~
Dead Mirror ~
“Dead
mirror
Bad reflection
A sad sight
The face of exploitation”
La luce del giorno penetra dalle lunghe tende, sgretolando le ombre che
avvolgono la camera in un buio soffocante.
Chissà per quale curiosa ragione Sirius Black ami dormire
nella totale
oscurità.
Non prova né asfissia, né tanto meno paura. Un
discepolo di Godric Grifondoro
mai, mai deve mostrarsi turbato dal
terrore.
Soltanto, il buio sembra dargli conforto.
È uno degli abbracci che lo aiutano ad andare avanti; uno
dei rari, sinceri
abbracci che abbia mai ricevuto in vita sua.
Un abbraccio fraterno, quello delle tenebre. E
quell’improvvisa invasione di
luce pare disturbare i suoi fuligginosi sogni d’amore.
Le coperte che lo avvolgono si raggrinzano di più sotto
l’influsso dei suoi
movimenti spazientiti. Quasi come a prendersi gioco di lui, alcuni
raggi
colpiscono l’esatta posizione del suo viso sul cuscino destro
del letto a due
piazze.
Sirius mugugna, sempre più irritato, fino a quando non
decide di mettersi a
sedere sul materasso ancora tiepido del suo calore. Si stropiccia un
occhio con
le nocche della mano destra, mentre uno sbadiglio vistoso gli si apre
sulle
labbra.
I capelli arruffati, le guance e il mento ruvidi di barba non fatta,
occhiaie
impossibili da non notare: Sirius Black non pare essere in una forma
alquanto
smagliante.
Ma si sa, in periodi come quello curarsi del proprio aspetto
è decisamente
l’ultima cosa a cui pensare.
La guerra permette poco.
Grattandosi la nuca con fare annoiato, Sirius si sposta per portarsi al
margine
del letto e poggiare i piedi scalzi sul pavimento. Il freddo delle
piastrelle
lo colpisce all’istante: sente i muscoli delle gambe
contrarsi e i peli
rizzarsi. Ma continua a tenerli ben piantati a terra, quasi con
masochismo,
mentre piega il capo da un lato e dall’altro per sgranchirsi
il collo – la
bocca e gli occhi socchiusi in un’espressione rilassata e
ancora assonnata.
Inspirando con vigore, inizia a guardare la sua stanza da letto.
La sua
stanza da letto? Si commisera con un ghigno appena accennato.
Non ha più una camera da letto – una casa
– da quando i Mangiamorte hanno
scoperto il suo vecchio nascondiglio. Quella in cui dorme nelle notti
in cui
non è di turno, è una delle camere da letto della
casa di Benji Fenwick.
Quella, è la temporanea camera che racchiude i suoi incubi,
prima che
qualcun’altra ne prenda il posto.
Le incertezze sono sempre stata alla base della vita di Sirius; ha
vissuto di
esitazioni per sedici anni, in una casa dalla dubbia morale.
È stato lui stesso
un dubbio, una perplessità.
E poi, un cambiamento.
È risaputo: ogni incertezza muta la realtà, in
seguito ad una presa di
posizione.
Nemmeno i cambiamenti sono stati un problema per lui. Dopo i sedici
anni, dopo
essere diventato un uomo, la sua vita è stata costellata da
varie metamorfosi,
alcune importanti, altre quasi irrilevanti.
E adesso – in seguito ad un ennesimo cambiamento –
eccolo qui, statico
sull’orlo di un letto non suo.
Un raggio di sole colpisce il pavimento grigio, facendone brillare il
colore
con fioca intensità.
Col solo osservare quel misero lembo di mattonelle, Sirius deglutisce a
difficoltà, le mani incrociate e i gomiti piegati sulle
ginocchia.
Quel grigiore… quel colore appare
così… morto.
Perché non riesce a brillare? Non può
più?
Perché neanche la luce del giorno lo ridesta?
Perché non ritorna ad essere vivo?
Ricorda l’innocenza della fanciullezza, quando sperava e
credeva che
l’accecante chiarore diurno cancellasse anche il
più debole lembo di oscurità,
ogni traccia di timore.
