Quello
che vedo
(sei
tu)
Alla zia Vera,
perché sa cosa
significa avere
il fardello della
diversità
solamente perché
si vede oltre.
«Per un caso di
cecità
fisica, se ne hanno mille di cecità morale.»
Arturo Graf
*
*
*
Mattia è
cieco.
I suoni e gli odori,
nel suo mondo, sorgono dalle
tenebre più profonde per indicargli la via. È la
voce di sua mamma, che lo ha
strappato dal buio per portarlo tra le sue braccia.
L’universo di Mattia è
sempre stato nero, fin dal suo primo ricordo; non vi è mai
stato un colore,
solamente sfumature di chiaro qua e là. Quando le persone
gli domandano se ha
mai visto un colore, Mattia non sa bene cosa rispondere: lui nemmeno sa
cos’è
un colore. A quel punto, solitamente, gli estranei iniziano a mugolare
e ad
accarezzargli dolcemente la spalla, magari integrandoci un
“povero, caro”.
Mattia non è un povero caro,
ma uno studente universitario di venticinque anni, che spera di potersi
laureare in fretta e poter fare carriera: un povero
illuso, piuttosto, come tutti
i suoi coetanei.
La vita di Mattia
è andata avanti tra visi raccontati
dalle voci e dal tatto, tra ostacoli scampati grazie
all’aiuto di amici e
splendidi paesaggi che non ha potuto vedere. Questo è
ciò che pensano gli
altri. Questo è quella che tutti pensano sia la sua triste
ed opprimente vita
di andicappato.
Ma la
verità è che il mondo di Mattia è
fatto dal
suono del vento la mattina presto, dal tintinnio dei bicchieri e delle
posate,
dal rumore dei passi del micio di sua mamma, dalla dolce melodia
composta dalle
pagine dei libri girate, dal profumo intenso del polline in Primavera,
dall’odore
personale che ognuno di noi ha, dal gusto dolcissimo di una fragola che
si
scioglie in bocca…
Mattia se le gusta,
queste sensazioni. Le sente sotto
il palato, nelle vene, lascia che scorrano dentro di lui come ruscelli
di
montagna. E così nel suo nero più profondo riesce
ad intravedere delle
sfumature di grigio, dei puntini quasi bianchi.
Non è vero
che non vede, Mattia. Lui vede tutto ciò,
lo vede così bene che la gente rimane sbalordita quando
glielo fa notare. Ma
allora a che cosa serve vedere il colore del sole, del cielo,
dell’erba, se poi
non si vede questo? Se
lo chiede spesso, Mattia. Si chiede come sia possibile avere la fortuna
di poter
vedere il mondo, ma non riuscire a vederlo per davvero.
-
Mattia ode il rumore
del pulitore dell’acquario
provenire da sinistra. Accanto a lui, sente il calore del corpo di sua
madre
avvolgerlo, in quel modo che avviene solo con lei: non potrebbe
confonderla con
nessun altro. Più basso e lontano, si sente una voce di uomo.
«Credo che
abbiano finito, caro.» Sua mamma gli tocca
dolcemente la mano e il calore si fa più intenso, segno che
si è avvicinata a
lui per parlare. Annuisce e le sorride.
Sono tutti uguali gli
studi medici: odore di medicine
e disinfettante, pazienti che tossiscono o si soffiano il naso, mani
che
sfregano tra di loro producendo un suono fastidiosamente
impercettibile, la
penna della segretaria che – sicsicsic –
scrive sull’agenda degli appuntamenti. I rumori, gli odori
sono sempre gli
stessi, tanto che Mattia ha imparato a riconoscere subito quando entra
nello
studio di un dottore. E anche questo, come tutti gli altri, porta il
marchio di
fabbrica. L’aria sa così tanto di deodorante di
pessima qualità, quelli che si
trovano negli scaffali delle offerte, che Mattia ne è
nauseato. Le persone
intorno a lui non sembrano accorgersene, proprio come si aspettava: la
vista
esclude l’attenzione ai dettagli, Mattia l’ha
capito ormai da anni. Ha capito
che se puoi vedere ciò che ti circonda, non hai bisogno di
attivare tutti i
tuoi sensi per capire un po’ il mondo. Ha anche capito che se
puoi vedere ciò
che ti circonda e non hai bisogno di attivare tutti i tuoi sensi per
capire un po’
il mondo, ti perdi un’infinità di piccoli e
splendidi dettagli.
