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Autore: LaniePaciock    16/01/2014    4 recensioni
Torniamo indietro nel tempo e spostiamoci di luogo: 1943, Berlino, Germania. Una storia diversa, ma forse simile ad altre. Un giovane colonnello, una ragazza in cerca della madre, un leale maggiore, una moglie combattiva, una cameriera silenziosa, una famiglia in fuga e un tipografo coraggioso. Cosa fa incrociare la vita di tutte queste persone? La Seconda Guerra Mondiale. E la voglia di ricominciare a vivere.
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Cap.3 La straniera

“Lei è il Colonnello Castle?” domandò la donna. Ha una bella voce… si sorprese a pensare Rick. Ma con un forte accento… Scosse violentemente la testa, quindi sbatté per un momento le palpebre per riprendere lucidità. In fondo era sempre un colonnello dell’esercito. Avrebbe dovuto saper gestire ogni situazione!
Si schiarì la gola e annuì.
“Sì, sono io.” rispose Castle cercando di essere il più indifferente possibile. “Cosa vuole?”
“Sto cercando mia madre.” rispose senza mezzi termini la donna. “Voglio sapere se è viva e mi hanno detto di venire da lei.” Castle la studiò per un momento e finalmente vide che era più giovane della donna che aveva visto morire. Capì di aver sbagliato. Non era un fantasma. Era la figlia della donna. All’improvviso si sentì insieme sollevato e in colpa.
“Come ti chiami?” domandò con un tono un po’ più informale, sentendo anche le difficoltà di lei nel parlare tedesco.
“Beckett.” rispose. “Kate Beckett.”


“Ok, Kate…” iniziò Castle quando finalmente si fu abbastanza ripreso dalla sorpresa per decidere cosa fare.
“Preferirei Beckett.” lo bloccò subito la donna, sempre con il suo forte accento. Con la mente più lucida, il colonnello lo riconobbe: era americano.
Appena Rick arrivò a quella constatazione, il suo sguardo si fece teso. Era meglio che Beckett non parlasse troppo. Già qualcuna delle persone in cerca dei loro cari si era voltata verso di lei con aria curiosa e insieme guardinga, se non astiosa. In fondo erano in guerra con gli americani. Castle era un’eccezione perché dopo anni in Germania conosceva e parlava perfettamente il tedesco senza inflessioni. Inoltre, visti i capelli castano chiaro e gli occhi azzurri, e il fatto che fosse colonnello dell’esercito, nessuno si azzardava a domandare niente sulle sue origini. Ma Kate era un’altra cosa. Era sola e con un accento chiaramente americano, bruna e bellissima, abbigliata in modo molto più ‘libero’ delle donne tedesche. Tutto di lei in pratica diceva straniera. E le straniere non facevano una bella fine in quel clima di guerra.
“Beckett, allora.” accettò nervosamente Castle con un cenno del capo e un mezzo sorriso. “Hai una foto di tua madre?” Kate annuì e portò una mano alla tasca del cappotto grigio scuro che indossava. “Aspetta!” la fermò il colonnello con un gesto. “Vieni, andiamo a parlare nel mio ufficio.” aggiunse subito dopo indicandole con un gesto le scale dietro di lui. La donna lo guardò diffidente per un momento. Evidentemente sapeva di non potersi dire al sicuro e quello Rick lo prese come un segnale positivo. Non era una sprovveduta se non altro.
Alla fine Kate cedette e annuì, precedendo poi il colonnello su per le scale. L’ufficio di Castle era al secondo piano. Appena arrivati, videro una fila di persone davanti a una porta chiusa in fondo al corridoio che attendevano pazientemente che arrivasse il proprietario, ovvero il colonnello.
Rick sospirò frustrato. Aveva sperato che almeno quel giorno gli concedessero un po’ di tregua, ma evidentemente non era possibile. Per un momento si chiese che fare. Mandare via tutta quella gente per parlare solo con Beckett, oppure far passare prima lei? Avrebbe evitato molti rischi, ma sarebbe parso sospetto.
Il colonnello prese una decisione mentre si avvicinavano al fondo del corridoio e alle persone in fila. Calcolò che dovessero essere almeno una decina. Un attimo prima di raggiungerle, Rick si fermò e bloccò Kate per un polso. Lei si voltò di scatto e gli lanciò un’occhiata omicida, ma insieme sorpresa e agitata.
“Aspetta qui.” le sussurrò avvicinandosi appena. Quindi il colonnello tornò qualche passo indietro e si affacciò sulla tromba delle scale. “TENENTE DURREN!” urlò per farsi sentire sopra il costante rumore degli uffici e del vociare dei civili. Meno di un momento dopo il tenente stava schizzando su per le scale verso il suo superiore.
“Dica, Colonnello!” esclamò fermandosi davanti a lui e facendogli il saluto militare.
“Non far salire più nessun civile.” ordinò Castle. “Per oggi faccio solo questi. Se qualcun altro chiede di poter parlare con me, fallo tornare domani. Mi hai capito?”
“Sì, Colonnello!” replicò quello. Quindi il tenente gli rifece il saluto, scese di nuovo le scale e si piazzò davanti a esse per impedire l’accesso. Durren non era troppo stupito di quella richiesta. Non era una cosa inusuale che nel turno del pomeriggio-sera si decidesse di sentire solo un certo numero di lamentele. Di solito Castle cercava di prestare ascolto a tutti, ma di tanto in tanto, quando era stanco o doveva sbrigare delle pratiche urgenti, impediva l’accesso ai civili rimandando l’eventuale incontro al giorno successivo.
Appena Durren se ne fu andato, il colonnello tornò indietro e si fermò di nuovo accanto a Beckett.
“Non muoverti e non parlare con nessuno.” le disse velocemente a bassa voce. “Aspetta il tuo turno. Appena finirò queste persone potremo parlare tranquillamente.” La donna aggrottò le sopracciglia, cauta e sospettosa per il suo comportamento. Sembrava indecisa se mandarlo al diavolo e andarsene oppure restare. Alla fine la preoccupazione per la sorte della madre dovette avere la meglio, perché annuì con un piccolo sbuffo scocciato. Castle le fece un piccolo sorriso e annuì di rimando. Quindi si allontanò da lei per entrare nel suo ufficio. Velocemente si tolse il cappotto e lo lanciò sull’attaccapanni, quindi buttò il cappello sulla sua scrivania già ingombra di carte. Si sedette sulla sua poltrona e diede il via libera per entrare alla prima persona in fila. Una donna piuttosto anziana e con un grande foulard violaceo che le copriva la testa aprì la porta e si fece avanti con passo malfermo. Un attimo prima che chiudesse l’accesso dietro di lei, Castle vide fugacemente in fondo al corridoio la figura di Beckett. Era appoggiata di schiena al muro, le braccia incrociate davanti al petto in un atteggiamento che voleva sembrare rilassato, ma che invece risultava alquanto rigido. Teneva il capo leggermente chino in avanti, come a voler nascondere il volto dietro l’alto bavero del suo cappotto da cui spuntavano solo gli occhi, in modo da controllare così la situazione intorno a lei. Il colonnello sospirò internamente, sollevato che Beckett stesse seguendo le sue indicazioni sul non farsi notare. L’ultima cosa che gli venne in mente, prima che la signora appena entrata si sedesse sulla seggiola davanti alla scrivania e iniziasse a parlargli, fu l’espressione scocciata di Kate quando le aveva praticamente ordinato di stare ferma e zitta. Un quasi invisibile sorriso si formò sulle labbra del colonnello. ‘E’ adorabile.’ pensò. L’attimo dopo si accorse di quello su cui stava rimuginando. Scosse la testa per farsi uscire Beckett dalla mente e si impose di prestare attenzione alla donna davanti a lui.
 
