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Autore: SofiaAmundsen    13/01/2014    2 recensioni
«Ti sei mai chiesta se c’è qualcosa di sbagliato in te? Qualcosa che ti rende così inutile o inadeguata da farti sorgere il dubbio sul tuo posto nel mondo, da farti chiedere “ma io merito di essere qui?”»
Ci rifletto e non mi serve andare troppo indietro nel tempo per ritrovarmi in quelle parole.
Mi agito sulla sedia di plastica bianca, accavallando le gambe, per poi scavalcarle e di nuovo poggiare i gomiti sulle ginocchia, cercando di fare un respiro profondo.
«Che c’è lì dentro?» chiedo d’istinto.
«È la stanza del giudizio.» risponde con una tranquillità che non capisco. «Lì dentro decideranno se meritiamo di vivere o no.» continua.
Genere: Introspettivo, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi guardo intorno alla ricerca di qualcuno che incontri il mio sguardo. Tutti, però, sembrano evitarlo. Neanche di proposito, come se i loro occhi fossero persi nel nulla e non trasmettessero più i sospiri dell’anima.
 
Solo io sembro essere in ansia. Mi agito sulla sedia di plastica bianca, accavallando le gambe, per poi scavalcarle e di nuovo poggiare i gomiti sulle ginocchia, cercando di fare un respiro profondo. Com’è possibile che quelle persone riescano a rimanere immobili in quel modo, dipinti di un’apparente apatia, tutti così diversi ma tutti con la stessa espressione?
 
La stanza in cui aspettiamo è più simile a un corridoio. Le pareti sono tutte completamente bianche, come il soffitto e l’arredamento quasi nullo, composto da due schiere di sedie attaccate al muro, l’una di fronte all’altra, e un portaombrelli. Bianco. Lo spazio è stretto e lungo, sembra invogliarti a fissare la porta, quella alla fine della stanza, bianca anche questa. Solo la maniglia risalta: i contorni sono di un nero laccato, come nei disegni a fumetti prima che i colori fossero reputati necessari.
 
Le persone, per fortuna, non sembrano far parte di questa forzata assenza di colore. La donna sulla cinquantina seduta dalla parte opposta alla mia, due sedie più in fondo, indossa un maglione rosso di lana. È orribile, ma in questo momento trovo bellissimo che ci sia qualcosa di così acceso nella stanza. Lei ha un grosso neo vicino alle labbra, che tiene serrate in un’espressione a metà tra il serio e l’indifferente. Il suo sguardo si perde nell’estremità infinita del nulla.
Vicino a lei c’è un signore anziano, avrà settant’anni, o giù di lì. Le rughe dell’età gli segnano il volto irrimediabilmente, ma sembrano curiose, capaci di tante possibili espressioni, sfumature. Come se lui avesse mille modi diversi di sorridere. Eppure, sono tutte tese nella sua espressione gelida. Anche lui, con lo sguardo grigio perso nel vuoto, come immune dalla realtà.
 
L’ansia mi prende ancora di più, nel notare che tutti gli altri sembrano come rassegnati, spenti. Che nessuno sembra disponibile a darmi spiegazioni. Non riesco neanche a ricordare come sono arrivata qui: devo essermi addormentata in macchina.
 
 
Dall’ultima volta che qualcuno è entrato dalla porta (senza che nessuno lo chiamasse, come sapeva che fosse il suo turno?) ho cercato di contare il tempo che passava. Nella stanza, naturalmente, non c’è un orologio. Quella stanza sembra fuori dal tempo e dello spazio.
Non ci sono riuscita, ho perso il conto. Quando la signora con il maglione rosso si alza, senza guardare nessuno, senza accennare a cambiare espressione o a un saluto, e si avvicina a passi lenti e inesorabili alla porta, ho la conferma di non essermi sbagliata fin ora: tutti entrano, ma nessuno esce.
 
Com’è possibile? Che cosa c’è lì dietro?
 
Sospiro nel tentativo di calmarmi e socchiudo gli occhi. Improvvisamente, sento una voce.
 
«Stai tranquilla, penso che le caramelle sulla scrivania basteranno per tutti» dice.
 