Sente il suo cuore pulsare, veloce.
Batte solo per nostalgia e rimorso.
Batte per rimpiangere l’ingenuità, la mente
giovane e spensierata, gli occhi
sinceri, i momenti di fresco candore che già si sono
dissipati.
Gli istanti in cui aveva ricevuto un vero abbraccio – diverso
da quello delle
tenebre – e non l’aveva apprezzato come di dovere.
Sirius aguzza lo sguardo e delle sottili rughe si modellano attorno al
contorno
acuminato degli occhi. Nelle sue iridi si riflette il flebile bagliore
del
sole, i cui raggi battono sulla cornice ossidata di uno sporco
specchio, posto
sulla parete opposta al letto.
Sirius lo guarda e, mentre incontra i suoi stessi occhi, il suo cuore
perde un
battito.
Le iridi argentee, con brutalità, sembrano ispirargli parole
inconfessabili,
inaudibili. E distoglie immediatamente lo sguardo, amareggiato.
Afflitto dalla sua condizione, dal suo misero stato, dalla sua
trasandatezza.
Da sé stesso – e non solo.
§
Se in passato gli avessero predetto quale sarebbe stato il suo
più grande
timore, senza esitazione avrebbe pensato alla morte. La propria morte.
Adesso quel pensiero gli suona addirittura ridicolo.
Sta attraversando tremante di freddo e di paura le acque melmose e
oscure di un
mare ignoto. Percepisce un soffocante puzzo di sporco investirgli le
narici,
misto all’odore di salsedine, e il peso dell’elfo
domestico che sorregge
gravargli sulla schiena.
Poi, nulla più.
Non prova niente ormai da tanto, tanto tempo.
Solo il più puro terrore.
L’elfo grugnisce, piano, temendo di dar molestia al proprio
padrone. Punta un
dito tozzo e sudicio in direzione di una caverna buia.
Al che, Regulus arresta un momento la disperata traversata per puntare
gli
occhi dove indicato. Il suo respiro s’infrange sulla
superficie nera del mare,
increspandola di onde e bollicine, e i suoi occhi si allargano.
Ritorna all’improvviso a percuotere l’acqua con
maggior forza: le braccia si
allargano come se volessero aprire una breccia nella superficie tetra,
le gambe
combattono la pesantezza della gravità. Il suo respiro
è anelante.
È stanco, Regulus.
«Padrone?».
Il grugnito dell’elfo è incerto. Sembra aver colto
la nota d’affanno che le sue
labbra soffiano ancora, e ancora, ancora.
«Non è niente… niente».
Le sue mani si aggrappano alla roccia dura e umida, instabili,
sbucciandosi i
palmi e i polpastrelli. Si accascia un momento al suolo a pancia in
giù, con le
braccia a proteggere il viso magro dagli angoli taglienti degli scogli;
sente
il suo elfo muoversi e scendergli dalla schiena.
«Padron Regulus, padron Regulus!».
Regulus riconosce le mani dell’elfo: sussultano con violenza,
tenendolo stretto
per i polsi. Istintivamente, si raddrizza e si ritrae da quella lurida
presa,
osservando il piccolo essere ad occhi sgranati.
Uno sguardo colmo della più profonda ripugnanza.
Ma incontrando gli occhi iniettati di sangue e ora umidi di Kreacher,
l’espressione del suo volto si mitiga, fino ad addolcirsi.
È l’unica creatura vivente a voler ancora
rimanergli accanto e… chissà, magari
ad amarlo.
Allunga un braccio verso di lui, vacillando ed invitandolo.
«Guidami, Kreacher», gracchia gentile.
§
Lo stretto bagno di Benji, al piano di sopra, accoglie solo
l’essenziale: un
lavandino, un gabinetto e una vasca da bagno dall’aspetto
malandato. L’unica
finestra che illumina l’ambiente ha dei vetri intorbidati che
impediscono alla
luce del sole di infiltrarsi al suo interno.
Un bene.
Rischiarandolo, quei raggi aurei non farebbero che accentuare la sua
aria
spenta, sciatta e noncurante.
