Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Phyro    14/01/2014    1 recensioni
"Tre sono le ossessioni: La bellezza, la musica ed il fuoco"
Un progetto che molti definirebbero raccapricciante se non deviato e spaventoso.
~
"Le chiamava pietre quando parlava di lui. Una verde come lo smeraldo infatti, quella destra, e l’altra rossa come il rubino, incastonate in quel volto giovanile che parrebbe quasi affabile, se non fosse per quel sorriso malsano."
Specchio mutevole su un anima macchiata dal sangue e dal desiderio.
~
"Vorrei anch'io saper creare qualcosa di magico, senza usare la magia."
Un'apprendista capace di cambiare il corso naturale degli eventi.
~
"Che rumore fa un corpo che cade?"
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~I~

 

 

«Fermatevi!»
Gridò a gran voce l’uomo seduto all’interno della carrozza.

Gli zoccoli dei cavalli si impuntarono di colpo sul selciato al sentire le redini così con forza tirate dal cocchiere che, come i cavalli se non di più, sbuffava rumorosamente mentre continuava a masticare il suo tabacco scadente che donava ai suoi denti un simpatico tono di marrone marcio.

«Avvertire un po’ prima no?»
Sbottò quindi visibilmente seccato da quell’ordine dato all’improvviso.

«Scusate, ero sovrappensiero.»
Rispose la voce che prima aveva gridato, ma che pareva come assopita, quasi bisbigliata. La portiera si aprì e subito ne uscì un giovane alto, completamente celato da un mantello di scarsa fattura e scuro, stropicciato e che presentava di tanto in tanto dei piccoli batuffoli sfilacciati di stoffa insieme a graffi e buchi. Dal manto altro non si poteva scorgere che un paio di stivali anch’essi logori e vecchi, allacciati alla buona e una grande protuberanza all’altezza del fianco destro dove egli pareva armeggiare, probabilmente una borsa, o almeno questo pensava il cocchiere.

«Sono centottanta per la corsa notturna, prego.»
Con lo sguardo sospetto e la voce profonda e seria, il cocchiere allungò la mano callosa verso lo strano viandante che aveva accompagnato in un viaggio lungo circa sei ore.

«Avevamo pattuito centoventi è vero, ma sapete bene che dei cavalli stanchi fanno guadagnare di meno e, come potete ben vedere, questi sono più che sfiniti. Come da ordini “Più veloce possibile.” » Sorrise sornione presentando il conto più che salato a quello che pareva esser più un poveraccio che altro, non essendo neanche troppo sicuro che quello riuscisse a pagarlo.

«Sono duecento, tenete il resto e date da mangiare a queste bestie.» Un sacchetto di pelle venne tirato fuori da quella che poi si rivelò esser effettivamente una borsa, per pochi istanti visibile da sotto il manto.

Lo stupore si dipinse veloce sul viso del vecchio cocchiere ormai tempestato di rughe e barba incolta bianca nel vedere quel sacchetto tanto pieno quanto invitante.

«Vi ringrazio.»
Stette in silenzio per qualche istante, contando le monete quasi meglio di un banchiere, guardandolo di sottecchi, studiandolo.

«Da cosa scappate, se posso impicciarmi?»
Non lo guardava, troppo intento a contare il suo meritato guadagno.

«Partire nel bel mezzo della notte per allontanarsi poi neanche di tanto. Chiunque vi stia cercando non ci metterà così tanto a raggiungervi. »

Nessuna risposta vi fu per un minuto buono da quella figura incappucciata, tanto che il cocchiere cominciò ad avvertire una strana sensazione di disagio e pesantezza mentre nell’aria si spandeva quella domanda che ancora non riceveva risposta.

D’un tratto poi, la figura incappucciata voltò velocemente le spalle cominciando a camminare in direzione della porta semiaperta di quella che pareva esser una locanda. La scritta “La sella del viaggiatore” sovrastava l’entrata, scritta in rosso, dipinta con cura e maestria, a fare da tetto ad un disegno di, appunto, una sella alla quale erano appesi diversi utensili da cucina, una spada e un coniglio per le zampe.

«No, non potete impicciarvi. Buona notte.»
Un frase fredda, pronunciata ad alta voce, prima che la sua mano si poggiasse sulla porta, tirandola a sé.

