’ho sempre amata..è come una persona che ti capisce sempre, che ti è sempre accanto, che ti da i migliori consigli, che ti coccola..come una mamma. Una mamma. Due anni fa, avevo una mamma.
Due anni fa, ho assistito alla sua morte davanti ai miei occhi. Ed ora non ho più una mamma.
O meglio, ce l’ho e l’avrò sempre, lei rimarrà sempre con me. Attraverso la musica. E’ così, lo sento.
Sento che se una canzone mi entra nel cuore e mi fascia le ferite, vi arriva solo attraverso il suo sorriso così bello, apprensivo e dolce…
Sento mancarmi il respiro al solo ricordo della mamma, che decido di cambiare pensiero. Devo pensare a qualcosa di più sereno. A cosa? A cosa? A cosa? Quest’anno i Simple Plan suoneranno qui in Italia. Spero di poterli vedere, anche se non ci conto. No, solo in un Universo parallelo riuscirei ad andare ad un loro concerto senza nemmeno una minima parte di complicazione.
A dire il vero, un Universo parallelo è proprio ciò che mi servirebbe. Una madre, la bellezza, la ricchezza.
Sarebbe tutto assurdamente perfetto e felice per essere vero, giusto?
“Angie? … … …?”
Tolgo immediatamente le cuffie e mi giro verso lo sguardo irritato della prof.
“Cosa?” chiedo, confusa. Risatina generale di gruppo. Che irritazione queste risatine tra prof e alunni in classe, sembrano tutti così fottutamente e schifosamente felici e complici. Non sapete di essere tutti una merda dallo stesso e schifosissimo sorriso falso stampato in faccia da mattina a sera.
“Prima di tutto: a scuola i cellulari dovrebbero stare spenti. E tu questo dovresti saperlo. E se proprio non fai lezione, ti chiedo perlomeno di rispondere all’appello, sai, per una questione di rispetto.”
Oh, ci risiamo. Fa sempre la prepotente con me. Sono così brutte le rivalità tra alunna e professore, perché come alunna, hai sempre torto, specie se poi stai antipatica agli altri 24 alunni di classe.
Che poi chi me l’ha fatto fare di scegliere proprio lo Scientifico, due anni fa?
Cosa non andava in me, al tal punto di farmi essere un genio della matematica?
“Mi scusi.”– Rispondo a bassa voce, riportando lo sguardo nuovamente sul mio cellulare. –“Potrei ascoltare della musica col cellulare?” chiedo poi, cercando di sembrare cortese.
La professoressa guarda prima un punto fisso della palestra, poi si volta e con aria severa scuote la testa.
“Le regole non le scelgo io. A quanto so, in questo istituto i cellulari accesi non sono ammessi, quindi ora spegni quel cellulare.”
Perfetto. Che gliel’ho chiesto a fare? La sapevo già la risposta!

“Com’è andata la scuola?” chiede mio padre, mentre effettua un retromarcia, per tornare a casa.
“Bene, a te il lavoro?” chiedo voltandomi verso di lui ed allacciando la cintura.
“Bene.” Risponde facendo un debole sorriso.
Vorrei tanto dire “Oh, Pa’, ci stiamo dicendo solo puttanate a vicenda, ora siamo soli, dovremmo unirci, perché siamo noi la famiglia”, ma le parole non scendono dal mio cervello, neanche minimamente.
Io e papà non abbiamo più quel bel rapporto che avevamo prima.
Non ci parliamo quasi mai. O perlomeno ci proviamo, ma è come se tra noi ci fosse uno strato di invisibilità che blocca tutte le parole che facciamo uscire dalle bocche e le riduce in polvere dopo pochi istanti.
Tutto svanito.
   
 
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