Ciò che più gli fa male, è la
consapevolezza che – anche se lo pervadesse del
tutto – quel chiarore raggiante non lo farebbe più
risplendere. Non come un
tempo.
Sirius apre il rubinetto del lavabo con un colpo secco della mano.
L’inconfondibile fiotto dell’acqua corrente gli
riempie le orecchie; aggrappato
ai bordi del lavandino, osserva affascinato lo scorrere veloce ed
impetuoso del
liquido incolore, prima che finisca inghiottito dalla piccola
cavità buia.
Gli occhi impenetrabili, le narici dilatate, le labbra un sottile
tratto rosa
pallido sul volto diafano e contratto in un’espressione seria.
Le mani gli tremano, serrate spasmodicamente attorno ai margini freddi
e
marmorei.
Se drizzasse di solo pochi centimetri il collo, incrocerebbe la sagoma
sciupata
di un uomo consumato e stanco della vita, seppur nel fiore degli anni.
Ma non vuole, Sirius.
Alzare il viso, incontrare la persona che più l’ha
mutilato in vita sua e
affrontarla è come concedersi spontaneamente al martirio.
Lì, attaccata alla parete, sopra il vecchio lavabo di casa
Fenwick, si erge una
specchiera. Ed è semplicemente ridicolo il non voler
guardare un riflesso su
quella superficie incrostata di sporco.
Se James lo vedesse in questo momento, si farebbe delle grasse risate.
«Non ci credo! Per le mutande di
madama
McGranitt, non posso crederci! Sirius Black, l’uomo
più narcisista di questo
pazzo, pazzo mondo, non vuole davvero guardarsi allo specchio?
Scherziamo? Sei
davvero Sirius Black?».
La sua risata – acuta, scrosciante, limpida, sincera e
così genuinamente
fraterna – gli scorre nelle orecchie anche se James non
è al suo fianco. Se lo
immagina, allegro e pimpante anche se segregato in casa, con un
marmocchio a
cui star dietro e una moglie alle calcagna.
E la domanda…
Sei davvero Sirius Black?
Un crudele interrogativo che evidenzia mesi e mesi di cambiamento.
Lo è veramente, Sirius Black?
È Sirius Black l’uomo che si deprime chiuso in un
bagno malridotto?
Sorride a quei pensieri.
La triste verità è che sì,
quell’uomo chino su di un lavandino è proprio
l’egocentrico Sirius Black, atterrato dalle perdite di una
guerra voluta da un
signore senza scrupoli e nome.
Lottare per sopravvivere sta diventando il suo motto.
Ogni mattina, alzandosi dal letto, le facce di tutti i caduti si ergono
dinanzi
ai suoi occhi ancora pesti di sonno. Visi amici e traditori, amati ed
odiati.
Volti di uomini e donne, morti nel nome di nessuno, per ideali che
forse
nemmeno avevano compreso.
La guerra, ai tempi di Hogwarts, sembrava un puro atto di coraggio e
sacrificio. Una prodezza degna di un eroe.
Avrebbe dovuto essere tutto così diverso…
Discutere, enfatizzare e ridere anche, impegnandosi in promesse che
– ora –
sembrano enormemente gravose e difficili da mantenere: Hogwarts ha
avuto solo
il sentore di una guerra. Loro hanno avuto solo il sentore di
ciò che adesso
appare letale e senza fine.
Il respiro ritorna a quietarsi, pensando ai vecchi amici.
James, Remus, Peter e tutti gli altri si trovano al sicuro, per il
momento,
chiusi come lui in rifugi a prova di Mangiamorte. Non gli sarebbe
accaduto
nulla; non c’è motivo per allarmarsi.
Eppure… non vuole ancora scorgere i suoi stessi lineamenti
nello specchio che,
malvagio, glieli scaglia contro.
§
Kreacher si erge in tutta la sua esigua statura sulla prora della
barca.
Il legno scricchiola, le acque nere s’increspano.
Regulus tiene gli occhi chiusi e ogni rumore, anche il più
debole, sembra
duplicare d’intensità, stordendogli la mente.
«Padrone, padrone».
Il timbro rauco della voce dell’elfo sovrasta gli altri
suoni; il suo sussurro
colpisce le pareti della caverna buia.