D’un
tratto, il rumore di una porta che viene aperta
sovrasta tutto il resto e Mattia si mette sull’attenti,
sicuro che tra poco
sarà il suo turno.
«Non si
preoccupi, signora Rossi. Ci vediamo per la
visita di controllo.» È una voce, quella che
sente. Una voce calda, bassa e un
po’ roca, come se nella gola dell’uomo ci fosse
qualcosa che intralciasse
l’uscita del suono. Una voce di quelle che ti avvolgono e ti
danno la
sensazione di tepore, di calda protezione. È una voce che
rilassa, che coccola.
È una voce così, ecco.
«Hm...
Vediamo... Granato?»
E Mattia pensava che
non fosse possibile pronunciare
il suo cognome in quel modo,
proprio così, con quella r marcata al punto
giusto e la o chiusa. Suona proprio
bene, detto così: Granato. Si
alza, quindi, il signor Granato e – sua mamma lo segue, sente
la sua presenza –
va in direzione della voce. Come sempre, Mattia incespica in quel buio
infinito, tentando di percepire – cazzo,
la sedia! – lo spazio
in cui si destreggia. La mamma arriva in
soccorso e, prendendogli dolcemente la mano, lo porta verso la retta
via (grazie,
mamma, ti devo un favore). La retta via più bella
che ci sia, perché il
calore che emana il corpo che ora sta dinanzi a lui – lo
sente, lo sente –
è diverso da quello delle altre persone. È un
calore
dolce, dolcissimo, con un pizzico di freschezza, di brivido...
È cioccolato
alla cannella, ecco. Un calore di cioccolato alla cannella.
È così che lo
descriverebbe Mattia. Cioccolato alla
cannella, sì.
«Buongiorno.
Lei deve essere il signor Granato,
giusto?» E Mattia vorrebbe dirgli che sarebbe disposto ad
essere chiunque,
chiunque egli voglia, perché ad una voce del genere non si
può resistere, non
si può non seguirla, una voce così.
Improvvisamente una mano tocca la sua – scossa –
intrecciando le dita con le sue, stringendo. È una stretta
di mano cordiale, da
dottore, da professionista, sì... E allora perché
ha smesso di respirare,
Mattia?
«Sono io,
sì, Mattia.» Non lo vede, ma lo sente, quel sorriso che il
medico sfodera. Lo sente sulla
sua pelle, lo sentono i suoi peli che si rizzano. Il dottore li fa
accomodare
nello studio, sua madre gli indica la strada verso la sedia e lui ci si
siede.
Sta lì, i quattro sensi che ha a disposizione
all’erta.
«Allora,
Mattia, per quale motivo hai richiesto una
visita con uno specialista?»
Vorrebbe suggerirgli
di leggere la cartella clinica e
allora vedrebbe che lui sì che ha bisogno di un bravo
oculista, di uno
specialista, di uno come si deve. Ecco perché è
lì. (Ed è un complimento,
mio caro dottore dalla voce suadente.)
«Io non ci
vedo. » Deve averlo detto con una voce
infantile, perché la risata del dottor De Paoli gli
accarezza il corpo
dolcemente. Se solo potesse vederci, Mattia adesso starebbe tentando di
imprimersi nella memoria ogni piccolo particolare del viso del dottore,
ogni
neo, ogni lentiggine. Ma già si sa, Mattia non ci vede,
è lì per quel motivo.
Così rimane in silenzio, tentando di non arrossire troppo
per la figura da
stupido, memorizzando ogni colpo di tossa, ogni odore, ogni suono che
il corpo
del medico trasmette. Non può fare altrimenti, Mattia:
lasciarmi colpire
totalmente da quelle sensazioni, è l’unico modo
che ha per ricordare.
«Sì,
questo lo sapevo già.»