Apro gli occhi e mi giro verso la mia destra. Accanto a me c’è seduto un ragazzo, avrà più o meno la mia età, forse un anno di meno. Ha il viso da bambino e gli occhi azzurri: sono davvero bellissimi.
 
«Come?» chiedo, con un sospiro. Sembra l’unico ad avere un’espressione vera, in quella riunione di robot.
 
Lui mi sorride prima di rispondere.
«Scherzavo, ti ho vista preoccupata e ho pensato di fare una battuta per sdrammatizzare un po’.» dice con la voce limpida. Non si preoccupa di parlare sottovoce, come se gli altri non potessero sentire.
 
Ci metto qualche secondo a realizzare che per aver fatto una battuta così, deve necessariamente sapere cosa ci aspetta oltre quella porta.
 
«Che c’è lì dentro?» chiedo d’istinto, con la voce allarmata. Me ne pento subito dopo: avrei dovuto usare più cautela, in fondo non so se posso fidarmi di lui.
 
Il ragazzo mi guarda sorpreso per qualche secondo.
«Oh, non sai che c’è! Ecco perché sei così spaventata!» ribatte quasi intenerito.
 
Perché tutti sembrano saperlo tranne me? Mi chiedo mentalmente.
 
Si sistema meglio sulla sedia e distoglie lo sguardo dal mio solo per un attimo. Poi mi guarda di nuovo con quegli occhi azzurri così limpidi.
                                                                       
«È la stanza del giudizio.» risponde con una tranquillità che non capisco.
 
Prima che io possa chiedere la cosa? lui prosegue, capendo forse la mia perplessità dalla mia espressione.
 
«Lì dentro decideranno se meritiamo di vivere o no. » continua.
 
Lo guardo esterrefatta. Non riesco neanche a fingere di non essere sconvolta.
 
«Che cosa.. che… significa?» riesco a balbettare in preda allo sconforto.
 
Lui sembra così sereno. Come può sorridere mentre mi dice una cosa del genere?
Mi rivolge uno sguardo carico di comprensione, quasi provasse pena per me.
 
«Ti sei mai chiesta se c’è qualcosa di sbagliato in te? Qualcosa che ti rende così inutile o inadeguata da farti sorgere il dubbio sul tuo posto nel mondo, da farti chiedere “ma io merito di essere qui?”» mi chiede, lasciandomi spiazzata.
 
Ci rifletto e non mi serve andare troppo indietro nel tempo per ritrovarmi in quelle parole. L’ho pensato anche stamattina. E ieri sera. E il giorno prima. Riflettendoci, non c’è un giorno, da che io ricordi, in cui non mi sia fatta quelle esatte domande.
 
Annuisco, non ho la forza di parlare. Sento la gola secca e mi rendo conto di essere ancora a bocca aperta.
 
Lui sfodera un altro dei suoi sorrisi gioviali.
«Immaginavo.» dice dolcemente «È per questo che siamo qui. Lì dentro c’è una persona, in genere è una donna, ma non è una regola, che deciderà se meritiamo o no di continuare a stare al mondo. Se sì, torniamo alla nostra vita come se niente fosse, altrimenti la nostra vita andrà a qualcun altro, qualcuno che la vuole di più.» conclude.
 
Ho l’impressione che mi si sia gelato il sangue nelle vene. È assurdo!
Questo significa che… morirò?
No, non è detto, magari la persona dietro quella porta deciderà che merito la mia vita, che posso tenermela e continuare con tutto quello che è stato fin ora. Devo fare ancora così tante cose prima di morire…
 
Il ragazzo mi sta ancora guardando con i suoi occhi incredibilmente celesti, come se stesse aspettando una risposta, dandomi però il tempo di riflettere.
 
«Quindi…» comincio a chiedere, titubante «siamo qui perché abbiamo, in un certo senso, desiderato di morire?»
 
«In un certo senso.» risponde lui «Più precisamente siamo qui perché abbiamo pensato che non valiamo abbastanza per vivere. Quindi ora qualcuno giudicherà se è così.»
 