Non fece in tempo ad entrare che subito venne investito da una folata di aria calda, chiacchiericcio e odore di zuppa di cipolle, un luogo ospitale e quasi familiare parrebbe ma lui, tuttavia, non vi era mai stato.

Il bancone era in fondo sulla sinistra, tre persone erano prese da un’accesa conversazione su chi aveva il maiale più grasso. Si guardò per un attimo intorno e sia ai tavoli che in piedi vicino alle finestre vi erano perlopiù manovali e contadini, che si godevano le ore piccole del loro minimo periodo di riposo. La grande sala era illuminata da delle torce appese al muro, adornate con rinforzi di metallo che parevano incorniciare la fiamma, quasi come una prigione. Con passo veloce l’incappucciato si diresse all’altro bancone, quello in fondo alla sala davanti a lui, che faceva da guardia alle scale che davano al piano superiore, sede delle camere in affitto.

Poggiò le mani sul bancone, coperte da guanti di pelle, ed il viso ancora era coperto da quel cappuccio che lo aveva accompagnato per tutto il viaggio.

«Una camera per stanotte.»

Il locandiere, che fino ad un attimo prima era intento nel metter in ordine il registro degli ospiti, quasi capitombolò nel sentire la sua voce.

«Oh, eh…Ehm..Salve!»
Sfoggiò un sorriso cordiale, affabile, con quelle gote rosse e grosse di chi il vino non lo ha mai visto a meno di venti centimetri dal suo naso.

«Devo chiedervi di mostrarmi il volto però, mio signore, queste sono le leggi del villaggio di Cavan.»
Ancora un gran sorriso da parte del locandiere.

«Non se ne parla.»
Rispose la figura incappucciata con voce ferma, posando un altro sacchetto di pelle sul bancone, accanto al registro degli ospiti.

«Devo insistere…»
Disse il locandiere, abbassando un poco lo sguardo. Era paffuto, un uomo di circa sessant’anni, pochi capelli e quelli che erano rimasti erano bianchi e scompigliati.

«Quanto per nessun dato?»
La voce dell’incappucciato era sempre più scocciata ed irritata.

«Ho l’obbligo di avvertire le guardie per comportamenti sospetti. Il suo nome non verrà assolutamente mostrato a chicchessia, parola mia!»
Ancora un sorriso, apprestandosi ad aprire e porgere il registro degli ospiti al nuovo viandante.

«Fidatevi di me: sono il mago della discrezione io, sapete?»

«Basta con queste idiozie.»
Sbottò di colpo il nuovo arrivato, portando entrambe le mani all’altezza del cappuccio, scoprendosi il volto quanto basta per far sì che solo chi gli fosse stato davanti a lui avrebbe potuto scorgere i suoi lineamenti. Il volto era quello di un giovane che non doveva aver superato i trent’anni d’età, naso e bocca minuta, mentre gli occhi erano grandi e neri ma tuttavia quasi inespressivi e fissavano con forza il locandiere quasi in attesa del permesso di congedarsi. I capelli erano mori, troppo corti per farne una coda e troppo lunghi per dire che non gli si fossero appiattiti per aver tenuto il cappuccio in testa tutto quel tempo.

Nel vederne il volto il locandiere ebbe quasi un mancamento. Deglutì, cercando di mascherare il più possibile il suo disagio.

Era passato completamente inosservato. In quel luogo c’era chi beveva, chi giocava a carte o a dadi d’osso, e chi si giocava le sue possibilità con una ragazza o due che, visti gli abiti, per poche monete avrebbero potuto portare in camera senza troppo star li a snocciolare frasi smielate e dettate dal vino scadente.

Prese velocemente il pennino del locandiere, lo intinse nel calamaio e portatosi vicino il registro firmò nella casella dove la stanza segnava il numero cinque. “Dan” e niente più scrisse.

«Mio signore, quella stanza è stata prenotata. Vedete la P in piccolo vicino al bordo?»
Ancora gentile il locandiere nel far notale quel piccolo dettaglio al ragazzo dai capelli neri.

«Quando arriveranno gli direte che la stanza non è più disponibile. Ora le chiavi, sono stanco.»
Per sottolineare l’ultimo dire, il ragazzo sbatté con forza il dorso della mano sul bancone, mostrando il palmo al grassoccio padrone di casa con fare prepotente e arrogante, mostrando un piccolo sorrisetto ora dipintosi sul viso.