La visita va avanti
senza altri incidenti e non vi è
niente di particolarmente memorabile, non ha nulla che
un’altra normale visita
medica non abbia. Tranne lui, certo. Lui che gli tocca il viso, le
palpebre,
gli apre gli occhi (non cambia nulla, dottore, non vedo lo
stesso) ed
ogni volta è un po’ di cioccolato alla cannella
nelle sue narici. Il verdetto è
che la patologia di Mattia è sotto controllo, è
una semplice cecità dalla
nascita, ma è meglio programmare delle visite periodiche, in
modo da essere
certi che non ci siano peggioramenti. Stranamente, Mattia è
più che d’accordo.
Si accomiatano in quel modo rigorosamente formale che è
degno di un professore,
ma la stretta di mano se la gode proprio, il signor Granato. La
assapora.
Quando sono fuori
dallo studio, la mamma inizia con il
suo sproloquio sulla sua malattia, per concluderlo con un:
«Non è estremamente
carino, il dottore?»
Estremamente, mamma,
sì. Solo
che la mamma e Mattia stanno dando due significati diversi al termine,
ma è
meglio non dire niente e stare in silenzio.
«Abbiamo
appuntamento tra un mese.»
E per un mese, Mattia
non farà altro che aspettare.
Aspettare quel cioccolato alla cannella.
-
Passa un mese. E
passa anche la visita. Passa un altro
mese. E passa anche la seconda visita. E poi un altro mese ed uno
ancora, e poi
una visita, e un altro mese ed una visita ancora. Ed è
sempre cioccolato alla
cannella il profumo che invade le narici ed il cuore di Mattia, che
continua a
chiedere controlli su controlli perché mi
scusi, dottore, ma non sono tranquillo, altrimenti. E
il dottore lo scusa, gli fa sentire il suo bel sorriso e gli fissa
l’ennesima
visita. E Mattia non può fare a meno di sentire quel suo
calore tanto
particolare, non riesce a respirare quando entra in quello studio che
sa tanto
di lui, non può non arrossire quando lui si avvicina per
controllargli gli
occhi.
È quel
calore, che lo fotte. Quel calore che lo
costringe a tornare lì ogni mese, per sentire ancora un
po’ la sua pelle
scaldarsi, per sentire la sua vicinanza, per... sentirlo.
Sta seduto sulla
sedia della sala d’attesa, i rumori
familiari a riscaldargli le orecchie, mentre sua madre lo saluta,
dicendogli
che ora deve scappare perché l’hanno chiamata dal
lavoro, di non preoccuparsi
che lo torna a prendere tra un po’. Mattia non si preoccupa
affatto, però.
Almeno non di lei e del suo problema di lavoro. Attende. Attende
chissà poi
cosa, il calore per cui tanto smania, la stretta di mano, la voce roca.
Mattia
non lo sa, per cosa attende di preciso. Ma lo fa.
Lo fa e arriva il suo
momento, quando il cigolio della
porta che viene aperta gli indica che il paziente che lo precede se ne
sta
andando, che adesso il dottore pronuncerà il suo nome in quel modo
e che gli stringerà la mano, in quel modo.
«Buongiorno,
signor Granato. È un piacere rivederla»
dice la voce
quando si sono accomodati nello studio, Mattia seduto sulla sedia con i
braccioli, quella di pelle nuova (lo si sente dall’odore).
Oh, no, mi creda. Il
piacere è tutto mio. Sorride
in direzione della voce, Mattia, e ancora una volta vede che nel suo
immenso
universo di oscurità entra in scena una strisce di colore
diverso, meno nero e
più forte, più dolce; non sa di preciso che
colore sia, forse il bianco, quello
di cui tutti parlano. Sì, sarà il bianco.
È sempre una sorpresa, questo
luccichio, anche se non è la prima volta che succede, da
quando è in terapia
dal dottor De Paoli.
«Allora? Ci
sono dei cambiamenti? No? Controlliamo,
che ne dice?» Parla con il solito tono cordiale e amichevole,
il dottore: non
troppo distaccato, non troppo confidenziale. È un tono di
voce perfetto per un
medico, davvero, Mattia ne è sicuro, dovrebbero adottarlo
tutti i dottori del
mondo, i pazienti sarebbero più soddisfatti.
