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Autore: amaarantha    12/01/2014    3 recensioni
«La ami ancora, non è così?» disse retoricamente, piangendo.
Silenzio.
Piombò il silenzio.
Perché hanno ragione, le persone, a dire che chi tace acconsente.
Sempre.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sempre sarai, tutti i miei silenzi.
 
Aveva 34 anni quando a Mabelle venne narrata la più bella fra tutte le fiabe, pur essendo priva di principe e principessa, pur non essendo narrata da nessun autore noto ma, dal miglior uomo fra tutti: suo padre.
Il buon vecchio Harry Styles, nobile uomo di mezza età, cresciuto in una piccola cittadina nel Cheshire denominata Holmes Chapel. La sua dolce moglie morì subito dopo aver dato alla luce la loro bellissima bambina, Mabelle. Uomo vissuto e colto, quel tipo di persona amica di tutti, disponibile e gentile. Con un’intelligenza ben sopra alla media, caparbio e astuto. Uno di quegli uomini, che non si dimentica insomma.
Ed in una fredda giornata d’Ottobre sua figlia, passando svelta per il corridoio di quella che era la sua casa d’infanzia, notò per la prima volta suo padre quasi inerme davanti alla finestra, intento a fissare quello che per lei sembrava il nulla. Ora voi direte, cosa c’è di strano in un signore che guarda con moderata concentrazione fuori dalla finestra della propria stanza? Assolutamente nulla. Quello che suscitò curiosità in Mabelle fu il modo in cui suo padre guardava fuori da quella grande finestra, come se ci fosse qualcuno che aveva già visto mille volte, come se ci fosse qualcosa che lo costringeva a guardare, come se fosse paradossalmente ipnotizzato, attirato o meglio calamitato a quella grande finestra. Come se ne stesse, semplicemente, cogliendo l’essenza.
Si fermò e tornò indietro per guardare attraverso la fessura che la porta socchiusa lasciava. Si sentiva scorretta nello spiare suo padre ma non l’aveva mai visto talmente concentrato. In un secondo le parve di vederlo di nuovo diciottenne. Capo del mondo, con poche certezze e mille e mille sogni sulle spalle. Sogni forse troppo pesanti ma che lui avrebbe portato con sé anche per il resto della sua vita, nella speranza di vederli realizzati uno per uno.
Era da più di quindici minuti che suo padre era fermo, come un manichino, davanti a quella finestra. Se non fosse stato per il movimento che compiva il busto ad ogni respiro, lo avrebbe pensato morto. Era da più di quindici minuti che lei si ostinava a spiare quel sessantatrèenne, che quasi non riconosceva più. Quindici minuti di domande che le si accavallavano in mente, di intenzioni e iniziative. Quando, finalmente, picchiettò due volte la porta intenzionata ad entrare.
«Avanti, cara» rispose suo padre al picchiettio, senza distogliere lo sguardo dal panorama.
Aprì delicatamente la porta ed entrò a passo felpato, in silenzio.
Sorrise avvicinandosi al padre e «cosa guardi, papà, con così tanta attenzione?», lui sorrise.
«Pensavo»
«Uhm, e a cosa pensavi? A qualcosa di importante, suppongo» si andò a sedere sul candido letto dalle bianche lenzuola. Troppo grande per contenere una sola persona.
Harry continuava, imperterrito, a non voltarsi. Non voleva abbandonare quel ricordo, non anche quella volta. Voleva tenerlo e pensarlo ancora un po’, magari fino a sera per poi riprenderlo il giorno dopo e quello dopo ancora.
«Sì, qualcosa di davvero importante» l’espressione sul suo viso era la stessa di quindici minuti fa.
«Alla mamma?» azzardò, ed ebbe improvvisamente paura della sua domanda, essendo consapevole della risposta.
Scosse la testa. Lo sguardo ancora fisso nell’inspiegabile nulla, la stessa espressione di ormai venti minuti fa. Dopo un’estenuante pausa di silenzio, si girò di scatto.
