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Autore: V_Osbourne    13/01/2014    1 recensioni
"Il lavoro di grafico pubblicitario era individuale sebbene un collega sui trentasette anni di nome Martin Carter, quel giorno si avvicinò per aiutarmi con la montagna di fogli e cartelle che mi aggiungeva il capo, una o due volte a giornata.
–Perché Calson non mi affida un vero progetto?- sospirai stanco di dover solo sistemare quelle cartelle.
Martin ridacchiò: -Sei il nuovo arrivato, è semplice, vuole testare la tua volontà e costanza. Arrenditi perché i primi due mesi è stato così per tutti noi.- Sorrise di nuovo.
Martin era un bell’uomo, affascinante e carismatico. Alto e dal fisico atletico, biondo, occhi verdi e un velo di barba; un look ordinario da ufficio:
-Simon?-
-Si?-
-è vero che abiti in quella casa stregata di Castelreagh?-
-Si, ma ti assicuro che non c’è niente di maligno o sovrannaturale.-
-Davvero? Bhe è passato appena un giorno da quando sei arrivato. È presto per dirlo.-
-Non credo a queste cose.-
Ci fu un attimo di silenzio e continuammo a lavorare, ma Martin mi aveva già messo il dubbio:
-Tu cosa ne sai di quella casa, da cosa nascono queste voci?-
-Le ultime due famiglie che ci si sono trasferite, non hanno fatto una bella fine.-
-Perché, cos’è successo?...-"
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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There is no Love in Limbo

Un respiro profondo, a pieni polmoni e scendo con un balzo dal treno, felice.
Mi sento al massimo, finalmente ho realizzato il mio sogno. Il sogno di una vita.
Mi trascino il trolley con dentro tutto quello che mi serve per iniziare la mia nuova vita, in una nuova grande città. Belfast.

In realtà la città che già osservo nei particolari per imparare a conoscerla meglio sarà solo il nucleo centrale del mio nuovo lavoro, per il quale avevo lavorato in corsi di specializzazione parecchi anni prima di arrivarci, e finalmente eccomi lì.

Appena fuori dalla stazione seguendo il flusso delle masse di turisti raggiungo appena in tempo l’autobus che mi avrebbe portato appena fuori città, nel mio nuovo monolocale in Willow Street, l’ultima casa della via, isolata nel verde.
Il viaggio fu breve, al contrario di quel che mi aspettavo. Imboccammo la Ormeau Road e poi giù fino a Neawtonbreda e per poi risalire verso nord est a Upper Galway, su fino a Castelreagh, una magnifica cittadina circondata da boschi e campagne.

Scendo con il mio bagaglio addentrandomi nel viale di Willow Street. Lì a Castelreagh ero abbastanza isolato dalle campagne e non immerso nella confusione della città per poter lavorare anche  a casa e rilassarmi e contemporaneamente ero abbastanza vicino al centro dove avrei raggiunto il posto di lavoro in 15-20 minuti al massimo.
Alzo gli occhi dalla foto del catalogo dell’agenzia di case,  con l’indirizzo segnato sotto, e vedo la splendida casa in mattoni rossi, con il tetto grigio e gli infissi, finestre e porte bianche, in stile tipicamente inglese.
Apro la porta e lascio il trolley all’entrata. In un attimo esploro il salotto, la cucina, il bagno al primo piano, e poi rapidamente su per le scale, la camera da letto, il secondo bagno e infine di nuovo giù, nel giardino. Era tutto perfetto, tutto come ho sempre sognato, e ora finalmente è tutto reale.
Erano le 15.16. Feci appena in tempo a farmi una doccia veloce e disfare i bagagli che dovevo già andare al lavoro. Di corsa, raggiunsi la fermata dell’autobus e pensai che da lì al prossimo mese mi sarei dovuto comprare un’auto.

Ed eccomi di nuovo in città, arrivai in ufficio puntuale e conobbi il capo che dopo avermi fatto fare un breve giro del piano dove lavoravamo mentre mi presentava i colleghi, mi diede subito un plico di scartoffie infinito e la giornata volò.

Arrivai a casa stanco morto e mi trascinai al piano di sopra abbandonandomi sul letto, ma ero troppo stanco per riuscire ad addormentarmi subito così mi guardai un po’ intorno, nella mia stanza e non potei fare a meno di ricordarmi le parole di Paul, l’agente immobiliare, che mi aveva parlato di quella casa. Costava così poco e subito pensai di essermi fatto fregare, ma vedendola dal vero, non potevo crederci. Paul, mi disse che era una casa parecchio antica e girava voce che fosse infestata da spiriti ma chi ci credeva a quelle balle? Io avevo bisogno di una casa in un posto tranquillo, e quella era perfetta per tutte le mie esigenze. Mi guardai ancora intorno, la stanza illuminata dalla luce dorata dell’abatjour in stile liberty, sul comodino. Nessun fantasma, in lontananza solo il vociare un po’ alto dei vicini e il suono di una civetta su qualche albero in giardino. Mi addormentai sereno dimenticando la luce accesa.
Il giorno dopo mi svegliai da solo con una sensazione di fastidio che non riuscivo però ad identificare. La prima cosa che notai era la luce dell’abatjour, era tremolante, come se fosse sul punto di spegnersi e illuminava ad intermittenza le pareti con brevi scatti sempre più rapidi e fastidiosi di accendi-spegni. Premetti il tasto ma non funzionava, pensai che magari era rotto e cercai di svitare la lampadina ma era rovente e mi scottai. Staccai la presa e intanto andai a farmi una doccia mentre aspettavo che si raffreddasse la lampadina per toglierla e cambiarla.

Dopo un intensa doccia calda rilassante, mi vestii e mi preparai per uscire dimenticandomi della lampadina.
Andai a mangiare al bar in centro a Castelreagh e feci una colazione abbondante dato che la sera prima non avevo neanche cenato. Una cameriera veramente carina venne a prendermi le ordinazioni: -Ehi, ma tu sei il nuovo vicino! Io sono Evelyn Boghman, abito al BT12 di Willow Street.- Mi strinse la mano e io contraccambiai, presentandomi: -Io sono Simon Manray, e abito al BT13 di Willow Street.- Le sorrisi e rimasi a chiacchierare con lei anche dopo la colazione-brunch. Era veramente carina: qualche anno più giovane di me, bionda, snella e alta con gli occhi azzurri.
Mi raccontò che lavorava lì come cameriera per pagarsi gli studi all’università e abitava ancora in famiglia per dare una mano in casa e anche per prendere tempo e non allontanarsi da Castelreagh.
-è un bellissimo posto qui.- Ammisi e lei confermò. Guardai distrattamente l’orologio e pagai di fretta, salutando Eve, rischiavo di arrivare in ritardo al lavoro!

Il lavoro di grafico pubblicitario era individuale sebbene un collega sui trentasette anni di nome Martin Carter, quel giorno si avvicinò per aiutarmi con la montagna di fogli e cartelle che mi aggiungeva il capo, una o due volte a giornata. –Perché Calson non mi affida un vero progetto?- sospirai stanco di dover solo sistemare quelle cartelle. Martin ridacchiò: -Sei il nuovo arrivato, è semplice, vuole testare la tua volontà e costanza. Arrenditi perché i primi due mesi è stato così per tutti noi.- Sorrise di nuovo. Martin era un bell’uomo, affascinante e carismatico. Alto e dal fisico atletico, biondo, occhi verdi e un velo di barba; un look ordinario da ufficio, (completo scuro giacca e cravatta) con qualcosa di originale, e che se solo avesse voluto sarebbe stato capace di portarsi una donna a letto solo con un sorriso.
-Simon-
-Si?-
-è vero che abiti in quella casa stregata di Castelreagh?-
-Si, ma ti assicuro che non c’è niente di maligno o sovrannaturale.-
-Davvero? Bhe è passato appena un giorno da quando sei arrivato. È presto per dirlo.-
-Non credo a queste cose.-
Ci fu un attimo di silenzio e continuammo a lavorare, ma Martin mi aveva già messo il dubbio:
-Tu cosa ne sai di quella casa, da cosa nascono queste voci?-
-Mha, dalle ultime due famiglie che ci si sono trasferite.-
-Perché, cos’è successo?-
-La prima famiglia, gli Orson, hanno comprato quella casa quasi venti anni fa e hanno abitato lì solo tre settimane, si diceva che la moglie abbia avuto un figlio che gli è morto dopo pochi mesi dal parto. La seconda famiglia, gli Ellers avevano un figlio sui 13 anni e una figlia di 8. Anche lì sembrava che succedessero strane cose, la signora Ellers sempre malata in casa e i figli che giocavano sempre insieme un giorno non si videro più, erano scomparsi. Un mese dopo Richard, il figlio, tornò solo e non parlava più. La famiglia si trasferì e la casa è rimasta vuota fino ad adesso.-
-Tu le conoscevi le due famiglie?-
-Solo gli Ellers.-
-Bhe saranno coincidenze.-
-Coincidenze??-
-Bhe non mi sembra così spaventosa quella casa, è accogliente, davvero.- E poi non credevo a quello che diceva Martin.-
-Vieni a bere una birra da me una sera, ti proverò che non è stregata quella casa.- E senza neanche rendermene conto l’avevo invitato a casa mia, e non sapevo come suonasse alle orecchie di Martin quella proposta… ripensandoci poteva sembrare equivoca. Speravo che mi ripiegasse l’invito, invece… –Ci sto!-
 
Ero a casa finalmente, e rientrando mi buttai stancamente sulla poltrona in salotto.
Dopo il lavoro ho mangiato da “Melvin”, si chiamava così il bar, ristorante dove avevo conosciuto Eve. Lei non c’era, aveva fatto il turno alla mattina e riprendeva alle nove.