«In
realtà c’è qualcosa.»
Mattia sente lo
strusciare dei pantaloni del dottore,
mentre si risiede sulla sedia, dopo essersi appena alzato. Ed
è sempre tutto
nero, nella sua visuale, ma niente è più nero,
perché Mattia lo sente, il
dottore. Lo sente lì, davanti a lui.
«Sì,
mi dica.»
«Mi dia del tu, per
favore.» Proprio non la sopporta quella
convenienza formale, dopotutto è più giovane del
medico di almeno un paio
d’anni. E poi lo vorrebbe più vicino, il dottor De
Paoli.
«Va bene,
Mattia. Dimmi.»
Non ha detto
“Mattia”. Ha detto Mattia, con la doppia
“t”, senza dimenticarsi la “i”
e
mettendo al posto giusto la “a” finale, come un
perfetto epilogo. Mattia.
«Succede,
in particolari situazioni, che nel mio
tunnel buio ci sia un barlume di chiaro... come dei puntini un
po’ meno neri.»
Lo dice e poi tace. Lo dice, tace e ascolta il rumore delle mani del
dottore
che sfregano l’una contro l’altra, in segno di
concentrazione. Il resto è
silenzio.
«In
particolari situazioni? Cioè?» De Paoli si
informa, da bravo medico domanda al paziente i sintomi del suo malanno.
Sprigiona il suo dolcissimo calore corporeo e attende risposta. A
Mattia piace
quel silenzio fatto di cioccolato alla cannella.
«Cioè
quando sono accanto a Lei, dottore.» Sì,
è
proprio così che succede: il calore di De Paoli entra nel
suo spazio vitale e
nel suo nero scoppiano quegli schizzi di flebile luce, in
corrispondenza del
corpo del dottore. Mattia non sa che cosa sia, ma per la prima volta
nella sua
vita può dire di vedere qualcosa. Che sia luce, bianco,
chiaro, sfumatura, non
gli interessa, perché Mattia sa che
cos’è: è lui, il dottore. Mattia lo vede.
«Signor
Granato, io...»
«Mattia.»
«...
Mattia. Io non capisco.»
Neanche Mattia (in
corsivo, lo dice in corsivo, il dottor De Paoli) capisce, forse anche
meno di
Lei, ed è per questo che è seduto sulla poltrona,
perché non capisce ma lo vede
e ne ha bisogno. L’unica cosa che Mattia inizia a comprendere
è che il dottore
gli piace.
«Non
c’è nulla da capire.» Ed è
vero, non bisogna
capirla l’irrazionalità, è questo che
gli hanno sempre spiegato, è quello che
le audiocassette della Disney mormoravano nelle cuffiette: segui
il tuo cuore. È che al
dottore gli hanno insegnato i numeri, la
logica, la scienza e la passione non è di casa, per lui.
«Sono un
uomo, io.»
Oh. Per
un solo istante, i pensieri di Mattia smettono di turbinare nella mente
e si
mettono sull’attenti. Non ci avevo pensato, prima
d’ora, al fatto che il
dottore non aveva una voce d’angelo, una sensuale voce di
donna fatale. No, era
una voce roca e profonda, una voce bassa, a volte con dei picchi di
tonalità,
ma pur sempre mascolina. Era un uomo, il dottore, proprio come lui. Oh.
«Non ci
avevo fatto caso. Non che cambi qualcosa, non
fa molta differenza per me. Sa, io non la vedo. Io la sento.»
Lo vede a modo
suo, Mattia. Lo vede con il calore del corpo, con i barlumi di bianco,
con i
brividi sulla pelle e la rilassatezza. Ecco come lo vede, Mattia. Lo
sente.
C’è
silenzio assoluto nella stanza, eppure Mattia
sente distintamente il suono nevrotico delle unghie del dottore che
vengono
maciullate dai suoi denti.
«Cosa Le fa
pensare che a me piacciano gli uomini?»