«Papà, mi stai nascondendo qualcosa? Sembri quel tipo di persona con un segreto»
«Ti va di sentire una storia, cara?» chiese, con gentilezza.
«Certamente, che storia?»
«La mia» sussurrò, riluttante.
E per la prima volta, in tutta la sua vita, decise di svelare il più grande dei suoi segreti, di aprirsi e scoprirsi. Di distruggere tutte le corazze che rivestivano la sua anima stanca. Di riscoprire, come la prima volta, l’incantevole magia dell’amore. La sua magia si chiamava Annabeth.
«Nei miei anni migliori, incontrai la più bella tra tutte le ragazze. Avevo solo diciotto anni, ero all’ultimo anno di liceo quando un giorno vidi questa giovane camminare a testa bassa per i grandi corridoi del liceo che frequentavo. Odiavo quella scuola, come più o meno tutti. Ero il solito ragazzo ribelle, troppo orgoglioso ma in realtà fragile. Ero molto apprezzato, per qualche strano motivo. Trasgredivo spesso le regole e mi piaceva fare baldoria. Odiavo quella scuola, ma in quell’anno la mia visione delle cose, della vita in generale cambiò totalmente. Lei era tutto ciò che rendeva belle le cose, dico davvero» Mabelle sorrise debolmente «era una ragazza nuova, del North Carolina. Aveva una brutta storia dietro, suo padre era molto violento con lei e la madre un giorno decise di scappare e portare con sé la figlia. Andarono dritti a Londra e finì per frequentare il liceo qui, a Holmes Chapel. Forse sembra stupido ma nell’attimo in cui la vidi mentre camminava lenta per i corridoi, fra la massa di ragazzi che sembravano non accorgersi di lei, me ne innamorai. Come per incanto. Ma ero troppo orgoglioso per andare a parlarle, per rivolgere la parola a “quella nuova”, “quella strana”, “l’americana”, “la sfigata”. Le davano tanti di quei soprannomi che non le si addicevano affatto! Lei era la più bella fra tutte le creature.
Aveva i capelli castani, lisci e lunghi, che le ricadevano morbidi sulle spalle. Dei grandi occhi verdi perennemente circondati da una spessa linea nera di trucco. Mandavano scariche elettriche e a tutti facevano paura, tutti tranne me. Era abbastanza riservata, hai presente no? Quel genere di ragazza silenziosa ma con il mare dentro. Lei non aveva bisogno di esprimersi a parole. Quei suoi occhi dicevano più di mille parole in un secondo. Parlavano, eccome se parlavano!
Era magra con delle gambe lunghe fasciate dai jeans neri e stretti, le mani bianche e piene di piccoli tagli per via del freddo, con le unghie perennemente smaltate di nero. Le labbra piene e screpolate, poiché era solita morderle quando era nervosa. Aveva la pelle bianca e candida, risaltata dai vestiti neri che indossava. La chiamavano anche la ragazza cadavere, o fantasma. Si immergeva nelle sue larghe felpe, o nelle sue magliette dei Ramones – sette volte più grandi – e entrava in un mondo tutto suo, dissociandosi dalla realtà. Non ho mai realmente capito cosa le passava per la testa.
Era quel tipo di bellezza per cui vale la pena aspettare, che si tratti di una buona mezz’ora o dell’eternità. Lei ne valeva semplicemente la pena. Era una di quelle con cui puoi parlare di tutto, e di niente. Era pura, fresca. Lei sapeva ascoltare, ascoltava tutti e ascoltava tutto. E nel silenzio, aveva imparato ad ascoltare. Era decisa nelle sue scelte e se c’era un pericolo lei lo affrontava. Nulla la scostava. Tutti gli insulti e i nomignoli non la scalfivano. Avrei tanto desiderato essere come lei» sorrise al pensiero. Ogni tanto Mabelle annuiva per fargli capire che gli stava prestando attenzione e che poteva continuare. Si bloccava semplicemente perché i ricordi facevano male più di quanto pensasse e perché l’immagine dei suoi occhi lucidi, delle sue grida e lacrime non lasciavano mai la sua mente, nemmeno per un secondo.