Non mi resi conto che mi ero addormentato di sasso sulla poltrona e fui svegliato da uno strano rumore al piano di sopra. Da intontito e stanco che ero in pochi secondi i miei sensi cercavano di captare qualsiasi suono provenire da dentro e fuori la casa. Spaventato mi alzai silenziosamente e cercai qualcosa da afferrare in caso avessi dovuto difendermi da qualche ladro. Trovai solo la gamba di un mobile che avrei dovuto montare in cucina. Risalii le scale e la luce nel corridoio e le luci al piano di sopra erano accese in tutte le stanze, sebbene io al mio rientro dal bar mi sia addormentato in salotto al piano di sotto. Strinsi saldamente la gamba del tavolo a mo’ di mazza e mi accorsi dal rumore che proveniva dal bagno che la doccia era in funzione e mi convinsi che non può essere un ladro che fa la doccia. Aprii lentamente la porta, controllando se ci fosse qualcuno dietro ad essa ma non c’era. Invece la mia attenzione fu catturata dalla doccia: dietro il telo, controluce, si vedeva chiaramente una figura che si insaponava sotto il getto d’acqua. Strabuzzai gli occhi incredulo. Era una situazione alquanto bizzarra e non sapevo più che pensare. Dalle forme del fisico non sembrava una donna, quindi si trattava di un uomo, e la cosa si faceva ancora più inquietante. –Ehi tu!- esclamai, -Esci dalla mia doccia!- La figura sobbalzò sorpresa e rimase immobile non sapendo che fare e non rispose nemmeno. –Guarda che se non esci da lì…- Silenzio e immobile -ok, conto fino a tre: 1, 2…-

Scostai di scatto la tenda della doccia e fissai come un imbecille il rosone della doccia che faceva scorrere l’acqua. Non c’era nessuno lì.
Ma come era possibile?
Archiviai l’episodio come accumulo di stress e stanchezza e il mattino dopo mi svegliai fresco come una rosa dimenticandomi di tutto.
Passò un mese da quando mi trasferii a Belfast e avevo iniziato ad uscire con Evelyn, la cameriera.
Era veramente una compagnia quella ragazza, e pure molto bella. Purtroppo mi disse si sarebbe dovuta trasferire a Londra, per l’università. –Quando?-
-Domani–
-è un peccato che ci siamo conosciuti tardi.- Le dissi
–Già avremo passato più tempo insieme se tu fossi arrivato prima o se io avessi dovuto partire più tardi-
Eravamo a braccetto, lungo il viale dei salici e le foglie degli altri alberi iniziavano a cadere gialle, rosse e marroni intorno a noi, trasportate dal venticello autunnale. Era un atmosfera perfetta e la baciai, sfiorandole con le dita una guancia. Lei, in un primo momento sembrò incerta, poi si lasciò andare dolcemente.
 
 
Arrivato al lavoro non feci in tempo a sedermi alla mia postazione che Calson passò di lì depositando un malloppo di scartoffie, tuttalpiù cartelle da sistemare, moduli da riempire, progetti vecchi da archiviare… Al lavoro era la solita routine e Martin ogni tanto mi aiutava e grazie a lui il lavoro finiva prima e potevo tornare a casa la sera senza allucinazioni.
Ormai era un mese che stavo in quella casa e gli spettri, fantasmi o allucinazioni post lavoro che fossero ogni tanto si facevano sentire o vedere ma non mi inquietavano più e in un certo senso mi ero abituato. In fondo confrontandomi con alcuni colleghi e colleghe in ufficio mi avevano confermato che Martin raccontava spesso balle per farsi piacere o per far colpo su qualcuno, che fosse una tipa da rimorchiare o un “novellino d’ufficio” come il sottoscritto.
Quindi se rientravo a casa e sentivo l’acqua della doccia che andava o le luci delle lampade che davano i numeri non mi stupivo più, dicevo soltanto ad alta voce: -Larry! Non far danni che dopo tocca a me a mettere a posto!- Gli avevo dato un nome a quella cosa che probabilmente era solo nella mia testa e magari stavo sviluppando qualche forma di schizofrenia.

Una volta però, mi svegliai nel cuore della notte, e non era mai successo finora, colto da un ansia improvvisa, un peso invisibile che mi gravava addosso. Mi alzai dal letto spaventato e in preda all’angoscia e scesi le scale per prendermi un bicchiere d’acqua. Erano più o meno le tre di notte e l’intera via era immersa nel silenzio, la casa, stranamente, era buia e silenziosa anch’essa. Uno scricchiolio mi fece voltare di scatto e feci cadere il bicchiere d’acqua per sbaglio. Imprecai ma mi accorsi che non si udì rumore di bicchiere in frantumi, nemmeno un botto sul pavimento, silenzio come se il bicchiere non fosse mai caduto. Guardai il pavimento e il bicchiere era lì, in piedi, intatto.
Cercai di non impazzire: -Larry dai, perché fai così?- Un vaso piombò a terra frantumandosi dal tavolino in salotto ad almeno tre metri da me. Rimasi immobile nel buio. –Larry?- tentai un ultima volta. –Io non mi chiamo… Larry!!!- E questa volta lo vidi chiaramente davanti a me e lo senti urlare con tutto il fiato che aveva e scaraventare a terra la bottiglia d’acqua in vetro, che si frantumò a terra facendo saltare pezzi di vetro e schizzare acqua sui piedi bagnandomeli.
Rimasi a fissare con gli occhi sgranati il ragazzo di fronte a me, furioso e frustrato mentre lui guardava a terra. –Scusa, come vuoi che ti chiami?- dissi a mezzo fiato; non sapevo neanch’io come trovavo il coraggio di parlare. Lui alzò improvvisamente lo sguardo fissandomi: -Tu puoi sentirmi??- e vedendo che lo fissavo spaventato e incredulo aggiunse: -Puoi vedermi???-
-Chi sei?- riuscii solo a domandargli. –Ommioddio! Non è possibile… non ci credo, sta succedendo davvero?- ormai era partito per la tangente e sul viso scarno gli esplose un’espressione di pura gioia –Ehm non potresti lasciare a me l’incredulità e la sorpresa per questa tua apparizione? Sai non vedo  spesso fantasmi o qualunque cosa tu sia…- Si avvicinò con quel sorriso candido e tentò di prendermi per le spalle ma le sue mani scomparvero dentro di esse e io quasi svenni. –Em no, questo non posso proprio farlo… Insomma, tu non hai idea di quanti anni io abbia passato qui a farmi notare da quelli che ci venivano ad abitare? Il massimo che riuscissi a fare era entrare nella rete elettrica e far spegnere le luci, o aprire le condutture della doccia… o spostare piccoli oggetti, ma fino ad ora nessuno di loro mi ha visto o sentito, riuscivo solo a spaventare tutti a morte- ammise deluso. Quelle sue ultime parole mi fecero tremare  –Hai ucciso veramente tu il figlio degli Orson e la figlia degli Ellers?-
-No!- esclamò indignato
–Cosa è successo allora?-
-Donnie, il figlio degli Orson è morto nel sonno, aveva problemi di respirazione il piccolo e la figlia degli Ellers, Anita ha avuto un incidente, mentre era nel bosco con suo fratello Richard è scivolata in un fossato e si è rotta l’osso del collo. Richard preso dal senso di colpa e dalla disperazione è scappato e non è più tornato a casa per paura che dato che era lui responsabile di vigilare sulla sorellina i suoi l’avrebbero punito, o peggio per un bambino, non gli avessero mai più voluto bene.- Si rattristò come se un vecchio ricordo più personale l’avesse sfiorato nella mente.

-Dopo quasi un mese però è dovuto tornare sui suoi passi, perché si sentiva stanco e vinto dalla fame.- Non parlò mai con i suoi genitori di Anita, lei non fu mai trovata.-
Anche se quell’essere lo vedevo per la prima volta e non sapevo neanche che cos’era i suoi sentimenti erano autentici, e a quel punto vedendomelo davanti e sentendomi raccontare quelle cose non potevo neanche più credere che fosse tutto frutto della mia mente, o dello stress.
-Ho vissuto con quelle famiglie e volevo giocare con quei bambini, la loro ingenua fantasia li portava a credere alla mia presenza in qualche modo, anche se non potevano né vedermi, né sentirmi, io mi sentivo un po’ meno solo. Ho cercato di avvertire Anita a spostarsi da quel bordo, ho cercato di confortare Rose e Robert Orson, ma alla fine se ne sono andati tutti.- 

è come se quello spettro riuscisse a trasmettere i suoi stati d’animo nel cuore delle persone viventi, come prima mi resi conto di aver avvertito l’angoscia e la paura che stava provando lui, questo ci ha fatti entrare in contatto in qualche modo e ha fatto sì che potessi vederlo materialmente. Mi sentivo triste e mi resi conto che stava piangendo in silenzio. Volevo confortarlo ma non era facile, provai di nuovo a cercare un contatto, appoggiandogli la mano sulla spalla, ma affondò inutilmente nella materia eterea di cui era fatto. Lui però apprezzò lo sforzo e si asciugò le lacrime, guardandomi negli occhi. E forse bastò quel contatto visivo a fargli tornare il sorriso e fargli ricordare che stava parlando finalmente con qualcuno che potesse ascoltarlo e si sentiva molto meglio. –Grazie.- disse prendendo di qualche passo le distanze.
Poi mi venne in mente la scena della doccia e dissi senza pensarci: -Ma quindi la prima volta che c’era la doccia in funzione tu… ti stavi lavando veramente?- Improvvisamente il fantasma arrossì colto in flagrante e cercò di cambiare discorso. Cogliendolo come un si gli chiesi: -Ma a cosa ti serve se sei… insomma sei… un fantasma?- Per quanto reale la scena, stentavo a crederci lo stesso.

-Si insomma, mi serve ogni tanto tirarmi su e fare finta di essere vivo, fare le solite cose che facevo anche in vita.-
-Ma se l’acqua ti passa attraverso a che ti serve spogliarti?-
A questo punto, se fosse stato possibile, sarebbe diventato ancora più rosso
 -è la solita routine! M-ma tu quanto hai visto?-
-Ho visto la tua figura in controluce dalla tenda, non ho visto nient’altro, lo giuro.-
Un po’ sembrò rassicurarsi poi mi venne in mente di chiedergli la cosa più ovvia, anche se gliel’avevo già chiesta: -Non ti chiami Larry giusto… come ti chiami?-
-Ho scusami che stupido, non mi sono neanche presentato! Mi chiamo Vince Millow.-
-Finalmente posso chiamarti per nome senza farti arrabbiare.- Ma guardatemi sono qui nel salotto della sinistra casa in cui abito da un mese, che sto scherzando con il fantasma vero proprietario della casa, alle quattro del mattino!
 
 
Mi svegliai alle 14.30 appena in tempo per sapere che ero in ritardo al lavoro. E di Vince neanche l’ombra, come se fosse stato tutto un sogno strampalato. Scendendo di fretta  facendomi un tost al volo pestai i cocci di vetro e rischiai di scivolare sull’acqua sul pavimento. Quella cosa escludeva l’ipotesi del sogno, ma poteva essere benissimo schizofrenia!
 
Al lavoro Martin come al solito mi diede una mano con le cartelle da riordinare e mi ricordò che tra meno di due settimane scadeva il lavoro noioso per il “novellino d’ufficio” e iniziavano i veri progetti e incarichi che portavano via mesi interi. –E se mi ritiene un incompetente e mi tiene a fare questo lavoro a vita… o se peggio, mi licenziasse?- Mi lamentai seriamente preoccupato del mio rendimento lavorativo. –Andiamo Manray! Sei un fenomeno, sei meglio di tutti noi qui dentro!- La segretaria di Calson mentre passava di lì per prendere il plico di cartelle pronte disse:
-Leccaculo Carter!- e tutto l’ufficio gli fece da eco facendo zittire e incazzare Martin, quello che pensavo fosse iniziato verso Martin come uno scherzo, venni a sapere dagli altri impiegati era una vera e propria accusa, (fondata, secondo loro) che era già iniziata da quando Martin mi si era avvicinato per darmi una mano.
Doren, l’impiegata più anziana dice che l’ha fatto per dividere il lavoro che affidava il capo così Carter si beccava i meriti e io rimanevo infognato in quel compito di merda di spulciare cartelle per sempre.