Sorride, allora,
Mattia. «Assolutamente nulla... prima
di questa sua domanda.»
Mattia non ci aveva
proprio pensato al fatto che il
dottore non fosse un bella donna formosa. Aveva solo pensato che quella
voce
era bella, che quel calore era ancora più bello e quella
gentilezza lo
spiazzava a tal punto che aveva voglia di abbracciarlo, il suo medico.
Il suo medico che non
risponde e c’è solo il
ticchettio dell’orologio a muro, sulla sinistra.
Però Mattia li sente i battiti
del cuore del dottore: bisogna mettersi in ascolto, certo, e se non si
fa
attenzione non li si sente, ma la sua tecnica è affinata. Fa tum-tum il
cuore del dottore.
«Ci vuole
uscire con me, dottor De Paoli?»
Silenzio. Tum-tum. Silenzio. Tum-tum.
«Sta
scherzando, Granato?» A Mattia piace scherzare,
gli mette allegria, e le risate trasmettono calore, così
Mattia può sentire le
persone che gli stanno accanto, può sentire le loro emozioni.
«No.»
Ma non sta scherzando, no.
Sembra che la loro
conversazione si sia trasformata in
un gioco di rumori silenziosi, di chi riesce a parlare il meno
possibile e fare
le pause più lunghe, perché il dottore non
risponde di nuovo, sta lì senza dire
nulla, così: tum-tum.
«Okay.»
Una sola parola,
nemmeno italiana, straniera, una
parola stupida, una di quelle che se l’avesse detta qualcun
altro, Mattia
avrebbe scrollato le spalle. Ma l’ha detto il dottore e
l’ha detto a lui, ha
detto che okay ci
uscirà con lui.
«Okay»
ripete Mattia. E lo sente il cioccolato alla
cannella sprigionato dal sorriso del dottore.
-
Non
c’è profumo migliore di questo, pensa Mattia,
seduto al tavolo della caffetteria
Sant’Angelo.
Di fronte a lui, il
dottor De Paoli, accompagnato dal
suo indistinguibile calore di cioccolato alla cannella, quello che li
ha
portati a quel punto.
«Amo
l’odore del caffè: rimane nell’aria per
ore. Sa
di casa.» Parla ad alta voce, Mattia, con un tono distante,
di qualcuno che è
perso nel suo mondo e, in effetti, è proprio nel suo
universo di odori e
sapori, che Mattia sta volando in quel momento. Solo che ci sta
portando anche
il dottore.
«Ore?»
È un uomo curioso, quello che sta di fronte a
lui, Mattia lo sa ed è per questo che sorride in direzione della voce.
«Ore,
sì. Bisogna solo farci caso.» Mattia conosce
già
la risposta che il medico gli darà, perché anche
lui, nonostante tutto, ci
vede. E chi ci vede, proprio non ci vede.
«E io non
ci faccio caso» dice, infatti.
Mattia si porta la
tazzina alla bocca, lasciando che
la bevanda calda scenda lungo la gola, aromatizzando tutto il suo
organismo con
quel gusto inconfondibile ed ineguagliabile. Proprio lo adora, il
caffè. Sente
che il dottore ingoia – è un suono
particolarissimo quello del deglutire,
Mattia ha imparato a riconoscerlo solo dopo anni di allenamento.
«Non
è colpa tua. È colpa della tua vista:
è meno
sviluppata della mia.»
Ride, il dottore.
Ride e Mattia si abbandona alla
ventata calda di quella manifestazione, perché la risata del
dottore è proprio
un vento tiepido di primavera, uno di quelli che ti scaldano il cuore,
ma senza
farti sudare. È un dolce tepore, proprio come il suo calore
corporeo. Non è una
risata sguaiata e fastidiosa come quella di molte persone, no...
è discreta.
Discreta e dolcissima.
«Come si
chiama, dottor De Paoli?» Il tintinnio del
campanello che indica l’entrata di un nuovo cliente attira
l’attenzione di
Mattia, che torna velocemente ad interessarsi del suo medico, quello
con la
voce sensuale.