Ho così paura che mi sento stanca. Come quando il terrore ti assorbe prima da dentro, poi da fuori, e tu vorresti solo scomparire pur di non sentirti più così. Tremo, non per il freddo sicuramente. In questa stanza non è né caldo né freddo, così come ogni cosa non ha identità.
Solo ora mi ricordo degli altri. Ci saranno almeno altre dieci persone intorno a noi e tutte sembrano immuni all’angoscia che sto provando io.
 
«Loro lo sanno?» bisbiglio, indicando con un cenno della testa il resto della gente.
 
«Certo» risponde, cordiale «siamo tutti consapevoli dei nostri pensieri.»
 
Osservo ancora quel ragazzo e sembra che io tremi di meno, nel farlo. Com’è possibile che lui sia qui? Ha un sorriso che illumina la stanza, lo sguardo ingenuo e allegro di chi è sempre di buon umore. E sembra così giovane. Come può aver pensato i dubbi tristi e innaturali che ci hanno portato qui?
 
«Tu sei qui per lo stesso motivo?» domando.
 
«Sì: non si fanno distinzioni in questo posto.»
 
«Eppure sembri così… felice. Non hai smesso mai di sorridere da quando sei qui.»
 
A lui sfugge un sorriso che non ha niente a che vedere con quelli che ha fatto fin ora. È amaro, con le labbra strette. Abbassa gli occhi e poi li riporta nei miei. «Non sai che l’allegria è il miglior modo di nascondere la tristezza?» risponde, con un tono malinconico.
 
Mi lascia spiazzata. Ha terribilmente ragione.
Vorrei dirglielo, ma mi interrompe prima che inizi.
 
«È  il tuo turno.» dice con la voce ferma ma rilassata.
 
Ricado nel panico devastante di poco fa.
«Come lo sai?» chiedo, terrorizzata
 
«Fidati,» mi risponde calmo «non è la prima volta che vengo qui.»
 
Non voglio andarci. No.
 Per favore. Prego mentalmente.
Lui si alza e mi tende una mano. Ha lo sguardo dolce, ma so che dentro c’è scritto “non hai scelta”. Afferro quella mano e mi accorgo di quanto la mia tremi, non riesco a tenerla ferma. Mentre mi alzo penso a quanto sia gelido quel contatto. Perché lui è così freddo? È già morto? Hanno già deciso che non merita di vivere?
 
Non voglio lasciarlo, non voglio attraversare quella porta, ma improvvisamente mi accorgo che gli sguardi delle altre persone non sono più nel vuoto. Fissano me. Mi guardando con rabbia e impazienza, come qualcuno che sta aspettando te per poter andare avanti.
Devo, penso, e dentro di me cerco uno spiraglio di speranza a cui aggrapparmi.
 
Il corridoio mi sembra lunghissimo mentre lo percorro. Quando finalmente metto la mano sulla maniglia, il terrore sembra svanire come per magia. Mi sento calma, come se stessi per affrontare qualcosa per cui mi preparo da una vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
Entro e noto che la stanza è molto diversa da quella in cui aspettavo. È ampia, con le pareti beige rifinite di un marrone scuro alle estremità. Poco arredata com’è, sembra ancora più grande: c’è una piccola libreria appoggiata a un muro, un gigantesco tappeto a terra e, in fondo, una scrivania, dietro alla quale è seduta una donna.
Mi domando se dovrei chiedere permesso, ma in fondo sto (probabilmente) andando a morire: posso anche dimenticare la buone maniere.
 
 
 
Mi avvicino alla scrivania che, invece, sembra allontanarsi ad ogni passo che faccio. Quando finalmente arrivo di fronte a questa, sembrano passati secoli da quando sono entrata da quella porta bianca.
 
La donna sulla poltrona di pelle è magra e minuta. Ha un viso sottile, con un naso arcigno sul quale sono posati degli occhiali così piccoli che mi chiedo come faccia a vederci attraverso. Ha i capelli castani raccolti in un chignon severo, come la sua espressione, concentrata sulle carte che sta sfogliando attentamente. Non mi degna di uno sguardo: mi chiedo se si sia accorta che sono lì.
 
«Si sieda, prego» dice quando sto per tossire cercando di attirare la sua attenzione. Ha una voce che rispecchia terribilmente il suo aspetto: acuta, seria, irritante.
 