«Basta storie: in quel sacchetto ci sono monete che basterebbero per pagare una settimana. Le chiavi a me e il sacchetto a voi, che ne dite?»
Neanche una parola fu più sprecata. Nelle mani del ragazzo vennero poste le chiavi e in quelle del locandiere vi fu posta la piccola sacca, subito poggiata su un ripiano al di sotto del bancone.

«Beh? Non contate?»
Chiese il ragazzo quasi oltraggiato, inarcando un sopracciglio.

«Sì… Ehm… No… Cioè, mi fido delle vostre parole.»
Sorrisi su sorrisi da quel panciuto omaccione, peccato che ormai il sudore sulla sua fronte fosse difficile da non notare così come la sua espressione imbambolata nel fissarlo.

«Come volete.»
Disse, superando il bancone rimettendo il cappuccio a coprirgli il volto, svoltando poi repentinamente a destra, imboccando la via per le scale.

«Io ci ho provato.»
Il locandiere sospirò, scuotendo appena il capo.

Ad ogni passo, quasi come una melodia, il tintinnio delle chiavi della camera e lo scricchiolio delle vecchie assi di legno del pavimento pian piano stavano entrandogli nella testa. Lo sguardo era perso davanti a sé, non controllava neanche più il numero delle camere, avendo capito ormai che la numerazione era stata posta al contrario, cominciando dalla sedici per poi arrivare ai numeri più bassi, continuando per quel corridoio che pareva quasi seguire il perimetro della locanda. Le stanze infatti, erano tutte poste alla sua destra ed il numero identificativo era posto in alto, sullo stipite, su un piccolo pezzo di legno rettangolare inciso e poi colorato di un azzurro brillante, completamente in contrasto con la grafica e lo stile dell’insegna di fuori.

Finalmente giunto davanti alla porta della sua camera, attese qualche istante prima di infilare la chiave all’interno del foro apposito, controllando prima che tutto fosse al posto giusto: la borsa c’era, il pugnale anche. Aveva viaggiato leggero alla fin fine, in fondo non aveva bisogno di nient’altro, o almeno pareva non aver avuto il tempo di prendere altro.

La chiave si infilò senza problemi, anche se ci mise un po’ prima di girare correttamente facendo scattare il meccanismo della serratura: ruggine probabilmente, solo gli dei sanno da quanto tempo quelle meccaniche fossero lì senza una sola goccia d’olio. Finalmente entrato, lesto si apprestò a chiudere la porta dietro di sé, infilando di nuovo la chiave nella serratura e chiudendola con un colpo deciso del polso.

Era stanco, distrutto, un viaggio che andava avanti da giorni. Prima a piedi e sempre nel bel mezzo della notte fra i campi, guadando due fiumi. Poi, arrivato nella città mercantile di Cantre, aveva chiesto un passaggio ad un’anziana coppia di fattori sul loro carretto pieno di fieno, il tratto più comodo fino a quel momento, da lì poi per tre giorni fino a Kat, prendendo infine la diligenza fino a quella camera.

Tirò un profondo sospiro di sollievo, si tolse velocemente il mantello lasciando che cadesse a terra e si passò entrambe le mani fra i capelli, socchiudendo gli occhi, appoggiando la fronte alla porta chiusa davanti a sé.

«Stanco?»
Il suo cuore mancò un battito nel sentire quella voce. Gli occhi si spalancarono in uno spasmo di terrore. Conosceva quella voce, la conosceva fin troppo bene. Non voleva crederci: giorni e giorni passati a scappare lungo vie non battute e sotto falsi nomi per niente.

«No…»

«No dite? A me sembrate più che stanco, Alter Molat.»
Ancora un brivido lungo la schiena, quella voce calda, placida e tranquilla gli trapassò il cervello e il cuore in un istante facendogli tremare talmente le mani da urtare la chiave poggiata nella serratura che cadde a terra con un piccolo tonfo sordo.

«O dovrei chiamarvi…Tresor.»

Rimase rigido, quasi fosse stato tramutato in una statua di sale per istanti lunghi come anni, prima di voltarsi lentamente, sperando che quella voce fosse solo un brutto scherzo della stanchezza.

La stanza era piccola, illuminata da una lampada ad olio la cui fiamma era riparata da un’ampolla di vetro poggiata su uno scrittoio sulla destra. Alla sinistra della porta vi era un piccolo armadio ed un letto, sul quale vi era seduta una figura minuta, lasciata in penombra dalla scarsa luce della lampada mentre in fondo alla stanza, seduta su una rustica sedia di legno non intarsiato, vi era un’altra figura, visibilmente più alta della prima e dalla quale proveniva quella voce. Era esattamente quello che si aspettava e sperava di non vedere.