A me sembrò un assurdità ma Doren era seria. Per precauzione però rifiutai sempre l’aiuto che voleva darmi Martin.
Quando tornai a casa, a fine lavoro, appena varcai la soglia della porta sentii la sua presenza e quando lo vidi sdraiato sul mio (che dico, suo) letto che dormiva, o fingeva di farlo solo per sentirsi ancora vivo, mi resi conto che non era stato un sogno, Vince esisteva davvero in quella casa.
 
In ufficio Martin non mi mollava un secondo, continuandomi a chiedere perché non volessi il suo aiuto e mi ricordò (disgraziatamente per me) la birra che dovevo offrirgli a casa mia, per dimostrargli che non c’erano spiriti o anomalie. –Facciamo questo weekend Simon?- disse amichevole cingendomi la spalla con un braccio in modo un po’ troppo confidenziale. Mi scostai interrompendo quel contatto, avvicinandomi al computer della mia scrivania. Ero riuscito a scaricare un file molto importante. –Mi dispiace ma questo weekend ho del lavoro extra che mi porto a casa.- Dissi senza scollare gli occhi dal computer, mentre salvavo tutto su usb pen e per fortuna evitai la serata della birra, sentendolo protestare: -Non saresti costretto a portarti a casa lavoro extra se lasciassi che ti dia una mano.-
 
Dovevo trovare un luogo tranquillo dove consultare quei file, che non fosse al lavoro, per non insospettire Martin, e che non fosse a casa, per non insospettire Vince.
Arrivato ad un internet-caffe di Belfast, pagai al banco dell’entrata e mi appartai nella postazione computer assegnatami. Aprii la cartella sul pc: Caso Orson – Caso Ellers    

Avevo scaricato tutte le notizie dei giornali di quel periodo. Avevo ancora dei dubbi su quelle due famiglie nonostante quello che mi aveva detto Vince, infondo non lo conoscevo, mentiva o magari non ricordava i fatti come erano accaduti, magari, senza volerlo era stato proprio lui a uccidere i bambini. I fatti erano quelli: o si trattava di coincidenze in entrambi i casi, o era stato veramente lo spirito di Vince.
Ero io che dicevo a Martin che si trattava di coincidenze e ora mi ritrovavo a dubitare delle mie stesse parole e c’era solo un modo per scoprire cos’era accaduto veramente a quelle due famiglie: cercare delle prove.

Su gli Orson i giornali non parlavano molto, o almeno non dicevano niente di nuovo che non sapessi già. Cercai gli Ellers e un articolo diceva solo che la famiglia, dopo poco più di due mesi da quando si erano trasferiti lì i loro figli erano entrambi scomparsi, i genitori sporsero la denuncia alla polizia che si mobilitò per cercare i due bambini. Dopo un mese Richard tornò a casa e lo interrogarono ma lui non parlava, gli psicologi gli diagnosticarono uno shock per la quale non riusciva a parlare. I poliziotti abbandonarono le ricerche e La famiglia si trasferì a Belfst.

Cercai nella rubrica telefonica il numero e l’indirizzo degli Orson e degli Ellers. Dovevo parlare direttamente con loro se volevo arrivare in fondo a questa storia.
-Bentornato.- Mi sorrise Vince al mio ritorno -Come mai così tardi?-
-Niente, mi sono fermato a mangiare un boccone da “Melvin” e ho perso la cognizione del tempo.-
Salii le scale per andarmi a sdraiare in camera ma mi bloccai a metà della rampa quando mi chiese:
-Esci ancora con Evelyn?-
-Cosa? Come fai a saperlo?-
-Bhe sia dal caso che, mentre tu hai tutta la tua vita frenetica, io ho molto tempo libero, che ho passato ad osservarti e cercare di conoscerti, senza che tu mi vedessi.- Si voltò e andò in cucina. Io lo seguii.
-Quindi mi hai spiato per tutto questo tempo, in ogni frangente?-
-Bhe non direi proprio spiato, insomma tu non mi vedevi e io giravo per le stanze.- Ridacchiò guardandomi di sottecchi. Era basso di una spanna rispetto a me ed era smilzo e aveva un bel colorito per essere morto. Dalla corporatura e dal fisico poteva sembrare un adolescente diciasettenne ma il viso e le espressioni da adulto tradivano l’aspetto generale. –Quanti anni hai, o… quanti ne avevi…ehm l’ultima volta?-
-Tranquillo Simon, non mi fa male parlare della mia morte o ricordarmi che sono solo un’anima che vaga nel Limbo.- Sorrise per conforto e aggiunse: -ho diciannove anni.-
-Così giovane?- pensai a come potesse essere morto così giovane, forse un incidente o una malattia. Per quanto fui tentato di chiederglielo non lo feci, per paura di sembrare indelicato.
-Mi pensavi più vecchio?- Chiese fingendosi offeso.
Mi lasciai sfuggire un sorriso e appoggiandomi al piano cottura gli chiesi cosa ci facesse ancora qui sulla terra, perché non era passato oltre, troppo presto prima di rendermi conto che non era una domanda che non avrei dovuto fargli.

-Io…veramente non lo so, cioè è stata una cosa così improvvisa, che non me ne sono neanche accorto.-   Ormai era troppo tardi per ritirarsi e prima o poi avremmo dovuto affrontare quel discorso. –Me ne vuoi parlare?- Lui annuì e mi fece gesto di seguirlo in salotto, lì mi sedetti in una poltrona e iniziò a raccontarmi.
-Veramente alla fine non c’è molto da raccontare, abitavo qui con la mia famiglia. Un giorno andai nel capanno degli attrezzi per cercare la forca per raccogliere il grano che c’era nel campo qui accanto; serviva per mio padre che faceva il contadino, e improvvisamente si fece tutto nero. È successo tutto così velocemente, tutto così improvviso.-
-E come hai capito che eri morto?-
-Quando sono tornato dal bosco, sono tornato a casa e mamma e papà non mi vedevano più, neanche i miei fratelli, Joshua e Steve. All’inizio pensavo che fosse uno scherzo di pessimo gusto ma quando li vidi tutti fare i bagagli e trasferirsi abbandonandomi lì, capii che qualcosa non andava. Poi non serve un genio a capire che se passo attraverso a qualsiasi cosa e qualsiasi cosa passa attraverso me ero morto.-
-Ma come facevi ad essere nel capanno degli attrezzi e poi tornare dal bosco?-
-Non lo so, presumo di essermi addormentato nel bosco e aver sognato che andavo nel capanno a prendere quello che serviva a…-
-Ma non ti pare strano?-
-Qui è sempre stato tutto strano.- Sorrise e si rilassò –Comunque ormai non è più importante.-
-Ma forse è proprio perché non sai come sei morto che non sei passato oltre.-
-Bhe se è per questo non m’importa neanche di passare oltre.-
-Perché?- chiesi stupito
-Perché non so cosa c’è oltre, e se ci fosse il nulla? Se mi annullassi completamente come se non fossi mai esistito? No grazie, almeno qui nella “via di mezzo” posso parlare con te, insomma non capita a tutti i fantasmi di avere una compagnia.-
Continuavo a pensare che tutto quello che stava dicendo non aveva senso ed ero troppo stanco per ribattere o per proseguire qualsiasi discussione anche se si trattava di una cosa importante.
-Dai sei stanco, perché non andiamo a dormire.-
-è un ottima idea.- dissi mentre stavo per cedere alla stanchezza: -Vai pure su che io ti raggiungo.- E mi addormentai come un sasso senza neanche rendermene conto.
 

Il giorno dopo mi svegliai sulla poltrona in salotto con una coperta a scacchi verde che mi ero portato da Londra. Mi alzai stiracchiandomi e mi resi conto di essere ancora vestito. Vince mi guardava dalla cucina: -Dormito bene?-
-Si- mentii –avresti potuto svegliarmi.-
-Ma eri tanto stanco, non volevo disturbarti.-
-Non mi hai neanche svegliato quel giorno che stavo facendo tardi al lavoro.-
-Non ero in casa.- Si giustificò e chiedendogli dove fosse mi rispose: -La mattina mi faccio sempre una passeggiata nel bosco, sai le cose che faccio abitualmente per non annoiarmi.

Ti ricordi quella cosa che ti avevo chiesto ieri?-  
-Cosa?- Lo raggiunsi in cucina per farmi un tè.
-Esci ancora con Evelyn Boughman?-
-Perché me lo continui a chiedere? Sei per caso geloso?- Scherzai e mi diedi dell’idiota, non riuscendo a spiegarmi come potevano venirmi in mente certe stronzate.
-No, era così, tanto per sapere.- Si era indispettito forse, anche se non lo stavo guardando perché ero intento a farmi il tè, notai nella sua voce una sfumatura di fastidio.-
-Bhe lei si è trasferita a Londra e non penso tornerà più qui, e poi tra noi non avrebbe potuto funzionare.- Altra stronzata, adoravo quella ragazza e avrei preferito di cuore che lei restasse a Belfast e magari avremmo potuto metterci insieme. –Comunque adesso ho troppe cose a cui pensare e da fare, non ho tempo per una relazione.- Dissi più a me stesso che a Vince e quella frase mi fece ricordare che dovevo ancora far visita alle famiglie Ellers e Orson, ma guardando Vince mi convinsi a prendermi un po’ di meritato riposo e rimandai al week end successivo.

Nel corso dell’ultima settimana di lavoro il capo mi affidò sempre meno cartelle finché un giorno mi affidò un vero incarico e la sera passai da mini market per comprare delle birre per festeggiare a casa, solo quando arrivai alla porta mi ricordai che Vince non avrebbe potuto bere con me, e mi diedi ancora una volta dell’idiota. Non feci neanche in tempo ad entrare e poggiare le birre sul tavolino nell’atrio che mi sentii sorprendere da una voce alle spalle: -Ehi amico hai preso le birre? Allora festeggiamo la tua promozione?- Era Martin con uno dei suoi soliti sorrisi carismatici da “spogliati e scopiamo”. Mi inquietai dal mio stesso pensiero ma me ne dimenticai quasi subito quando vidi Vince passare come se niente fosse con le mani in tasca e mi disse quasi subito con aria annoiata (probabilmente seccato di avere ospiti di sera)
-Tranquillo lui non può vedermi.- E mi ripromisi che quando Martin se ne fosse andato avrei chiesto a Vince perché solo io potevo vederlo.
Io e Martin rimanemmo seduti sul divano a parlare degli interessi del tempo libero, del lavoro e del nostro passato e a bere birra.
-Bhe avevi ragione Simon! Qui non c’è l’ombra di fantasmi.-

-Perché i fantasmi non hanno l’ombra!- Risposi io scoppiando a ridere sentendomi alle spalle lo sguardo accusatore di Vince, anche se capiva che era uno scherzo.
Anche Martin rise e poi sorrise di nuovo in quella maniera seducente avvicinandosi. Io ero talmente brillo che non mi resi subito conto delle sue intenzioni e senza accorgermene ci stavamo baciando. Mi lasciai andare senza farmi troppe domande o supposizioni, e mi abbandonai completamente a lui, lasciando che il bacio si facesse più profondo ed esplorativo. Cominciò a toccarmi e in quel momento non riuscivo a pensare ad altro che a quel sorriso, e a quello che ne avrebbe seguito. Mi sbottonò la camicia, mentre io gli slacciavo e sfilavo la cravatta. Mi spinse sotto di lui e continuammo a baciarci sdraiandoci su quel divano che riscoprii assai comodo per quel genere di cose. Mi abbandonai totalmente a quell’aura di seduzione alla quale nessuno avrebbe saputo dire di no. Anche se sapevo quello che al lavoro i colleghi dicevano di Martin e che probabilmente era tutto vero in quel momento non mi importava più nulla e volevo solo farmelo e soddisfare il fisico. Stavamo pomiciando quando sentii la sua voglia farsi più intensa e mentre gli percorrevo gli addominali e il torace con le mani toccando quel fisico ben piazzato.