Cerco una posizione comoda sulla poltroncina, ma poi capisco che sono troppo tesa per trovarla davvero, quindi accavallo le gambe e rimango dritta sulla schiena, tenuta su dalla mia ansia che comincia di nuovo a bussare alla porta della mia mente.
 
Finalmente la donna alza lo sguardo su di me. Ha due piccoli occhi grigi (ora si spiegano gli occhialetti minuscoli), acquei, di quel colore non capisci se nasconde segreti o è semplicemente vuoto.
Congiunge le dita scheletriche appoggiando le braccia sulla scrivania e continua a fissarmi in modo penetrante. È terribilmente fastidiosa.
«Cominciamo» dice dopo avermi guardata per un po’.
 
«Allora, mi dica, cosa fa nella vita?» mi chiede, gettando lo sguardo alle carte che ha sotto. Sono abbastanza sicura che abbia la risposta scritta lì.
 
«Studio» rispondo.
 
«Bene, in che ambito?»
 
Che domanda è? Mi chiedo. Poi ripenso che una volta qualcuno mi aveva parlato delle distinzioni tra i vari tipi di studio, a seconda dell’interesse principale.
 
«Artistico-letterario» provo.
 
Lei non sembra assentire né dissentire.
 
«E ha buoni voti?» chiede ancora.
 
«Beh, non sono la prima della classe, se è quello che mi sta chiedendo… ma neanche l’ultima.»
 
«Capisco.» risponde, continuando a guardare le carte.
 
Solleva lo sguardo su di me e si sistema gli occhiali sul naso con la mano destra.
 
«Con chi vive, signorina?»
 
«Con la mia famiglia»
 
Fin ora sembrano domande abbastanza facili, meno male.
 
«I suoi genitori, dunque?» domanda, quasi stizzita.
 
«Esatto.»
 
«Ha una relazione?»
 
Cavolo, questo è personale! Mi impegno per non arrossire e nel farlo mi rendo conto che passano diversi secondi di silenzio. Ingoio saliva.
 
«No, non attualmente.»
 
«Talenti particolari da segnalare?»
 
Beh, ci sono cose che so fare, ma non so se li definirei talenti. Decido di rimanere sul vago.
 
«Niente di particolare.»
 
Torna a guardare le carte. Questa volta, le guarda più a lungo e io cerco di usare quel tempo per rispondere anticipatamente a tutte le domande che potrebbe farmi.
Ho un cane? No.
Il mio cibo preferito? Lasagne.
Sono mai stata all’estero? Una volta, da piccola.
 
«Bene, abbiamo finito» mi dice e interrompe i miei pensieri, tirando fuori il sorriso più finto e forzato che abbia mai visto.
 
Tiro un sospiro di sollievo. Era davvero così facile?
Credo di essere andata bene, quindi mi rilasso sulla sedia.
 
«Se adesso continua di là, per favore, le cancelleranno la memoria, così colui o colei che avrà la sua vita non dovrà portarsi dietro il peso dei ricordi» continua con una voce stridula che vuole sembrare gentile, indicando con un cenno una porta alla sua sinistra. Solo ora mi accorgo di quella porta e di quella, perfettamente uguale, che c’è alla sua destra.
 
Scatto sulla poltrona come avessi preso la scossa.
 
«Che cosa?!» le urlo contro, non volendo.
 
Sento il mio corpo andare a fuoco per la paura.
 
«Così è stato deciso, lei non merita di vivere.» conclude, con la stessa tranquillità che avrebbe nella voce se mi stesse chiedendo di chiudere la porta uscendo.
 
«Ma perché?» chiedo, sull’orlo delle lacrime.
 
«Non siamo tenuti a informarla del motivo.» risponde gelida.
 
In un moto d’istintiva violenza affondo le unghie nei braccioli in pelle della poltrona.
 
«Voglio. Sapere. Il. Motivo.» sibilo a denti stretta.
 
Lei non sembra minimamente turbata. Si aggiusta di nuovo gli occhiali e prende tra le mani uno dei fogli che sta scorrendo.
 