«Papà?»
«Oh, sì. Ricordo ancora le giornate passate a guardarla, durante la pausa. Ricordo anche che presi tutti i corsi extra che aveva preso lei, pur odiandoli. Il suo preferito era quello di pittura. Mi sedevo all’ultima fila e la osservavo dipingere, attraverso la mia tela bianca. La sua, variopinta. Io ero vuoto e bianco proprio come la mia tela, ma lei riusciva a disegnare con pennellate decise la mia anima, a suo piacimento. Sceglieva tutto lei: tecnica, colori, soggetto. Ed era brava, Dio se era brava! Ricordo ancora il primo giorno che le parlai: il mio migliore amico Owen aveva capito da tempo quello che provavo per lei e un giorno, mentre camminavamo lungo il corridoio, mi spinse forte verso il suo esile corpo. Lei cadde a terra. Mi girai verso Owen e iniziai a dirgliene di tutti i colori, ero furioso. Dopodiché mi precipitai da lei e l’aiutai ad alzarla. In un certo senso sapeva che le avrei portato solo guai, ero un guaio».
«Come si chiamava?» lo interrompe Mabelle.
«Annabeth Hill, proprio così. Pronunciare il suo nome mi fa ancora tremare il cuore, come una volta»
«E da quel giorno cosa successe? Come reagì lei?»
«Beh, non molto bene. Iniziò a dirmi che ero un cretino e che dovevo lasciarla in pace, che non era come tutte le altre ragazze con cui ero stato fino a quel momento e che dovevo starle lontano. Ma ero come calamitato e mi fecero male le sue parole. Io non volevo nulla da lei, solo conoscerla. Avevo una sconfinata voglia di conoscere ed imparare a memoria ogni sua piccola sfumatura, ogni tratto del suo viso, tutto. La volevo conoscere a memoria, come una poesia. E recitarla in ogni momento. Era la mia poesia preferita.
Da quel giorno ci furono altre occasioni per conoscerci, diventammo inseparabili. Difficile da credere ma fu così. Il riccio ribelle e la ragazza cadavere». Si mise a ridere goffamente al pensiero di quanto strani sembravamo insieme. «Passavamo le giornate al parco, sotto il grande salice piangente accanto alle altalene. E quando non c’erano bimbi a giocare ci dondolavamo noi, come bloccati nei nostri cinque anni, e facevamo a gara a chi arrivava più in alto. Naturalmente la lasciavo sempre vincere, ma non glielo dissi mai. Adoravo la sua faccia ed il suo grande sorriso quando arrivava più in alto di me. Vederla sorridere era come Natale e l’inizio dell’estate e il suono della campanella dell’ultima ora, vederla era tante piccole emozioni messe insieme. Tanti piccoli brividi sulla pelle.
Quando stavamo al parco ci piaceva parlare del nostro futuro, fantasticare su cosa avremmo fatto. Sua madre la voleva ad Oxford, dopo il liceo. Lei d’altro canto si immaginava ovunque, tranne ad Oxford. Si immaginava a camminare per le strade di Venezia, o nel suo paesino sperduto del North Carolina, o in Cina a correre per la Grande Muraglia, o in  un qualsiasi altro posto. Desiderava viaggiare. Sarebbe andata ovunque, avrebbe potuto essere chiunque desiderava se solo avessi continuato a tenere la sua mano. Lo diceva sempre ed io vivevo ad ogni sua parola sempre di più»
«E’ molto dolce, sai papà? Da come la descrivi si capisce che la amavi davvero» Annuì, incapace di dire qualcosa al riguardo.