Se lo immagina con le mani aggrappate ai bordi
dell’imbarcazione e il grugno
rivolto verso di lui.
«Padron Regulus, siamo arrivati».
Da sotto le palpebre, Regulus nota come il buio si sia di poco
alleviato. Sente
che la barca approda nella riva rocciosa, scricchiolando maggiormente,
ed apre
gli occhi.
§
È come se una mano sbucata dal nulla ti stringe la gola.
Soffochi e tossisci,
alla ricerca disperata di ossigeno.
È come quando il cuore si spezza e ne perdi un frammento,
irrimediabilmente e
per sempre. Puoi correre a cercalo ovunque: nei ricordi, soprattutto.
È come…
Come? Come cos’altro ancora, si domanda Sirius?
Ogni notte, nel buio della camera da letto, ha pensato alla scomparsa
di suo
fratello.
Regulus. Scomparso. Morto. Sa
già per
mano di chi.
Ricorda quella mattina in cui fu James a dargli la notizia.
«Ehi, Felpato», gli disse entrando
nell’atrio impolverato di casa Fenwick. Da
una porta che si affacciava all’ingresso, sbucò la
testa di Sirius.
«Ramoso! Per Merlino, mi hai fatto prendere un colpo! Che
c’è, cos’è
successo?».
Gli è ancora impossibile dimenticare l’espressione
di James. Enigmatica,
inafferrabile come le emozioni che aveva dentro. Ci furono attimi di
silenzio,
nei quali Sirius si limitò a squadrarlo corrucciato.
«James». È tipico di Sirius chiamare
l’amico per nome solo in casi particolari.
«Non sono molto paz…».
«Ci è giunta notizia della scomparsa di tuo
fratello, Sirius».
Sirius stringe gli occhi. Come allora, come quand’era stretto
nell’abbraccio di
James, non è capace di arginare il dolore.
§
«Va’ via, Kreacher! Va’ via!».
Grosse lacrime rigano il volto rugoso dell’elfo; ha il naso
più rosso del
solito.
«Padrone, no!».
La caverna si riempie dei singhiozzi di Kreacher.
Regulus grida a gran voce, ansimando e reggendosi sul bordo del
sostegno
marmoreo, al centro dell’isolotto. D’improvviso, le
sue urla si troncano e
volge gli occhi alla riva.
La superficie s’increspa, dei tonfi attutiti provengono dal
fondo del mare
nero.
«Kreacher, ti prego…».
Le acque si aprono ed è la fine.
«Ti ordino di fuggire senza di me. Trova una maniera per
distruggerlo».
I passi degli Inferi sono scanditi dal battito del suo cuore. Regulus
sente dei
fruscii alle sue spalle. Vesti strappate e zuppe di acqua sporca, carne
morta e
bianca che, senza rendersene conto, lo abbranca per le spalle.
L’elfo, con al collo il medaglione, tiene due dita alte
all’altezza del viso.
Una lacrima scivola sul suo mento fino a cadere per terra.
«Dillo a Sirius».
Le sue ultime parole, i suoi ultimi pensieri, sono infranti dallo
schiocco
secco della Smaterializzazione.
§
“Dead
eyes
Stitched together
Broken dreams
Of a life that's better”
Si
sorprende delle sue lacrime. Si sorprende dei suoi occhi.
Nell’oscurità del bagno di Benji, le iridi
assumono una strana tonalità.
Sembrano gli occhi di Regulus, i suoi.
«A cosa pensavi prima di morire? Com’è
stato dire addio?».
Il naso, l’ovale del viso, la bocca sottile che si schiude al
ritmo delle
parole.
È uno specchio morto a parlargli.
«Un giorno toccherà anche a me, Regulus. E quel
giorno, penserò al tuo viso».
Gira il pomello e apre la porta.
Mentre il tonfo dei suoi passi solleva la polvere, Sirius sospira.
I
suoi occhi sono spenti, oramai.
!
Il titolo e i vari frammenti di testo all'interno della fanfiction sono
stati presi dall’omonimo pezzo dei Nasum, Dead
mirror.