«Filippo. E
dammi del tu, ti prego, non sono
in veste di dottore, oggi.» Mattia
sente il suo sorriso sulla pelle, lo sente e il luccichio smorza un
po’ le sue
tenebre.
«È
un bel nome, Filippo. Con quella “f” iniziale
sembra un soffio di vento...» Un nome elegante per una
persona elegante: Filippo. Comincia
con dolcezza e termina con una bella doppia “p” che
dona un tocco di
determinazione al tutto. Sì, è adatto al dottore.
Mattia sorseggia il suo
caffè, mentre nella sua mente si domanda come appare agli
occhi di Filippo; gli
piacerebbe sapere se lo vede come le altre persone, quindi come una
persona con
occhi, naso e bocca, oppure se lo vede... Se lo vede davvero, come lo
vede lui.
«Sei
strano, Mattia. Te l’hanno mai detto?»
«E tu sei
maledettamente inopportuno, Filippo. Te
l’hanno mai detto?»
Ride, il dottore e
Mattia vorrebbe prenderlo a
schiaffi, eppure sta ridendo con lui, così, lascia che il
fiato esca dalla sua
bocca, crogiolandosi nel suono del riso dell’altro,
rivolgendo il viso a quella
voce. Lo vede e ride, Mattia.
«No,
è la prima volta» risponde Filippo con voce
giocosa, che fa venire in mente a Mattia un bambino pestifero, come
quello che
era lui, una volta.
E mentre finiscono il
loro caffè, Mattia sente che
Filippo sta ridendo sotto i baffi.
-
«Posso
essere inopportuno?» Filippo lo domanda tra le
file degli alberi del parco del Valentino (gentilmente descritto dal
dottor De
Paoli), in quella Torino che sa di smog e di diserbante. Mattia
è contento di
non poter vedere quello scempio di vegetazione, sicuro
com’è che sia finto come
quei nasi rifatti con la chirurgia estetica: lo sente dal rumore della
ghiaia
sotto i suoi piedi, che è troppo compatta per essere
naturale; oppure dal
soffio del vento, così debole da significare che gli alberi
sono stati piantati
artificialmente in modo fitto, tanto da non far passare
l’aria.
«Lo sei
già stato, quindi direi che non fa molta
differenza.» Che sia acido, Mattia
ne è sempre stato consapevole.
La gente ha sempre collegato questa sua caratteristica al suo handicap
– come
si ostinano a chiamarlo in molti – ma la realtà
dei fatti è che Mattia è
semplicemente schietto.
Filippo sembra
trovare divertente questa sua
attitudine, perché lo sente ridere silenziosamente.
«Ti sei mai
chiesto quale sia il mio aspetto?» Camminano
lentamente, senza fretta, non gli fa paura quel tempo che scorre, lo
assaporano
insieme al profumo di polline, al rumore degli uccellini. Mattia sente
il sole
scaldargli la pelle: deve essere una di quelle splendide giornate
primaverili.
O forse non è il sole, forse è solo la vicinanza
di Filippo, che cammina al suo
fianco, assicurandosi che Mattia eviti tutti gli ostacoli. Si prende
cura di
lui, da bravo dottore.
«Non mi
sono mai neanche chiesto se fossi uomo o
donna, quindi fai te...» Sorride, Mattia, voltandosi verso la
fonte del calore.
È la sensazione, che lo fotte: la sensazione che prova
quando Filippo gli è
accanto.
«Beh, sono
un uomo.» Ed è tutta un sorriso la voce di
Filippo mentre dice quelle parole. E Mattia lo sa che, in ogni caso, il
suo
dottore sta attendendo una risposta, la risposta,
perché dopotutto è un vedente e chi vede vuole
sempre capire come sia non
vedere. Non sanno cosa si perdono.
«Sì,
lo so. Ma non m’importa. E neanche il tuo
aspetto.» Dalla sua sinistra proviene un chiacchiericcio di
cicale, che
sembrano essere impegnate in una conversazione interessante.
«Davvero
non t’importa?» Sembra sorpreso, il dottore.
Comprensibile: è difficile, per chi è immerso in
un mondo di immagini, pensare
di non aver voglia di vederne più nemmeno una. Mattia
vorrebbe dirgli che le
figure sono solo delle apparenze e forviano la mente
dall’aspetto essenziale:
il contenuto.