Poi lentamente sentii una sensazione sgradevole, come un senso di gelosia, rabbia e odio mischiati insieme, come se avessi avuto un peso che mi schiacciava e mi soffocava. Martin vedendomi pallido e affannato pensò che mi sentissi male e si spostò chiedendomi se stavo bene. La sensazione sgradevole per un attimo passò e tornai a guardare Martin con desiderio e lui accarezzandomi una guancia si chinò a baciarmi il collo e a mordermelo sensualmente facendomi eccitare e come se non bastasse con l’altra mano mi accarezzava il cavallo dei pantaloni, strappandomi un sospiro di piacere. Per un attimo chiusi gli occhi rilassandomi ma poi tornò quella sensazione e improvvisamente sentimmo un vaso cadere in un'altra stanza ed entrambi sentimmo quell’ondata di odio indistinto. –Ci sono i ladri?- Sussurrò Martin agitato. –No è solo il mio gatto.- Ripresi a baciarlo con più passione, toccandolo intorno al bacino.
Sapevo che quello che faceva casino era Vince e non  capivo perché, ma non volevo dargli importanza, ora c’era solo Martin nel mio campo visivo.
Una corsa di piedi che sbattono sulle assi del parchè al piano di sopra e Martin scattò letteralmente in piedi dalla paura: -Cazzo Simon, quello che cos’era?-
-Io non ho sentito niente.- mentii.

Un altro rumore, stavolta una porta che sbatte seguito da un lungo minuto di silenzio, poi improvvisamente le bottiglie di birra cominciarono a cadere, una alla volta dal tavolino. Era come se stavolta Vince si fosse reso invisibile apposta anche ai miei occhi. Martin era terrorizzato e cominciò a rivestirsi di fretta. –C-ci vediamo do-domani al lavoro Simon!- E si lanciò letteralmente alla porta scappando nella notte.
Guardai Vince camminare verso la porta e rimanerci appoggiato guardando Martin che fuggiva terrorizzato, come se avesse scortato un ospite alla porta, per poi richiuderla.
Tutta la rabbia se n’era andata come se fosse uscita come una nube soffocante fuori dalla porta nella fredda notte, e ora rimaneva solo la tristezza e un senso di vergogna sia nel suo cuore che nel mio, come se fossero collegati. Non gli avrei chiesto “perché l’hai fatto?” perché in fondo lo sapevo, e non mi avrebbe risposto comunque.
Mi sistemai la camicia e cominciai a pulire per terra senza dir nulla. In realtà non c’erano bisogno di parole. Lui rimase a fissare la porta chiusa senza dir niente e senza mai guardarmi negli occhi, per paura di trovarmi arrabbiato.

Quando ebbi sistemato tutto, feci per andare a letto ma mi fermai sulle scale. –Vieni a letto Vince?- e anche se era voltato di spalle capii che stava piangendo silenziosamente. In quel momento provai una voglia immensa di abbracciarlo e chiedergli scusa, dicendogli che sarebbe andato tutto bene, ma non potevo toccarlo, non avrei potuto fare nulla.

Ma mi avvicinai comunque, fino ad arrivargli vicinissimo. Lui si voltò piano e incrociai i suoi occhi grigi, così belli, lucidi, tormentati e tristi. -Perché solo io posso vederti e sentirti? Perché sento le tue emozioni così forti? Le sento come se fossi io a provarle…-
Rimase a guardarmi dritto negli occhi, come a cercare la risposta in essi e dopo un lungo minuto rispose solo: -Mi dispiace, ma non so risponderti, ma non dipende ne da me, ne da te questa cosa. È una delle tante cose al mondo che nascono perché l’uomo ci trovi una risposta.- Non capii subito cosa voleva dire quella affermazione e vedendomi confuso aggiunse: -Posso mostrarti una cosa?-

Annuii e lo seguii fuori dalla casa, in piena notte nel bosco. Percorremmo un sentiero sterrato poi svoltò dirigendosi in una zona più fitta di boscaglia. Ad un tratto di fermò e si mise a guardare il fondo di un burrone. Fermandomi al suo fianco capii perché mi aveva portato lì. La luna piena illuminava parzialmente il fondo del burrone ma anche se non vedevo chiaramente quello che avrei dovuto vedere sapevo che lei era là: la piccola Anita.
-Vengo qui tutte le mattine a tenerle compagnia.- Disse Vince guardando il fondo con un lieve sorriso. -Tu la puoi vedere?- domandai stupito -Lei è qui?-
-Si è laggiù- e indicò un punto nel vuoto, in fondo al burrone ma non vidi nulla. Un brivido mi scorse lungo la schiena.
-è laggiù da quasi vent’anni e non fa altro che parlarmi di suo fratello Richard, mi chiede quando tornerà a prenderla e io gli rispondo che tornerà presto.   Per i noi trapassati il tempo passa uguale e che passi un anno o un giorno, noi non ce ne accorgiamo.-
-Che aspetto ha lei?-
-Oh, è una bambina tanto carina, ha lunghi capelli rossi raccolti in due codine, è felice quando scendo con lei laggiù a giocare, è una bambina che sorride tanto nonostante la sua condizione, non è consapevole di essere morta.-
-Lei non può tornare su da sola o non la puoi portare tu su?-
-Non si muoverebbe comunque, è come se quella terra fosse la sua casa e il suo giaciglio, e infatti è dove riposano le sue ossa. Non mi seguirebbe, lei può essere liberata solo da suo fratello, è il suo legame speciale.-
-Quindi se io portassi qui suo fratello e se lui riuscisse a vederla e a confessargli cosa successe lei potrebbe finalmente passare oltre?-
-Lo faresti veramente?-
-Certo. Te lo prometto.- Vince era pieno di gioia finalmente: -Grazie.-
Ci fu un attimo di silenzio e guardammo entrambi nel buio fossato salutando con un muto cenno Anita Ellers prima di tornare a casa a dormire.
 
 
Il giorno dopo in ufficio Martin passò come se non mi avesse riconosciuto e ignorandomi si sedette alla sua postazione senza rivolgermi mai più la parola.
La giornata passò velocemente e uscì due ore prima dall’ufficio per andare a cercare gli Ellers. Mi sarei fermato dopo dagli Orson, anche se ormai mi fidavo completamente di Vince e non avevo veramente bisogno di una conferma.

Trovai Morgan e Kate Ellers in un appartamento a pochi metri dal sobborgo delle case popolari.
Morgan era un uomo quasi sulla sessantina con i capelli completamente grigi e parzialmente calvo ed era un po’ burbero mentre Kate, la moglie era una dolce signora di cinquant’anni, che mi ospitò senza indugi, offrendomi del tè.
-Cosa le serve? Perché è qui?- Mi chiese rudemente il marito. Pensai che sarebbe stato inutile mentire fingendomi un giornalista, pidocchioso, tuttalpiù mi avrebbero cacciato più in fretta.
-Mi chiamo Simon Manray e abito al BT13 di Willow Street, a Castelreagh.- Subito i due coniugi si rabbuiarono. –Scusate il disturbo ma volevo chiedervi cos’è successo quel giorno? So che non sono nessuno per venire fin qui a rivangare il passato tanto doloroso ma è veramente importante sapere per me cosa successe…-
-Oh levati dai piedi ragazzo prima che ti cacci io a pedate…-
-Smettila Morgan!- Lo ammonì la moglie, che sembrava quella più turbata e stranamente il marito si zittì, Kate lo mandò fuori a comprarle le sigarette e quando lui uscì brontolando qualcosa sottovoce la moglie si tranquillizzò per un momento.

-Richard e Anny erano tutto il mio mondo e la mia gioia, i miei bambini felici, che si rincorrevano sul prato, li ammonivo di non allontanarsi mai troppo, sa io ero molto malata in quegli anni e non potevo uscire di casa e quelle due pesti si allontanavano sempre di più. Mio marito lavorava tutto il giorno e non c’era nessuno quando sono scomparsi nel bosco.- Fu colta come da una fitta lieve al cuore e io gli domandai allarmato se stesse bene, lei mi rassicurò e continuò a raccontare.
-Ricordo ancora la piccola Anny quando uscì di casa con il berretto e i guanti colorati che gli aveva comprato il papà lo stesso giorno che scomparve.- Mi addolorò vedere quella donna soffrire così tanto per la perdita della figlia senza potergli dire che sua figlia era là in quel burrone ad aspettare suo fratello.
Aspettai pazientemente che riprendesse a parlare.

-Richard tornò solo lui, dopo un mese, con i vestiti sporchi e laceri, il suo sguardo non era più lo stesso, non parlava più. Mi tormentai per mesi anche dopo che ci rassegnammo di cercare Anita, quando ci trasferimmo qui, a portare Richard da tutti gli psicologi del paese, ma nessuno riusciva a farlo parlare, dicevano che era stato lo shock. E non capimmo mai cosa successe ai nostri figli.-

Scoppiò a piangere e poi mi implorò tra le lacrime se potevo indagare, se potevo aiutarli a scoprire cos’era successo. Ero sul punto di dirgli tutto quel che sapevo ma mi trattenni, perché non mi avrebbero creduto. –Signora voglio andare in fondo a questa faccenda ma dovrei incontrare Richard, mi può dare il suo indirizzo?- La madre angosciata e con gli occhi rossi dal pianto mi disse che Richard dopo quella volta aveva tentato più di una volta a suicidarsi e hanno dovuto mandarlo in un ospedale psichiatrico. Provando un immensa pietà per quella famiglia, promisi ancora una volta a Kate che li avrei aiutati e me ne andai passando per Mainbrook Street trovai l’indirizzo degli Orson e mi fermai anche da loro. Ora avevano due figli svegli, un maschio e una femmina. Erano più sollevati degli Ellers e anche se si rattristarono per gli eventi di Castelreagh mi diedero la conferma della versione di Vince e fui immensamente sollevato di sentirmelo dire.
Quando parlai con il medico che teneva in cura Richard Ellers mi dissero che era stato trasferito per un breve periodo in un altro ospedale, ma nel giro di una settimana e mezza l’avrebbero riportato lì.