«Bene, voglio accontentarla.» mi dice con la sua voce acuta e fastidiosamente calma «Dunque, lei studia. Quindi, non è un elemento produttivo per la società. Pesa sulle spalle di chi le paga gli studi senza che questi, i suoi genitori e in parte lo Stato immagino, ne abbiano un minimo profitto. Giusto?»
 
Alla domanda finale alza lo sguardo su di me, che sono spiazzata dalle sue parole. Cerco di difendermi ma non so a cosa aggrapparmi per controbattere.
 
«Beh, in teoria si, ma-»
 
Prima che io possa proseguire, mi interrompe.
 
«Per di più i suoi voti non sono neanche meritevoli dell’eccellenza, così che lei risulti soltanto un numero. Non è degna di attenzioni né perché ha risultati particolarmente bassi da indurre chi la circonda a indirizzarla verso un’altra strada, né particolarmente alti da far sì che lei venga considerata un primato, un orgoglio per la categoria che rappresenta. Praticamente, lei è nulla
 
È un sibilo così acido quello con cui pronuncia l’ultima parola che ho la sensazione mi schizzi veleno, invece che piccole gocce di saliva.
 
«C’è da aggiungere che studia nell’ambito artistico-letterario. Quindi, anche ammesso che riesca a completare tali studi, rimarrà sempre un elemento improduttivo della società, in quanto si indirizzerà sicuramente verso attività non concrete, non proficue, non utili. Sbaglio?»
 
Mi rivolge il suo sguardo grigio spento, freddo. Ho un brivido e annaspo.
 
Vorrei dire sì, cazzo! ma quello che mi esce è un sommesso «No.»
L’ansia si sta trasformando in una profonda, in arginabile tristezza. Ho la sensazione di affacciarmi sull’orlo di un precipizio, come se sapessi il pericolo che mi aspetta, ma non lo conoscessi davvero.
 
«Immaginavo. Non dimentichiamo che lei non ha talenti da segnalare. Un individuo inutile nella società non è più tale se è in grado di dare a quest’ultima qualcosa degno di nota. Ma lei cos’ha da offrire?» mi chiede retoricamente, guardandomi di nuovo. «Non scriverà libri di successo, non comporrà musica che rimarrà alla storia, non dipingerà quadri che finiranno nei musei. Non combinerà proprio niente di niente.»
 
La sua voce sta diventando terribilmente cattiva. La mia, d’altro canto, è imprigionata da un grosso nodo alla gola.
 
Il vuoto del precipizio è più vicino che mai, come se con le punte dei piedi fossi sulla linea sottile. Oltre quella linea, il buio.
 
Riporta lo sguardo al foglio che tiene in mano.
 
«Vive con i suoi genitori. Dunque, non ha ancora uno spazio tutto suo, che si sia creato, guadagnato, personalizzato. Di conseguenza, non ha autonomia, invade una casa che è sua solo per successione.»
 
Mi sento soffocare dalla frustrazione.
Ora lotto con tutta me stessa per non sprofondare in quel baratro.
 
«Per ultimo, ma decisamente non per importanza,» continua, poi fa una pausa che mi fa venir voglia di pregare e piangere «non ha una relazione stabile. Ovvero, la sua vita non è complementare a quelle di nessun altro, non ci sono persone che si strapperebbero i capelli dalla testa se lei non esistesse o che non potrebbero fare a meno di lei. È superflua, quasi fastidiosa, come l’erba cattiva.»
 
Appoggia le braccia sulla scrivania e si sporge verso di me. Riesco a percepire il suo fastidio nei suoi confronti: mi guarda come se stesse guardando un topo morto rimasto nella trappola.
 
«Perché, mi dica perché dovrei tenerla ancora qui?» sussurra, facendomi venire i brividi. «Lei è inutile, un peso per la società, nessuno si preoccuperebbe se sparisse e il mondo neanche se ne accorgerebbe. La sua vita sarebbe nettamente più utile nelle mani di qualcun altro.»
 
Sento le lacrime riempire gli occhi tanto da non essere più trattenute. Due, una di seguito all’altra, mi attraversano il viso velocemente.
È come se qualcuno mi avesse spinta nella voragine che cercavo di evitare. La sensazione di un buio soffocante mi prende l’anima e ho l’impressione di non essere più in grado di respirare.
 