«Un
po’ mi interessa, in realtà.» Vorrebbe
capire come è
fatto, Mattia. Non se è bello o brutto, non se è
alto o basso, grasso o magro,
ma vorrebbe imparare ogni singolo neo sul suo viso, ogni singola
lentiggine,
ogni cicatrice e ogni voglia. Vorrebbe imparare Filippo. «Ma
voglio scoprirti a
modo mio.»
Non sta
più nella pelle, il dottore, Mattia sa che è
curioso di sapere che cosa le sue parole significhino. «E
cioè?»
Si ferma, Mattia. Non
sa bene dove si trovi, sa che è
sul sentiero, perché sente le pietruzze sotto le suole delle
sue scarpe, ma
potrebbe essere a sinistra o a destra. Cerca dei segnali e sente che
accanto a
lui passa qualcuno correndo... Una corsa lenta, la persona ha il
fiatone: è
qualcuno che sta facendo jogging, quindi deve essere in mezzo alla via.
Si
sposta un po’ verso destra e sente che il dottore lo segue.
Adesso c’è erba
sotto i suoi piedi, quindi è al sicuro.
«Posso
toccare il tuo viso?»
Silenzio. Silenzio e
il cuore di Filippo che fa tum-tum. Risponde
di sì, il dottore e si avvicina a lui, invadendo il suo
spazio vitale di
calore, di cioccolato alla cannella. Alza una mano Mattia, tasta
l’aria e sente
che il calore è un po’ più avanti, solo
un po’... Trova il viso di Filippo.
Tocca la sua pelle ed è morbida, morbida come se la
immaginava, una delizia per
il tatto.
«Hai degli
occhi grandi» afferma mentre posa le dita
sulle palpebre del dottore, per poi spostarsi verso il basso ed
incontrare il
naso. Segue il suo profilo, tracciandone ogni linea, ogni parte.
«E un naso...
si dice aquilino, vero?» Filippo si abbandona ad una risata
nervosa, annuendo.
L’indice di
Mattia si ferma sulla bocca di Filippo. La
sente soffice e, seguendone il contorno, si accorge che il labbro di
sopra è
carnoso e si chiude al centro: una piccola boccuccia a cuore.
Sente il cuore di
Filippo che fa tum-tum e
allora Mattia fa l’unica cosa che dovrebbe fare: lo bacia.
Lo bacia e lo
assapora, conoscendo quella bocca di
fragola, mentre Filippo gli tocca una guancia.
«Hai una
bocca di cioccolato alla cannella.»
-
È un buio
diverso, quello in cui è immerso Mattia. È
un buio che sa di riposo e gemiti sommessi, di promesse mai pronunciate
e
silenzi pieni di parole. È sdraiato a pancia in
giù, Mattia, le braccia
incrociate sotto il mento e, mentre fuma una sigaretta con
svogliatezza, una
bocca gli bacia dolcemente la pelle nuda della spalla.
Ed è
Filippo, ancora Filippo, sempre Filippo. Filippo
che lo bacia, lo accarezza, gli racconta come sia fatto il suo viso
– hai
dei bellissimi ricci rossi, Matti. Mattia
lascia che il fumo esca lentamente dalla sua bocca, mentre il calore
del suo
ragazzo – il suo ragazzo,
sì – lo fa
sentire a casa.
È un buio diverso, questo. Gli massaggia la schiena, Fil,
posandogli le labbra
alla fine di essa, minacciosamente vicino al suo fondoschiena. Si
diverte a
provocare, Filippo, lo fa sempre – scommettiamo
che non mi resisti, Matti?
Isola tutto il mondo,
Mattia, concentrandosi solo su
di lui, su quel dottore un po’ fuori di melone che ha
accettato, mesi prima, di
uscire con un cieco – un cieco un po’ strambo. Posa
una guancia sulla sua
schiena, Filippo, le mani che vagano sul corpo di Mattia, indisturbate.