«Sì, immagino sia così. Non so davvero spiegare quello che provavo per lei. Ogni volta era una nuova emozione, era come la mia piccola scoperta. Era il motivo per cui mi alzavo la mattina, per cui andavo bene a scuola e mi impegnavo. Era tutti i miei motivi. Ricordo tutto di lei, dal piccolo neo sull’orecchio destro, alla cicatrice sul ginocchio. Vivevo di ogni suo gesto, parola e silenzio.
Oh, silenzio. Questa era una delle poche cose che ci accomunava nella nostra diversità, sai? Noi amavamo il silenzio. A dire il vero non andavamo molto d’accordo. Litigavamo spesso, troppo spesso. Anzi, sempre. Non c’era una cosa in cui non andassimo d’accordo. E ogni volta lei finiva per urlare così forte che i bambini alle altalene si spaventavano e scappavano dalle loro madri, ed io la stringevo forte contro il mio petto. E quelle urla diventavano un eco lontano e calava il silenzio. Ogni litigata finiva in silenzio. Ma non era mai uno di quelli imbarazzanti, era stranamente piacevole. Amavo quei silenzi. Li amavo come si amano alba e tramonto, come se non ci fosse una fine né un inizio. Incondizionatamente» si accorse di stare piangendo solo quando una calda lacrima cadde sulla sua mano. Vedeva la tristezza e la comprensione negli occhi di sua figlia. Lei sorrise per incitarlo a continuare «Ricordo ancora la sua voce quella sera, o i suoi occhi rossi e le ciglia imperlate di lacrime amare. Le avrei donato la vita, se solo me l’avesse permesso»
«Quale sera?» la sua piccola, oramai grande, si iniziò a preoccupare e ad agitare. Ora era pronto per dirle tutto, per andare fino in fondo.
«Nella sera del 27 Luglio mi crollò il mondo addosso. Con una sola parola. Una parola malvagia, detta con un odio tale da distruggere e ridurre in polvere la mente candida da diciottenne che avevo. Leucemia. Mi spiazzò del tutto. Non penso di aver pianto così tanto in vita mia, come quella sera. E ricordo che arrivai ad un punto di non ritorno, in cui non avevo più la forza per piangere e rimanevo impassibile di fronte alla mia Annabeth senza capelli. Rimpiango di non averle detto quanto la amavo, non credo che il mio amore l’avrebbe curata ma le avrebbe dato un po’ più di forza. Mi sento uno stupido per questo. Non piansi più per lei dal funerale. Lei non avrebbe voluto. Ricordo che quel giorno stetti in fondo alla chiesa, in un angolino a piangere silenziosamente. Quel giorno non ebbi il coraggio né la forza di guardare negli occhi sua madre, né nessuno. Aveva diciassette anni quando le fu strappata la vita, diciassette anni che nemmeno le pesavano più sulle spalle. Lei era libera.
E la cosa straordinaria è che durante la sua malattia lei era stranamente tranquilla, non aveva paura. Lei forse lo desiderava davvero. Più di ogni altra cosa. Forse non aveva vissuto abbastanza, ora vivo anche per lei. È costantemente viva in me. Lei sapeva che la nostra amicizia e il mio amore nei suoi confronti non sarebbero mai finiti. Lei ci credeva davvero.
È in tutti i miei silenzi. In quei silenzi lei parla, e mi canta le più belle e dolci melodie»
«La ami ancora, non è così?» disse retoricamente, piangendo.
Silenzio.
Piombò il silenzio.
Perché hanno ragione, le persone, a dire che chi tace acconsente.
Sempre. 
 
 

 
Angolo autrice.
Salve, eccomi qui con questa oneshot scritta un po' su due piedi, ma spero comunque che vi piaccia.
Non so da dove mi è venuta l'idea, l'ho scritta e basta. Probabilmente fa schifo. O forse no.
Non voglio affatto rovinare (lo schifo) quello che ho scritto, quindi non dirò nient'altro. 
Lasciate una recensione, se vi va. Mi farebbe davvero molto piacere.
Mille baci.
  
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