La donna dietro la scrivania mi guarda senza un minimo di espressione facciale.
 
Ha ragione, penso.
Sono inutile.
Non farà niente di importante nella vita.
Nessuno mi ama.
 
 
Quei pensieri rimbombano nella mia mente e nel nero in cui sono caduta, come se mi trovassi in un cunicolo. Con la voce dell’eco sembrano ancora più acerbi. Più duri. Più dolorosi.
Ma non sembrano veri.
 
Li riascolto ancora una volta prima di capire che non è così, che quella voce che risuona – la mia, ironia della sorte!- sbaglia. Che scegliere di vivere è la cosa giusta da fare.
 
 
«Non è vero!» urlo con tutto il fiato che ho in gola, come se quell’urlo fosse l’unica cosa in grado di salvarmi.
Prendo fiato.
«Non ho una relazione, ma non significa che nessuno mi ami. La mia famiglia si preoccupa costantemente per me ed è contenta di avermi in casa con sé, non sono un peso.
Sono circondata da persone che mi vogliono bene, solo che spesso non me ne rendo conto.
Non sarò produttiva ora, ma un giorno, molto presto, farò qualcosa di importante, con quello che ho, quello che so fare, non importa se sono talenti o meno. Il mondo non ha bisogno solo di case o pane.
Io merito di essere qui, merito di continuare a esistere, a provare e sbagliare. Io merito di vivere.»
 
Dico tutto d’un fiato, come se non avessi il tempo di riflettere. Quando ho finito, mi stupisco delle mie stesse parole.
Da dove le ho tirate fuori? Da dove viene quella forza, quella voglia di vivere che non ho mai avuto, quella sicurezza in me stessa?
 
La signora si limita ad alzare un sopracciglio, come se la mia reazione non l’avesse minimamente toccata. Mi lascia totalmente spiazzata.
 
Si tira indietro e distoglie lo sguardo dal mio. Sistema tutti i fogli in una cartellina, lentamente, la inclina verticalmente e ne batte il lato corto sulla scrivania per far sì che sia tutto allo stesso livello. Prende la cartellina e la mette alla sua destra, come se non fosse più degna di attenzione.
 
Poi, mi sorprende completamente, di nuovo. Sfodera un sorriso di cui non pensavo potesse essere capace. Un sorriso sincero, compiaciuto, quasi dolce. Sembra incredibilmente più giovane, ora che sorride così.
 
«Il mio lavoro qui è finito, puoi andare.» mi dice dolcemente, sempre sorridendo.
 
Il mio sguardo interrogativo riceve come risposta il suo, che indica la porta alla sua sinistra.
 
«Ma…» balbetto.
 
Vorrei formulare una domanda, ma sono troppo confusa per riuscirci. Nella testa mi ronzano centinaia di dubbi.
 
Mi alzo e vado verso la porta a sinistra, quella che mi aveva indicato la prima volta. Quando ci sono davanti mi volto verso la donna, ora ancora più giovane, ancora più dolce in viso, come a chiederle il consenso. Lei annuisce: sembra capire che ho solo bisogno di sapere cosa ci sarebbe stato.
 
Apro e dietro non c’è che muro bianco.
 
Mi volto e la guardo sorpresa, poi sorrido raggiante.
 
«Quindi…» comincio, poi mi fermo a riflettere «lo scopo non era decidere se merito o no di vivere, ma convincere me che merito di vivere.» dico in un sussurro.
 
La donna mi guarda sorridente e comprensiva. «Esatto.»
 
Spiazzata, mi prendo qualche secondo.
Poi cammino verso l’altra porta. La apro per guardarci dentro e quello che vedo è semplicemente la mia vita.
Casa mia, la mia città, i miei libri, i miei amici, i miei genitori, il mio gatto, la mia bicicletta, la mia serie tv preferita, la mia professoressa, il parco dove vado a passeggiare. Il mio mondo.
Mi volto di nuovo verso la donna e lei mi fa un cenno del capo per salutarmi. Io ricambio con un sorriso che rispecchia il suo.
 
Mi basta un piccolo passo per tornare alla mia vita. Sollevo una gamba e, felice, torno ad essere me stessa.
A vivere. 
   
 
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