La luce lo investiva per metà e lasciava intravedere un giovane alto, di bell’aspetto, un naso piccolo e una bocca grande inarcata in un ghigno verso di lui. Vestiva un abito rosso, con cuciture bianche sulle maniche e sul capo portava un cilindro impreziosito da una fascia color del sangue.

«Pare che siate sorpreso di vedermi. Come mai, di grazia?»
Disse quella figura con le gambe accavallate. Con una mano, rivestita da un fine guanto di raso bianco, tirò fuori dalla giacca un orologio da taschino, appeso ad un’asola con una catenella argentata, aperto immediatamente con il movimento del pollice, avvicinandolo alla luce.

«Vi aspettavamo ormai da un’ora, pensavo non arrivaste più. Ero quasi triste, sapete?»
Tresor appoggiò prima le mani e poi l’intera schiena sulla superficie della porta dietro di lui quasi con rassegnazione, mentre fissava con occhi sbalorditi la figura in penombra davanti a lui deglutendo più volte, fino ad accorgersi di non avere più una goccia di saliva nella bocca e sentendo il legno della porta bagnato per il sudore delle sue mani. Il cuore gli batteva talmente forte che nel silenzio che seguì l’ultima frase dell’uomo in penombra gli sembrò che rimbombasse per la stanza facendo vibrare i vetri, e che fossero le onde sonore di quel battito a far tremare la fiamma della lampada.

«Com…Come avete fatto a trovarmi?»
L’uomo si alzò in piedi, sfoggiando una statura fuori dal normale e, benché Tresor fosse considerato un ragazzo molto alto, sembrava quasi un bambino in confronto a lui. Fece qualche passo nella sua direzione quindi, senza dire una parola, semplicemente fissandolo e mostrandosi ora alla luce. Aveva dei folti capelli rossi che a ciocche ribelli fuoriuscivano da quel cilindro, e qualcosa che Tresor non avrebbe mai dimenticato dalla prima volta che lo vide: i suoi occhi.

Le chiamava pietre quando parlava di lui. Una verde come lo smeraldo infatti, quella destra, e l’altra rossa come il rubino, incastonate in quel volto giovanile che parrebbe quasi affabile, se non fosse per quel sorriso malsano che pian piano si allargava sul suo volto.

«In realtà pensavo fosse più difficile, mi avete deluso ancora una volta.»
Rispose sereno l’uomo dai capelli rossi.

«Per quale motivo pensate vi abbia chiesto una ciocca di capelli quando avete fatto ingresso nella congregazione?»

Gli occhi di Tresor si spalancarono al limite sentendo quelle parole. Effettivamente più volte si era chiesto il perché di quel gesto, tuttavia senza dargli troppo peso. Aveva studiato le divinazioni e sapeva bene che una sola ciocca di capelli non poteva dare troppe informazioni. Un nome, l’immagine di un viso, ma nulla più.

«Vedete, nei ranghi più alti come ben sapete ci è concesso studiare gli incantesimi di livello superiore. E come potete immaginare chi è sul gradino più alto della gerarchia, in questo caso Me, ha accesso ad ogni singolo sortilegio. »

Tutto era sempre più confuso nella sua testa, blaterare insensato che sentiva uscire dalla bocca di quello che ormai aveva bollato come suo carnefice.

«Ebbene. Con quel piccolo gesto, io mi sono appropriato del diritto di poter cambiare il mio aspetto e di poter copiare…Il vostro.»
Il capo del rosso si inclinò verso destra, come un gatto che gioca con un topo morto. Dapprima lo osserva e dopo avergli assestato una bella zampata ne studia la reazione.

«Una chiacchierata con Fara… Ed ecco svelato l’arcano.»

Tutto in quel momento ebbe senso. Il mosaico venne ricomposto in meno di una frazione di un secondo. All’udire pronunciato il nome della sua compagna con un colpo di reni si scostò dalla porta, avvicinandosi di qualche passo a quella figura altissima a non più di due metri da lui.

«Ditemi che non le avete torto un singolo capello!»