Tornai a casa giusto per l’orario di cena e invece di mangiare fuori feci la spesa al minimarket per cucinare qualcosa a casa e stare in compagnia con Vince.
Da quando l’avevo visto e avevo preso coscienza di vivere con un fantasma, le cose si erano trasformate e avevano cambiato completamente prospettive. E non era deprimente, anzi tutto il contrario. Mi riempiva le serate di gioia e di compagnia. Condividevamo lo stesso letto, lo stesso salotto e la stessa cucina e persino lo stesso bagno. Proprio come due inquilini.

Mi stava sempre intorno anche (e soprattutto) quando dovevo preparare qualcosa in cucina e dato che lo spazio tra bancone e piano cottura era stretto capitava che ci incrociavamo o ci “scontravamo” ma nessuno si faceva male dato che lui mi passava attraverso, e sbrogliavamo facilmente l’imbarazzo del momento con l’ironia della situazione.

Ci sdraiammo sul letto uno a fianco all’altro, come tutte le sere e li chiesi: -Perché l’energia di cui sei fatto ti permette di toccare, afferrare e spostare gli oggetti di qualsiasi materiale ma mi passi attraverso?- E come per confermarlo cercai di accarezzargli una mano ma appena la sfiorai si dissolse come un riflesso di luce. –è ingiusto.-
-Lo so, è tremendamente ingiusto ma non ci possiamo fare niente. Però se ti fa piacere saperlo, quando mi sfiori o cerchi di toccarmi, come adesso, sento il calore che emana il tuo corpo, ed è una bellissima sensazione.- Sorrisi un po’ confortato e lo guardai intensamente negli occhi. Volevo stringerlo, baciarlo, fare l’amore con lui ma non avrei mai potuto, non avrei mai potuto amarlo completamente, e accarezzavo quella luce impalpabile con quell’amara consapevolezza che mi riempiva di tristezza e con la certezza che almeno in quella specie di contatto lo facevo stare bene.
 
Erano passati ormai due mesi dalla mia trasferta lì a Belfast e ne erano successe di cose.
Avevo conosciuto una ragazza con la quale sarei potuto finire a stare insieme, ho avuto la certezza di aver comprato una casa infestata, e fatto amicizia con il fantasma che la abita, mi sono quasi fatto fregare da un mio collega di lavoro, con cui ho quasi fatto sesso e ora, come se non avessi già abbastanza sfiorato l’assurdo, mi sono innamorato di Vince, il fantasma.

Per il resto della settimana e mezza che aspettai il trasferimento di Richard, cercai notizie sulla vita di Vince, per capire la sua morte, e il motivo per cui era bloccato sulla terra.

Raccolsi notizie della famiglia Millow, dalla biblioteca, al comune, a setacciare ogni bar e ogni famiglia che li conosceva per sapere che fine aveva fatto ora.
In biblioteca, oltre a dei vecchi libri che parlavano di spettri e spiriti sospesi tra la vita e la morte, (e che prontamente raccolsi per portarmeli a casa e leggermeli con calma) trovai i vecchi giornali con interi articoli che parlavano di Joshua Millow, il fratello maggiore. Era un teppista non da poco, lo si conosceva soprattutto con la fama di piromane in città.

Un articolo gli attribuiva la colpa di un incendio nel campo del padre e uno in una fabbrica dove lavorava il fratello minore: Vince.
Cerchiai con il pennarello quella notizia, non dovevo lasciarmi sfuggire nulla, neanche il più piccolo dettaglio. Mentre sfogliavo i vecchi giornali del 78’ all’improvviso mi bloccai a guardare una foto che ritraeva Vince, preso senza che lui se ne accorgesse. Aveva un volto scarno e trascurato, i capelli neri e scarmigliati gli scendevano quasi fino sulle spalle, e gli occhi grigi guardavano pieni di rancore un punto in lontananza. Con quell’aria quasi disperata sembrava che fosse combattuto e intrappolato, un’espressione che di certo non gli avevo mai visto.

Passai oltre e tra gli annuari che avevo raccolto in comune avevo fotografato con il mio cellulare una foto di tutte le famiglie del quartiere di Willow Street. Si conoscevano tutti abbastanza bene e scoprii che i coniugi Turner vivevano in Willow Street da più tempo, quelli che conoscevano meglio di tutti i Millow. Più tardi sarei andato cercarli.
Mi soffermai a guardare tutti i loro volti, uno per uno, per cercare un indizio, qualcosa che mi avrebbe aiutato a capire come era successo. Ero assolutamente sicuro che fosse omicidio, non poteva essere stato un incidente da come l’aveva raccontato Vince, anche se non c’era da escludere quella possibilità. Guardai il padre e la madre di Vince e i suoi fratelli: Joshua e Steven. Poteva essere chiunque di loro, o chiunque di quel quartiere. Magari Vince si era fatto dei nemici anche se lo ritenevo improbabile perché cosa può aver mai fatto quel ragazzo così sensibile e protettivo da farsi uccidere?
 

I coniugi Turner abitavano in una piccola casa bianca a pochi passi dalla vecchia proprietà dei Millow, con un grande giardino sul retro, molto curato, in stile inglese. Un uomo anziano stava piegato a potare le rose sotto il davanzale delle finestre. Mi avvicinai attirando la sua attenzione:
-Il signor Jacob Turner?-
-Si, chi mi cerca?- Si alzò e si voltò a guardarmi, mentre io gli porgevo una mano per stringergliela.
-Buongiorno sono il nuovo vicino, Simon Manray.-
-Oh Buongiorno! Scusi se non le stringo la mano ma ho i guanti da giardino piene di spine, bisogna pur potarle queste belle rose se si vuole che continuino a rifiorire ogni anno. Ma venga venga, entri pure e si faccia offrire un tè da mia moglie…-
Betty Turner era una vecchietta arzilla e tutta pettegolezzi, era molto amichevole e mi preparò subito un tè alla rosa canina accompagnato da un ricco servizio di biscotti fatti in casa. Li accettai di buon grado e mi trovai a mio agio in quella bella casa luminosa ad ascoltare Betty.
-Signora Turner…-
-Oh ragazzo,  chiamami pure Betty.-
-Si, Betty, volevo chiederle… ecco… Da quando mi sono trasferito al BT13 ho sentito più di una persona dirmi che la casa che andavo ad abitare era stregata, o cose del genere. Sa che famiglia abitava in origine quella casa?-
-Oh ho visto un paio di famiglie trasferirsi lì negli ultimi 19 anni, e tutte sono state colpite da una disgrazia familiare. Da lì si è sempre pensato che la casa fosse maledetta.-
-Ho saputo degli Orson e degli Ellers.-
-Già che brutta storia, hanno entrambi perso i propri figli. – Sospirò. –Anche la prima famiglia che venne ad abitare lì negli anni 70’ perse un figlio.-
-Mi racconti, la prego.-

-Bhe ragazzo, devi sapere che questa cittadina non vide i suoi anni migliori di quei tempi. C’era una brutta crisi economica e bisognava cavarsela con quel che si aveva. Jack Millow era il capofamiglia e lavorava i campi e i terreni qui intorno. Lui aveva la mentalità del vecchio contadino ed era anche un po’ burbero con tutti. Non tutti lo sapevano ma Jack beveva molto, i suoi stessi figli gli davano dell’ubriacone e si buscavano sempre delle botte. Rose, la moglie non diceva mai nulla, ne in pubblico, ne in privato, a quanto ne so, lei era come se non esistesse. Poi c’erano i figli: Joshua, Steven e Vince. Josh aveva lavorato in fabbrica per cinque anni ed era riuscito a racimolarsi i soldi per pagarsi l’università. Oh Josh era un anarchico, un rivoluzionario, ma riducendosi a frequentare brutte compagnie di città finì con il fare il teppista e il piromane. E nonostante quella doppia vita era sempre in prima fila per difendere i due fratelli minori, sia che avesse dovuto scontrarsi con il padre, sia che avesse dovuto scontrarsi con le autorità. Steven era un ragazzo tranquillo e faceva tutto quello che gli diceva il padre, lavorava sodo, nei campi e dava una mano in casa alla madre. E infine Vince, quello più timido e strano della famiglia, un ragazzino silenzioso e sempre sulle sue che ammirava tanto suo fratello maggiore, ed era sempre con lui e la sua compagnia di teppisti; ma era davvero un ragazzo buono, non avrebbe fatto del male ad una mosca.

Un giorno come un altro i Millow furono colpiti dalla tragedia: Vince il figlio minore, era scomparso. Si pensa che sia finito male con qualche strano incidente nella compagnia di teppisti di Josh. La famiglia non denunciò mai la sua scomparsa, come se sapessero… e un giorno partirono per Dublino forse, o a trasferirsi chissà in quale campagna irlandese.-
Ringraziai la signora Turner e salutai il marito, tornandomene a casa, decisi che avrei dovuto cominciare a chiedere qualcosa del suo passato a Vince.
 

-Ehi ti sei preso una giornata libera dal lavoro oggi, eppure non sei mai a casa, quand’è che ci lavori a quel progetto che ti ha affidato il tuo capo?-
Ricordandomi dell’incarico e lanciando una rapida occhiata sul calendario scoprendo che la scadenza non era molto lontana, decisi che dovevo assolutamente buttarmi avanti con il lavoro e rimandare quelle domande che mi assillavano sul passato di Vince.
Il giorno seguente mi arrivò la chiamata dall’ospedale di San Patrick, a Belfast dicendomi che avevano riportato lì Richard Ellers e uscii un ora prima dal lavoro per andare all’ospedale.
 
Il medico di Richard prima di farmi entrare nella camera imbottita, mi fece depositare qualsiasi oggetto contundente o pericoloso che avevo in tasca o in dosso in una scatola di plastica, per non introdurre nella stanza oggetti che il paziente avrebbe potuto usare per suicidarsi. Il dottore mi disse che non sarebbe stato possibile far parlare Richard, non aveva più parlato con nessuno dopo la scomparsa della sorellina.

Entrai e mi chiusero la porta alle spalle, così mi ritrovai nella cella imbottita, con Richard Ellers.

Richard era seduto sul suo letto e leggeva un libro. Benché si fosse accorto della mia presenza, non si voltò a guardarmi ma chiuse il libro infilandoci un segnalibro colorato.
-Ciao Richard, mi chiamo Simon e voglio aiutarti.- Poi pensai a quanti strizzacervelli erano venuti a dirgli quelle cose solo per studiarlo.-
-Sono venuto qui per una questione importante, io voglio tirarti fuori di qui però ho bisogno che tu mi aiuti.- Non sapevo se avesse reagito con qualche attacco da pazzo se gli avessi detto di Anita, quindi cercai di andarci piano.