«Quando hai
scoperto di essere gay, Fil?» Si ferma e
rimane in silenzio, il dottore – fa sempre così
quando è preso alla sprovvista.
Mattia giurerebbe di aver sentito il rumore dei neuroni che roteano in
quel
cervello brillante.
«Non me lo
ricordo.» Pausa. «Forse quando ero più
interessato al mio compagno di banco che alla mia ragazza.»
Ridono. Come sanno
ridere solo loro insieme, perché
separati non producono lo stesso suono le loro risate, Mattia
l’ha notato, sono
diverse, sono un po’ vuote... incomplete.
«E
tu?»
Quella domanda
è sintomo che Filippo deve ancora
imparare un po’ di cose, ma Mattia non ha fretta,
è un buon maestro, paziente
(e un po’ acido). Filippo è pur sempre un vedente
e pensa di conseguenza, non
potrà mai capire appieno il mondo di Mattia, che sta
cercando di
insegnarglielo. «Io non sono gay, Fil.»
«Scusa?»
Mattia sente che si allontana da lui – freddo – e
vorrebbe dirgli di tornare ad appoggiare il viso sulla sua pelle,
perché adora
sentirlo, vuole sentirlo ancora un po’ (non te ne
andare, Fil).
«Non sono
neanche eterosessuale.»
«Perdonami,
Mattia, ma non sto capendo.» C’è una
punta
di fastidio, nel tono del dottore, come sempre quando non segue i
ragionamenti
un po’ contorti del suo compagno.
«Lo sai
perché mi sono innamorato di te, Filippo?» Innamorato, sì.
Mattia si è proprio innamorato, ma non come succede nei
cartoni animati, non ha
perso la testa per la bella principessa, ma per il bel dottore dal
calore di
cioccolato alla cannella, nel mondo di un cieco, in cui le apparenze
sono un
nonnulla. Trattiene il fiato Filippo, a quelle parole.
«Per il tuo
calore, per la tua voce.» Mattia si alza e
si lascia guidare dal calore che tanto conosce, per trovare le mani di
Filippo
e prenderle tra le sue. «Io non vedo, Filippo. Quello che
conta, per me, sono
le sensazioni, le emozioni. Questo è quello che
vedo.»
E Mattia lo sa, lo sa
che Filippo lo bacerà, adesso.
«Quello
che vedo sei tu.»
*
*
*
Note
Disclaimer:
I personaggi e la storia mi appartengono,
in quanto frutto della mia fantasia. I fatti e le persone descritte nel
racconto sono immaginari e non corrispondono alla realtà.
o
vivo in provincia di Torino, quindi quale città , se non la
mia, poteva fungere
meglio da sfondo per la storia d’amore tra Mattia e Filippo?
Torino è, quindi,
il background della mia storia,
come
viene detto quando Mattia e Filippo stanno passeggiando nel parco del
Valentino, che è il principale parco della città
(sarebbe anche molto bello, se
non fosse pieno di gentaglia.)
All’inizio
del racconto, ho inserito una “frecciatina” al
sistema scolastico, al lavoro e
al futuro dei giovani italiani (quando viene detto che Mattia non
è un povero caro ma un povero illuso, come tutti i suoi
coetanei.) Ci tenevo a precisarlo,
è stata una mia piccola vendetta, ecco xD
I
temi che vengono trattati sono piuttosto impegnativi, complessi e
delicati
(l’omosessualità, la superficialità, la
discriminazione) quindi spero di averli
trattati in modo dignitosi e di avergli reso giustizia. (In
realtà spero anche
che non ne sia uscito fuori un pippone noiosissimo ed illeggibile).
Devo
assolutamente dire che mi sono divertita moltissimo
nello scriverla, ho
adorato sia Mattia che Filippo e mi sono affezionata a loro fin dalla
prima
riga. Amo questa storia e ho amato scriverla. Spero che questo si legga
tra le
righe, come l’emozione che ho provato nel buttarla
giù. Spero con tutto il mio
cuore che vi possa piacere.
Se
leggete lasciate una recensione, fa sempre un immenso piacere leggere i
vostri
commenti e gioirne.
Un mare di
baci,
la
vostra Eryca.