«Non vi preoccupate, non ho fatto niente del genere…Non contro la sua volontà almeno. E poi lei mi serve ancora… A differenza vostra.» Tranquillo era il tono, quasi scherzoso, con una punta di ironia come retrogusto, e Tresor la percepì tutta quell’ironia, tanto da sentire i suoi muscoli tendersi e voler scattare, buttare le mani sul volto di quell’uomo e strapparlo via. Ma non poteva, no, sapeva bene di cosa fosse capace. Aveva bisogno di un piano, qualcosa di semplice ma efficace.

Tutto sembrava perduto, fino a quando il suo sguardo non si posò per un istante sulla finestra esattamente dietro le spalle di quel figuro ormai vicino a lui. Doveva fare in fretta, trovare un diversivo e fiondarcisi contro. Solamente un piano di altezza era la locanda, effettivamente avrebbe potuto scappare da lì e rimanere quasi illeso. Ma poi che fare? Come fuggire da colui che lo braccava? Non era importante. In quel momento l’importante era uscire da quella stanza che di lì a poco sarebbe potuta divenire la sua tomba.

«Come avete fatto a capitare proprio nella stanza giusta? Ho scelto a caso, non è possibile che abbiate avuto così fortuna.» Chiese Tresor abbassando lo sguardo.

«Io mi tengo stretti gli amici ma ancora più i nemici…E molto più gli amici che potrebbero poi rivelarsi nemici.» Sorrise quindi il rosso, alzando le spalle.

«Studio tutti quelli che passano sotto di me. So delle vostre manie, delle vostre fisime. I numeri pari sono sporchi e quelli dispari puri. Le stanze qui sono sedici. Ho già dimezzato le possibilità. Ora, noi sappiamo bene che prendere la stanza a metà non sarebbe stato piacevole per voi, poiché un mezzo se lo si scrive ha il due al denominatore. L’ultima è fuori discussione, troppo lontana dall’uscita per la fuga, uguale la prima, troppo vicina all’entrata. Ci rimaneva solo la cinque quindi. Numero dispari, ad un terzo del corridoio rispetto solo ai numeri dispari. Facile no?» Ancora un sorriso compiaciuto si disegnò su quel viso giovane e ipnotico.

«Non ho fatto quello di cui mi accusate.» Disse Tresor con un soffio di fiato.

«Mi credete stupido!?» Tuonò la figura in rosso, tanto da farlo saltare.

«Le guardie si sono presentate nella bottega di copertura come se niente fosse dicendo “Un informatore che preferisce restare anonimo ci ha detto che qui avremmo potuto trovare qualche indizio sulla strana serie di sparizioni.”»La sua voce venne fuori canzonatoria, facendo il verso a quella guardia, infantile.

«E stranamente voi eravate scomparso. Niente nella vostra camera, il vostro prefetto non sapeva nulla di voi. Ho fatto due più due, idiota.» Il sorriso di quell’uomo man mano andò a dileguarsi dal volto, lasciando spazio ad un’espressione rabbiosa e seria, mentre il tono della voce diveniva più profondo e potente.

«Sapete quali sono le regole. Morite almeno con onore, lurido vigliacco.»

Era tempo di agire. Tresor piegò le gambe e con tutta la forza che aveva in corpo balzo contro quell’energumeno fintando una spallata. A pochi centimetri dal colpirlo cambiò repentinamente direzione, piegandosi a destra deciso nel continuare la sua corsa verso la finestra, dalla quale sarebbe uscito con un salto e sperato per la buona sorte. Pochi centimetri mancavano, si preparò al salto quand’ecco che come un gancio sentì che si aggrappava alla sua caviglia destra, facendogli perdere l’equilibrio e capitombolando rovinosamente sul pavimento impolverato della stanza della locanda.

Era stata la figura in rosso a fermare la sua corsa, era riuscito a voltarsi un attimo prima ch’egli fintasse la spallata, trovandosi esattamente alla sue spalle. A quel punto gli fu facile infilare con forza un calcio sul malleolo di Tresor, facendogli perdere l’equilibrio.

«Neanche l’onore vi è rimasto. Dovete morire come il topo di fogna che siete. » Disse il rosso scuotendo il capo e fissando Tresor steso a terra.