-Richard io ho conosciuto un tuo amico di infanzia, e mi ha parlato lui di te.-
Richard si voltò verso di me, interessato ma guardava in basso facendo un espressione interrogativa –Ti ricordi di Vince? Forse tu non lo conoscevi con questo nome, è un ragazzo di diciannove anni, ma non è come gli altri, lui è speciale. Giocavi con lui e la tua sorellina quando abitavi a Castelreagh, ti ricordi?- Un lampo di terrore e consapevolezza gli attraversò gli occhi scuri e cominciò a tremare. –Scusami, Richard non volevo spaventarti, ma ho bisogno che tu mi ascolti.- Gli misi una coperta sulle spalle, delicatamente, sperando che non scattasse in qualche attacco d’ira o autolesionismo. –Richard, la piccola Anny ha bisogno di te.- Alzò lo sguardo guardandomi dritto negli occhi. Abbassai la voce per la paura che ci fosse qualche telecamera e mi avvicinai di più a lui. –Io so cos’è successo, sono l’unico che lo sa e stai tranquillo che non lo dirò a nessuno. È un segreto che sappiamo solo io e te, e adesso voglio che tu sia coraggioso e non abbia paura. Lo puoi fare?- Fece di no con la testa, si coprì le tempie e stava per piangere –Su, lo so che sei forte, non avere paura, io ti sono amico, io e Vince ti vogliamo aiutare a raggiungere Anita.-
E in quel momento cambiò improvvisamente espressione e si fece attento. –Ascoltami bene, Anita è morta, ma voglio che tu sappia che io so che non è stata colpa tua, capito? Non è stata assolutamente colpa tua, non devi sentirti in colpa, perché è stato un incidente.

Come un miracolo vidi che tentava di muovere le labbra per articolare una frase mentre le lacrime cominciavano a scorrergli sul viso ed emise un verso inarticolato, cercando di farsi capire e al secondo tentativo riuscì a parlare, sebbene con la voce roca: -è copa mea… è colpa mea…- singhiozzò coprendosi la faccia. Gli appoggiai una mano sulla spalla per rassicurarlo: -No Richard, non è stata colpa tua, è stato un incidente.- Ma lui continuava a piangere e ripetere: -Io do- dovevo protegger-a, ero respo responsabile di lei.-

-Ti posso dare una possibilità di vederla un altra volta. Vuoi vederla? Lei è ancora là che ti aspetta, aspetta che tu torni là a salvarla.-
-M-ma lei è morfta.- Poi gli occhi gli si riempirono di terrore, probabilmente ricordandosela con il collo spezzato in fondo al burrone. Stava per gridare quando lo fermai:
-No no no  Richard ascoltami, per favore, tu, devi credermi, Anita è morta, è vero, ma la sua anima, il suo fantasma è ancora là. So che tutto può sembrarti folle e irreale ma ti prego devi credermi. Vince, anche lui è un fantasma e la può vedere e mi ha portato in quel posto, dove è caduta: mi ha detto che lei era là, e tutti i giorni lei gli chiede quando tornerai a prenderla.-
-Ma quefta è una follia!-
-Lo so, lo so che lo può sembrare, ma ti ricordi quando da piccoli tu e Anny giocavate con Vince? Lo vedevate o lo sentivate?-
-Eravamo mofto piccoli, ma sentivamo la sua presenza, vedevamo che spoftava gli oggetti in casa e mentre la mamma ne era spaventata, noi ci divertifamo. Per noi era un po’come un amico immaginario, invisibile, che però dava dei segnali di risposta ogni tanto e lo chiamavamo “fantasmino”.- L’ombra di un sorriso gli comparve sul volto per un secondo. Rifletté per lunghi minuti e finalmente diede segno di credermi e di avermi capito: -Quindi il fantasma di lei è ancora là, bloccato?-
-Si, ho scoperto anch’io di recente, facendo una ricerca, che chi muore di morte improvvisa e non sa come è morto, o peggio non si rende conto di esserlo, la sua anima, il suo spirito o la sua energia come si vuol chiamare rimane nel limbo, tra la vita e la morte definitiva. Anita non sa di essere morta, lei ti sta aspettando e solo tu puoi liberare definitivamente la sua anima.-
-Quindi è come se dovessi salvarla??-
-Si, in un certo senso è proprio così.-
-Ma come farò a vederla o a comunicare con lei?
Poi pensando a Vince trovai la risposta per Richard: -Voi siete legati da un fortissimo legame, e se riuscirai a sentire la sua energia, il suo cuore che si connette al tuo, avrete finalmente trovato il modo di comunicare, e potrai vederla e sentirla.-
Proprio in quel momento suonò il campanello della fine della visita e raccomandai a Richard: -Non dire assolutamente nulla a nessuno per adesso, non parlare con nessuno ok? Neanche al tuo medico o psichiatra. Come se non fosse successo niente, intanto io troverò un modo per farti uscire di qui.-
Lo salutai e lui mi rispose con un cenno della testa fingendosi tranquillo quando mi aprirono la porta le infermiere per farmi uscire.
 
Appena fui a casa diedi la buona notizia a Vince e li chiesi un consiglio per come fare uscire Richard dall’ospedale. –Potresti eludere la sorveglianza di notte e farlo scappare.-
-Sai pensavo a qualcosa di legale.-
-Potresti convincere sua madre a firmare un documento di rilascio del paziente per riportarlo a casa.-
-è un ottima idea. Ma cosa le dico alla madre per convincerla a firmare? Non posso vuotare il sacco.-
-Raccontale una mezza verità, tipo… che sei riuscito a far parlare il figlio e vai  a trovarlo ogni tanto in ospedale per far mangiare la foglia anche ai dottori, così quando vedranno anche loro che le sue condizioni migliorano a poco a poco, non sospetteranno di niente e sarà più facile rilasciarlo.-
-Vince sei un genio! Grazie! Farò esattamente così, prima però voglio chiedere a Richard se gli va bene così e poi risolveremmo questa storia.-
Sorrisi soddisfatto, finalmente ero vicino a risolvere quella drammatica vicenda e avrei anche aiutato due persone a riconciliarsi. Mi sentivo bene e sembrava che il mio umore positivo contagiasse anche Vince che si sedette sul bracciolo della poltrona dove ero seduto.

Sentii la sua mano fresca e delicata come una lieve brezza accarezzarmi i capelli, e mi voltai a guardarlo. Ripensai a quello che avevo detto a Richard: “il fatto che puoi vedere o sentire uno spirito dipende da quanto è forte il legame che vi lega” e pensai al tipo di legame che avevo con Vince, non c’eravamo mai incontrati prima eppure come avevamo fatto a legarci così intensamente in così poco tempo?

Glielo dissi, mentre stavo con la testa appoggiata allo schienale della poltrona, piegata verso di lui mentre continuava ad accarezzarmi i capelli; e lui mi rispose che sono quei fatti inspiegabili, al quale l’uomo cerca da sempre risposta come l’amore e la morte.

Non mi bastò come risposta e sospirai triste mentre gli appoggiavo una mano su una gamba, e tenendo la mano sospesa sulla superfice della sua materia, sentii come un flusso di energia che tendeva una lieve resistenza e per un attimo riuscii a tenere veramente la mano appoggiata sulla sua gamba, e sentendo quell’energia, anche se per poco tempo mi sentii meglio e mi tornò il sorriso.
 
Nei giorni seguenti tornai da Richard e li parlai del piano. Lui era d’accordo e ci accordammo che per una settimana e mezza avremmo fatto come dicevamo.
Richard mostrava un miglioramento con le visite dello psichiatra, mentre io andai a parlare con sua madre. Inutile dire che la donna era al settimo cielo e subito non ci credeva, tanto che andò subito a far visita a Richard in ospedale.
Richard invece era impaziente di uscire e di vedere la piccola Anita, un ultima volta e dirle addio.
 

Fui così preso da Richard e Anita che quasi mi dimenticai del progetto di lavoro del quale ero tremendamente in ritardo e per un intero week end lavorai anche di notte per finirlo in tempo.
In quel modo lì però trascurai le domande che volevo porre a Vince sul suo passato e l’indagine che stavo tenendo parallela a tutto il resto per rintracciare la sua famiglia in Irlanda, sperando di trovare ancora qualcuno.
 
 
Finalmente trovai l’occasione di parlare con Vince, una sera.
-Com’erano i tuoi fratelli con te?-
-Come mai queste domande?- mi chiese dal bracciolo della poltrona dove stava appollaiato tutte le sere.
-Così, sono curioso di sapere del tuo passato.- Mentii
-Riguarda la mia morte vero?-
-Beh non necessariamente…-   Lui sorrise arrendendosi e rispose tranquillo:

-A dire la verità non sopportavo mio padre, era un vecchio ubriacone, grezzo e volgare; un ignorante, privo di comprensione. A mia madre le volevo bene nonostante non ci difendeva mai da nostro padre e ubriaco come una spugna ci picchiava, a me e i miei fratelli. Però Josh, mi proteggeva sempre, in qualunque occasione. Lui era un grande, aveva il coraggio di andare contro corrente: quando tutti i ragazzi della sua età andavano tutti a lavorare in fabbrica con i genitori, lui si è impuntato contro mio padre e ha deciso di andare a studiare. Non come Steven, l’altro mio fratello scemo, lui faceva tutto quello che gli diceva mio padre, e se a mio padre gli girava di picchiarlo perché era ubriaco, Steven si faceva picchiare. Per me era un vigliacco, ma gli volevo bene lo stesso.-
-Stavi con tuo fratello maggiore in compagnia?-

-A dire il vero non spesso, perché lui era impegnato con i suoi studi e le sue piccole rivoluzioni anarchiche contro il mondo. Io ero più per la pace, e me ne stavo intere giornate per i campi e i boschi a dormire e quando tornavo a casa le prendevo sempre dal vecchio ubriaco che mi dava del fannullone perché non lo aiutavo mai a lavorare nei campi come avrebbe voluto e alla fine mi costrinse ad andare a lavorare in fabbrica, perché c’era bisogno dei soldi per mangiare.
Però le poche volte che c’era a casa mio fratello Josh, uscivo con i suoi amici e fu proprio conoscendo uno dei suoi amici che scoprii di essere gay.
Ovviamente, lo tenevo nascosto bene e non lo dissi a nessuno per paura di essere giudicato.-
-Neanche Josh lo sapeva?-
-No, neanche lui. Sai a quei tempi era pericoloso che una cosa del genere venisse alla luce del sole.-    
 -E non è che magari l’amico di tuo fratello con  cui stavi insieme gliel’abbia detto?-
-Dove vuoi andare a parare?-

In realtà quello che intuivo in base ai fatti che conoscevo era che suo fratello Josh avesse già tentato di ucciderlo dando fuoco alla fabbrica dove Vince lavorava, forse perché era venuto a sapere proprio dal suo amico che si faceva con Vince che stavano insieme e magari con quella mania di appiccare incendi, avesse perso la testa e non riuscendoci la prima volta nella fabbrica l’ha colpito a casa, nel capanno degli attrezzi…
-Ehi, Simon a cosa stai pensando?-
-E se fosse stato qualcuno a cui rodeva in fatto che a te piacevano gli uomini a ucciderti?-
-No, è impossibile, dato che nessuno lo sapeva…-
-Ma magari Josh…-
-Cosa stai insinuando Simon?! Che mio fratello è coinvolto nel mio omicidio? Bhe non azzardarti nemmeno a pensarlo, tu non hai idea del bene che mi voleva e di tutte le volte che mi difendeva contro mio padre.-
-Si ma l’hai detto tu stesso che  era spesso via da casa per gli studi.-
Vince era rosso dalla collera e si era alzato in piedi furioso, e avevo sentito quasi immediatamente quella freccia d’odio colpirmi dritto nel cuore. –Non parlare mai più così di lui. Tu non lo conoscevi.- E si dissolse, come se se ne fosse andato lontano a sfogare la sua rabbia.

Mi dispiaceva di aver ferito i suoi sentimenti e finché non avevo prove non avrei potuto dirlo con certezza, ma Josh Millow centrava per forza con tutto questo e se Vince non voleva sentir ragione sarei andato a cercalo in capo al mondo quel tizio per portarlo davanti a Vince e costringerlo a dire la verità.
Poi pensai a quanto si sarebbe sentito tradito e ferito Vince se così avessi fatto, e aveva già sofferto abbastanza, che avrei potuto risparmiarglielo e lasciare le cose come stavano, senza far nulla.
Mi presi la testa  tra le mani.
“Cosa devo fare!?” 
 
 
 
 
Finalmente all’ospedale di San Patrick rilasciarono Richard che dovette stare ancora qualche giorno con la madre prima di venire a Castelreagh e i genitori lo accolsero felici trovandolo quasi completamente guarito. Kate Ellers mi ringraziò infinite volte e volle persino darmi una ricompensa ma rifiutai.
Avevo fatto pace con Vince, gli avevo chiesto scusa e gli dissi quanto mi dispiaceva e lui mi perdonò quasi subito. Ciononostante non smisi di cercare la sua famiglia in Irlanda.
 

Richard venne da me un giorno dell’inizio del nuovo mese. Era in uno stato di frenetica agitazione.
Rivedere quella casa però gli fece cambiare idea.

-No, non credo di potercela fare, io l’ho abbandonata lì, per tutto questo tempo. Non posso affrontarla… io non ce la faccio…-
Lo feci entrare in casa e gli offrii un bicchiere d’acqua dandogli una pacca sulla spalla: -Proprio per questo devi andare là da lei, glielo devi.-
Vince intanto continuava a girare intorno a Richard, guardandolo: -Quanto sei cresciuto in questi anni.-

Ma lui non poteva sentirlo ne vederlo, ciononostante Vince continuò a parlargli: -Che ti è successo Rick? Una volta eri così coraggioso. Ti ricordi della dolce Anny, come ti chiamava?- Vince mi guardò pregandomi di dirglielo e glielo dissi.
-Lei mi chiamava, “il mio eroe”.-
-Esatto. Tu sei il suo eroe, lo sei sempre stato ai suoi occhi e anche se sono passati vent’anni: lo sei ancora adesso.-
Si fece forza e si convinse: -Andiamoci adesso, voglio vederla subito.-
Così tutti e tre andammo nel bosco e ripercorremmo quella stradina sterrata per poi finire dove si apriva quella profonda fossa nella terra. Ogni passo che Richard faceva era come un passo verso l’incubo del suo passato e quando fu davanti al burrone sussultò.

Un leggero vento saliva dal fondo del bosco e si infilava tra le fronde quasi spoglie degli alberi facendole frusciare come il suono lontano delle onde del mare.
Rimanemmo a guardare in fondo al burrone e sebbene fosse giorno non si vedeva altro che i verdi arbusti, l’erba frusciante e verde e improvvisamente un pezzo di tessuto fece capolino dai cespugli. Una sciarpa, di cui le frange svolazzavano debolmente come intrappolate tra quei rami di biancospino laggiù.
Richard si lanciò senza darmi il tempo di fermarlo e si calò lungo i ripidi fianchi della gola erbosa e raggiunto il fondo si inginocchio e scostò i cespugli che in quegli anni erano cresciuti nascondendo il corpo della piccola Anita; e ora non rimanevano altro che bianche e piccole ossa. I vestiti che indossava non si erano disintegrati del tutto. La sciarpa, i guanti e il berretto, sporchi di fango e terra erano quasi intatti.
Vince sospirò e disse –Finalmente ci siamo.-

Quello che non potevo vedere Vince me lo raccontò.
Il fantasma di Anny era tornato e guardava il fratello chino sulle sue ossa che piangeva.
–Ricky perché piangi?-  Lui alzò gli occhi straziati dal pianto e la fissò a lungo come se fosse una visione celestiale. –Anny, piccola mia, scusami, ti prego perdonami.- La bambina che finora non si era mai accorta del suo cadavere vedendo il suo scheletro inorridì e indietreggiò di un passo. –Cosa vuol dire tutto questo Ricky!? E perché tu sei diventato grande? Cos’è successo?-
-Anny, ascoltami per favore.- tentò di afferrarle le mani ma affondarono nel raggio di luce di cui erano fatte quelle di lei. –E questo che significa??-
-Piccola sorellina, guardami, guardami negli occhi, guarda solo me adesso.-
La bambina eseguì l’ordine puntando i suoi occhi spaventati in quelli di suo fratello.

-Ti ricordi quando venivamo  qui a giocare, con il fantasmino, eh? Ti ricordi di lui piccola?-
Lei annui guardando in alto, di fianco a me, Vince. Poi riportò l’attenzione su Richard.
-Ti ricordi quel giorno che papà tornò a casa con questi bei guanti e questa sciarpa nuovi di zecca, per te?- Le mostrò i guanti che aveva preso prima dai suoi resti.
-Si, eravamo così felici.-
-Si, tu soprattutto, eri molto felice, e saltavi e correvi dappertutto…-
-Dicendo che con quei nuovi guanti magici e la bella sciarpa magica non mi sarei più ammalata come la mamma.-
-E venimmo qui a giocare, sul bordo del burrone.-
-Tu correvi velocissima davanti a me e io ti dicevo di stare attenta. Tu allora ti girai indietro e mi feci la linguaccia senza smettere di correre…-
La piccola si coprì la bocca, aperta di stupore, con le mani, guardando davanti a sé e rivivendo il ricordo di come era morta. Continuò a correre ma all’improvviso non c’era più la terra sotto i piedi, ma il vuoto; si voltò appena in tempo per vedere il volto di suo fratello in preda al terrore e alla consapevolezza, mentre lei cadeva, risucchiata in quella terra. Infine un dolore atroce che durò meno di un secondo e poi tutto scomparve.

Ci fu un lungo silenzio e Anita riportò l’attenzione sul fratello, inginocchiato ai suoi piedi, con la testa china: -Ti prego, perdonami Anita, non sono riuscito a salvarti, non sono il tuo eroe… sono un inutile codardo.- La piccola gli accarezzò il viso, delicatamente e lo fece alzare verso di lei.
-Mi stai salvando adesso Ricky, non è mai troppo tardi.- Guardò per un attimo verso il cielo azzurro, che era stato sempre così lontano, coperto dalle fronde degli alberi, nascondendolo e facendolo sembrare irraggiungibile. –Tu mi hai mostrato la via della luce, con la verità. Richard, non è mai stata tua la colpa. È stato un incidente. Promettimi che continuerai a vivere la tua vita senza sentirti in colpa. Promettimelo Ricky.- E così dicendo alzò il mignolo per stringere il patto.
Richard, alzò il suo mignolo stringendolo a quello di Anita e le dita si intrecciarono come se fosse un vero contatto umano. Poi Anita si staccò dal suolo e il suo corpo leggero cominciò ad ascendere verso il cielo verso quella luce che descrisse e che tutti noi per un attimo brevissimo vedemmo. Si fece trasparente finché non si dissolse nell’aria regalando un ultimo sorriso a Richard.

Quel momento straordinario ci segnò tutti come se ognuno di noi l’avesse vissuto.
Richard portò con sé i guanti e la sciarpa e disse che sarebbe tornato dai suoi genitori raccontandogli tutto e non gli importava più se loro lo avrebbero odiato, o avrebbero continuato ad amarlo nonostante tutto. Disse che la cosa che più desiderava l’aveva appena avuta: rivedere Anita, e nient’altro sarebbe stato più importante.
Salutammo Richard e io e Vince tornammo alla casa. Lui era rimasto talmente colpito che non disse nulla per il resto della serata e capii che era rimasto sconvolto da quanto avesse capito che fosse naturale e importante che lui passasse oltre.

 
Le settimane che seguirono lavorai sodo per i progetti che mi affidava Calson e passavo tutto il mio tempo con Vince.
Stavamo a chiacchierare per ore sul letto o in salotto sulle poltrone, lui di tanto in tanto si interrompeva facendosi pensieroso, ma poi riprendeva il filo del discorso facendo finta di niente. Era un po’ più distratto del solito, ma cercava di non darlo a vedere e se anch’io facevo finta di non accorgermi delle sue stranezze sapevo che cosa c’era che non andava. Non avevamo più parlato della sua morte e del fatto di passare oltre o di rimanere nel Limbo. Ma lo capivo: era spaventato. Aveva paura di sapere com’era morto, ma al contempo voleva liberarsi di tutte quelle sofferenze e andare oltre, senza più preoccupazioni, senza più problemi, ma voleva anche starmi accanto e proteggermi, vegliando su di me in ogni momento. Ma sapevamo entrambi che non sarebbe mai potuta esistere una relazione possibile tra noi.

Io lo amavo e non volevo lasciarlo andare, non avrei potuto continuare a vivere in quella casa sapendo che non ci sarebbe più stata la sua presenza. Forse ero egoista.
Ancora una volta lo vidi alla finestra guardare lontano e capii che avrei dovuto prendere una decisione. Per il suo bene. Per fare ciò che era giusto, e che la natura e il destino avevano deciso.

Mi immaginai mentre ponevo la domanda che tanto mi tormentava a Vince: -Perché il destino ha deciso di farci innamorare in questa situazione? È ingiusto.-
-Questa è un'altra domanda a cui solo l’uomo cercherà di dare risposta e forse ci riuscirà un giorno? Ma la vita è misterica e complicata, quanto crudele a volte e la risposta che cerca l’uomo, in questo bizzarro caso, di amore tra la vita e la morte forse, non esiste.-
 
 
 
Scendo dal treno, pesante mi trascino per la grigia città di Dublino.

Il verde brillante delle bandiere Irlandesi mi accecano; prendo il primo taxi per Kilsallaghan, un buco di paesino di contadini al nord di Dublino.

Avevo finalmente rintracciato due dei membri della famiglia Millow: Rose e Steven.
Decisi che avrei dovuto andare fino in fondo in quella faccenda, per il bene di Vince, doveva saperlo chi l’aveva ucciso, e perlomeno, se fossi riuscito a provargli che si trattava di Josh, l’avrei vendicato.