«Eridie. E’ ora.»
Al suono di quelle parole, la figura minuta che per tutto quel tempo era stata zitta e immobile sul letto con le gambe accavallate e nella penombra, con un piccolo salto scese dal letto, avvicinandosi lentamente ai due e mostrandosi man mano che si avvicinava alla luce. Un bambina. Piccole scarpette nere con un tacco basso ed un vestito nero, impreziosito da cuciture rosse e bianche. Il viso era tenero, la bambina non doveva aver superato gli undici anni di età. Gli occhi color del sangue e quasi spenti parevano. Il viso incorniciato da due lunghe ciocche di capelli corvini, tenuti in posa da un cerchietto rosso poggiato ad arte sul capo.

Eridie si soffermò per qualche istante a contemplare Tresor steso a terra con il volto spalmato su una trave di legno ed il piede del rosso sulla nuca.

«Forza, l’ultimo che vi ho insegnato. Separate i ventricoli.»

Tresor ancora dolorante e accecato dalla polvere del pavimento, al sentire quelle parole subito capì quale sarebbe stato il suo destino: era un incantesimo base, di quelli che si insegnano per autodifesa per lo più o per assassinio semplice, la vittima non può gridare e non ci sono segni evidenti.

Il suo corpo cominciò a muoversi da solo, le unghie si conficcarono nel legno delle travi coprendosi di schegge ma dovette fermarsi; il peso del rosso era completamente sulla sua nuca: si fosse spostato di un centimetro e la mascella si sarebbe completamente staccata dal resto del cranio.

«Sì, Phyro.» Disse Eridie, intrufolando una manina nella scollatura del vestito, estraendone un ciondolo composto da una pietra rosso splendente, incastonata in un alloggiamento di metallo raffigurante un drago.

D’un tratto, la pietra che la bimba stringeva fra le sue mani emanò una luce talmente potente da far sembrare la lampada un semplice fiammifero, uscendo dalle piccole fessure fra le dita della ragazzina. I suoi occhi si chiusero e la mano destra, quella che non stringeva il cristallo, si stese su Tresor, completamente aperta e mostrandogli il palmo, mentre dalle sue piccole labbra fuoriuscivano formule incomprensibili. Tresor cercò in tutti i modi di gridare, spingendo forte sul diaframma ma non ci fu nulla da fare, non uscì nessun suono, ma solo un grosso fiotto di sangue che andò ad imbrattare il legno tutto intorno al suo capo, compresa una scarpa di Phyro e una della bambina.

Per qualche secondo, il silenzio si fece padrone di quella stanza di locanda. Phyro tolse il piede dal quel corpo esanime attento a non poggiarlo sulla pozzanghera cremisi tutt’intorno alla salma di Tresor.

«Oh, poverino…Gli avete spezzato il cuore.» Si voltò verso la bambina con un’espressione imbronciata.

«Fatela finita, dite sempre la solita battuta. Non capisco perché pensate che se la prima volta non ha fatto ridere, alla sessantesima dovrebbe farlo.»Rispose Eridie con fare acido.

«Siete molto più simpatica voi invece, Lady cadaverina.» Disse lui di rimando, deformando il viso in un’espressione disgustata.

«Era pur sempre un uomo.»

«No, ha smesso di esserlo nel momento in cui ha trasgredito al regolamento. Andiamo.»

Detto questo si portarono verso l’uscita, attraversando lentamente il corridoio per poi scendere le scale, ritrovandosi davanti al bancone ove ancora il vecchio locandiere era intento nello studiare il registro dei clienti sorseggiando di tanto in tanto dal calice del vino.

Appena alzò lo sguardo per controllare chi fosse sceso gli si gelò il cuore ed il viso e rimase li, come un dipinto a fissare prima la figura statuaria di Phyro e poi quella più minuta e graziosa di Eridie.

«Molto bene, avete fatto ciò che avevamo detto.» Cominciò il rosso.

«Tenete.» Continuò posando sul bancone una pesante sacca di cuoio.

«Voi siete il re della discrezione, no? Beh sire, se tenete a questa bettola e al vostro naso rosso da ubriacone da porto, vi consiglio di continuare su questa strada. Dovete solo pulire e disfarvi di ciò che rimane.».

Terrorizzato, il locandiere rimase immobile a fissare la schiena prima di uno e poi dell’altra mentre si avvicinavano alla porta per poi svanire dietro alla stessa che si chiuse.
Sospirò, rimirando ancora per qualche istante la casella della stanza numero cinque sul registro e quella piccola P scritta in rosso.

«Se avessi insistito, forse gli avrei potuto salvare la vita.» Soggiunse.

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Phyro