Una vecchia mi aprì la porta e mi chiese chi fossi e cosa ci facevo lì. Erano passati più o meno 34 anni dalla morte di Vince e sua madre doveva avere più o meno un ottantina d’anni.
-Mi chiamo Simon Manray e sono venuto per chiederle della scomparsa di suo figlio Vince Millow.-
La vecchia si fece pallida tutto d’un tratto ma sostenne il mio sguardo e fece per sbattermi la porta in faccia dicendo: -Qui non conosciamo nessun Vince Millow.-
Io infilai un braccio nella porta furioso e indignato e mi feci spazio scansando la vecchia Rose e entrando in casa. Lei spaventata chiamò il figlio che era in un'altra stanza e Steven accorse quasi subito. La donna lo pregò di salvarla e di cacciarmi, che ero uno straniero e che avevo cattive intenzioni. L’uomo venne verso di me velocemente ma si bloccò quando gli dissi la stessa cosa che avevo detto a sua madre. Mi guardò per un attimo, indeciso. Poi mi scortò fuori e mi disse di seguirlo da un’altra parte.
Lo seguii fino ad un capanno isolato ed ebbi un flashback: stavo per entrare in un capanno degli attrezzi. Steven entrò prima di me e si sedette su una sedia di legno molto vecchia. Io esitai sulla porta ma poi scoprii che non era nient’altro che un vecchio capanno usato come deposito di vini e viveri. C’era un massiccio tavolo di ciliegio che occupava quasi tutta la stanza e in un angolo una piccola branda con le coperte per l’inverno. –è una specie di rifugio magazzino.- Spiegò, -Ci vengo a volte per isolarmi da mia madre e rilassarmi dopo il lavoro nei campi.-

Mi offrì da bere ma rifiutai. –Come facevi a conoscere mio fratello Vince?-
-Ne ho sentito parlare a Castelreagh.-
-Tutto qui? Sei venuto da Castelreagh fino a qui facendoti tutti quei chilometri per chiedermi di una persona che neanche conosci di un fatto accaduto 34 anni fa?-
Non sapevo che dire, ero esausto per il viaggio, e stavo per dirgli del fantasma di Vince, ma lui mi precedette: -Sai ragazzo, ti sto per raccontare una cosa che nessuno sa e so che non andrai a raccontarlo in giro o alla polizia perché ormai non c’è più niente da fare e ormai non importerebbe più a nessuno.- Si versò un bicchiere di vino e cominciò a raccontarmi la storia di Vince Millow.
 
-Vince era un pazzo. Mi ricordo i pomeriggi passati a Castelreagh, nell’estate del 78’. Mentre io sgobbavo come un cane sotto il sole per aiutare mio padre nei campi, Vince se ne stava sempre in giro, lui era un testardo, un ribelle, faceva tutto il contrario di quello che gli diceva nostro padre e quando se le doveva prendere c’era sempre Josh, nostro fratello maggiore a proteggerlo. E io che sgobbavo tutto il giorno, tutti i giorni facendo quello che mi diceva di fare mio padre me ne prendevo doppie di botte. Il vecchio Jack Millow era un disperato ubriacone, ci picchiava tutte le sere o quasi tra una bottiglia di whiskey e l’altra.
Josh era un santo, nonostante quello che pensava la gente lui era il vero eroe. Scommetto che avrai sentito tutte le storie che era un anarchico, un rivoluzionario e un teppista, solo perché una volta è stato trovato sul luogo di un rogo. Qualcuno aveva appiccato un incendio nella fabbrica di Joen Cofphern. Ma tieniti forte perché ti sto per sconvolgere la situazione: era stato Vince. Era lui il piromane.-

Steven non immaginava neanche quanto aveva ragione a dirmi che mi avrebbe “sconvolto la situazione” ma non lo interruppi e proseguì dopo un altro sorso di vino.
-Vince non era il ragazzo timido e riservato che tutti credevano di conoscere. Lui odiava suo padre, odiava la legge e per non essere più costretto a lavorare in quella fabbrica gli diede fuoco e Josh fu prontamente sul luogo del rogo per farsi arrestare e proteggere il suo amato fratellino. Non so cosa avesse di speciale Vince per farsi così amare da suo fratello, ma loro erano completamente in sintonia, Josh non lo sgridava mai, non lo rimproverava mai. Vince usciva con Josh e i suoi amici quando scappava di casa.  Lui era uno spirito libero, non aveva bisogno di chiedere, faceva tutto quello che voleva e solo adesso che sono vecchio mi rendo conto che ero invidioso e ho il coraggio di ammetterlo. Una sera nostro padre era talmente ubriaco che mi picchiò così forte che gli dissi che Vince gli aveva bruciato il campo e gli aveva mandato in malora la semina per i mesi avvenire. Quel diavolo di Vince l’aveva fatto apposta per dare a nostro padre il ben servito. Aveva già programmato la sua fuga a Londra e sapeva che nessuno lo sarebbe venuto a cercare.

Una delle sere seguenti, (Vince non era più tornato a casa) ero in giardino che mi fumavo una sigaretta, lo vidi scavalcare lo steccato e arrampicarsi fino alla finestra della sua stanza per prendere i vestiti che gli servivano per il viaggio e i soldi che avrebbe portato a Londra. Lo seguii fino sul retro e vidi che un altro tizio lo stava aspettando e quello che vidi mi sconvolse a tal punto che avrei voluto strapparmi gli occhi. Scoprii così che Vince era omosessuale, oggi non è una gran novità ma negli anni 70’ se ti beccavano a baciarti con una checca ti potevano fare delle cose orribili, prima di massacrarti di botte fino a crepare.

Un giorno mio padre mi mandò a suon di calci a cercare Vince e pregarlo di tornare a casa, mi disse di dirgli che l’avrebbe perdonato e gli avrebbe permesso di andare a Londra con un aiuto finanziario. Raggiunsi Vince e glielo riferii ma ovviamente lui non sarebbe mai caduto nella trappola così lo invitai a casa con una scusa. 
Il giorno dopo tornò a casa senza farsi vedere da mio padre, il vecchio Jack mi disse che era in giro per i campi a lavorare così consigliai a Vince di tornare per quell’orario.
Aah, mi ricordo quel maledetto giorno come se lo vedessi davanti agli occhi. Jack aveva portato il suo finocchio e lo presi da parte: -Vince vuoi farti ammazzare a farti vedere qui con questo qui?!-

-Ormai non mi importa niente e poi l’hai detto tu che il vecchio ubriacone sta lavorando la sua terra, come l’ha presa per il piccolo falò che gli ho acceso?- rideva beffardo quel cane bastardo che tanto lui se ne sarebbe andato mentre noi avremo patito la fame per un intera stagione.
Gli dissi che l’aveva presa molto male ma non mi dava retta. Poi gli dissi di raggiungermi nel capanno degli attrezzi che gli avrei passato le ultime cose per la sua fuga.
Poco dopo lo vidi entrare nel capanno e stavo per raggiungerlo quando vedo mio padre che entra con una vanga e lo vidi alzarla e colpire Vince sul capo, un colpo che lo fece cadere sulla forca e infilzarlo, mentre lui non si è accorto di nulla. Mio padre era ubriaco e furioso come non lo era mai stato, capii solo dopo che doveva aver sentito la nostra conversazione di poco prima. Vidi quel vecchio bastardo dargliene come non gliene aveva mai date. Prese a badilate il suo corpo anche dopo la morte. Lo colpì ripetutamente.

Io invidiavo mio fratello, è vero, ma non l’ho mai odiato a tal punto da vederlo finire così.
Vidi mio padre trascinare il suo corpo verso il bosco e lo seppellì vicino a una vecchia quercia secolare. Vince era irriconoscibile, il cranio e la testa erano state schiacciate e spappolate, il viso non si vedeva più.

Io mandai il suo fidanzato a Londra di corsa dicendogli di riferirgli tutto a Josh.
 Ci trasferimmo e mentre traslocavamo nella nuova casa Josh ci raggiunse a metà del viaggio e mi disse di portare avanti la mamma con un auto e i mobili mentre lui sarebbe rimasto solo con nostro padre. Il giorno dopo leggevo sul giornale che avevano trovato un uomo morto nella sua macchina e lo identificarono come Jack Millow.-

-Che fine fece Josh?-
-Non lo seppi mai, da quel giorno scomparve dalla nostra vita, come era scomparso il povero Vince.-
Sconvolto e ormai giunto alla conclusione chiesi a Steven di seguirmi fino a Castereagh senza spiegargli il vero motivo. Accettò come se sapesse già cosa gli si sarebbe aspettato.


Durante il viaggio spiegai a Steven del perché ero venuto a prenderlo fin laggiù
Quando rientrai a casa Vince mi assalì di domande, preoccupato perché ero stato via tutto quel tempo ma quando vide il vecchio Steven dietro di me si bloccò come pietrificato.

Come sospettavo Steven non riusciva a vedere Vince perché nonostante fossero fratelli non erano mai stati legati da qualcosa di speciale come lo eravamo io e Vince o come lo erano stati Richard e Anita.
-è qui?- Chiese
-Si.-
-Oooh Vince, vecchio diavolo, non hai idea di quanto tu mi sia mancato in questi anni…-
Vince lo ignorò e si rivolse a me: -Io, ci sono cose che non ti ho detto sul mio passato… Ti ho mentito su alcune cose..-
-Ssssh, Vince, stai tranquillo, so già tutto, ora ascolta quello che ti racconterà Steven, è importante per te saperlo.-
Steven gli raccontò ogni parola che aveva detto a me nel Kilsallaghan, e vidi le espressioni di Vince che passavano dallo sconcerto alla rabbia,  e infine all’amarezza.
-Io quando vado tutte le mattine a passeggiare nel bosco mi fermo sempre a sedermi sul tronco ormai cavo di quella quercia secolare. Inconsciamente poggiavo i piedi sulle mie ossa, come faceva Anita.-

-Mi dispiace tanto Vince.- Riuscii solo a dirgli in lacrime.
-E per cosa? Alla fine sono stato io lo sciocco che voleva sfidare mio padre e per quanto i miei fratelli mi abbiano vendicato o cercato di trarre in inganno, non c’è mai stato nessuno di più importante di te. Tu mi hai aiutato Simon.- Sorrise finalmente consapevole della sua fine e felice di accettarla per passare oltre. –Io non voglio lasciarti, ti prego non mi lasciare Vince…

Sono stato inutile e adesso ho fatto in modo che tu potessi uscire dal limbo ma io ti voglio qui con
me. Perché ci siamo innamorati tra la vita e la morte, perché questa ingiustizia?-
Mi accarezzò il viso avvicinandosi e parlandomi dolcemente: -Ma non capisci? Se tu non ti fossi mai trasferito qui e non ci fossimo mai innamorati nel limbo, tu non mi avresti mai  conosciuto e io sarei rimasto a vagare per l’eternità in questa casa, sei tu che mi hai liberato ed è grazie al tuo amore siamo arrivati fin qui.-

-Ti amo Vince.-

-Anch’io ti amo Simon.-

E poi successe qualcosa di straordinario, si avvicinò posando le sue labbra sulle mie e in quel momento ci fu un vero contatto, come se fosse vivo di fronte a me e mi stava baciando. Era caldo, e lo strinsi forte a me perdendomi in quel bacio eterno, fissandolo nella mia mente.
Poi si staccò dolcemente e cominciò l’ascesa verso la luce: e mentre se ne andava sentii la mano che gli stavo ancora tenendo dissolversi lentamente, come la prima volta che avevo provato a stringergliela. E in quel torpore che spariva piano piano dissolvendosi nell’aria la sua figura ormai trasparente mi disse ancora una volta:

-Grazie.-  
     
 
    
  
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