“Ma, Colonnello, mio figlio non può essere morto!! Lei deve…!!”
Herr Schmidt, si calmi per favore!” lo bloccò Castle con forza, ma insieme cercando di usare tutto il tatto possibile. L’uomo davanti a lui non aveva neanche cinquant’anni e suo figlio, appena diciannovenne, era purtroppo uno dei migliaia di morti di Amburgo di cui Rick aveva parlato proprio qualche ora prima con Ryan ed Esposito. Il corpo del ragazzo era stato ritrovato tre settimane prima sotto un cumulo di macerie e il suo nome era spuntato in caserma solo quella mattina. Quell’uomo era venuto ogni singolo giorno per sapere qualcosa sul figlio, pregando di non vedere mai il suo nome appeso sulla bacheca all’ingresso della centrale. Ora che era successo, non riusciva ad accettarlo.
“Colonnello… Lambert era il mio unico figlio maschio…” mormorò l’uomo con le lacrime agli occhi, perdendo all’improvviso tutta la rabbia che aveva avuto fino a quel momento e accasciandosi sulla sedia, pallido in volto. In un attimo sembrò invecchiato di vent’anni. Castle sospirò e si alzò per fare il giro della scrivania.
“Mi dispiace sinceramente per la sua perdita.” disse Rick in tono contrito. Posò una mano sulla spalla dell’uomo e strinse la presa per dargli un po’ di conforto, anche se sapeva che non sarebbe servito a molto. Quella stretta non gli avrebbe certo riportato indietro il figlio. Schmidt rimase con gli occhi lucidi e assorti fissi davanti a lui, senza in realtà vedere nulla. “So cosa vuol dire perdere qualcuno che si è amato.” aggiunse poi il colonnello, mentre anche il suo sguardo si perdeva per un momento verso il muro. Si riscosse quasi subito sbattendo le palpebre. “Dovrebbe tornare a casa ora, Herr Schmidt.” dichiarò alla fine con tono fermo, ma gentile. “La sua famiglia la starà aspettando.”
“Mia moglie è morta di malattia lo scorso autunno.” replicò atono l’uomo con lo sguardo sempre fisso nel vuoto. “Dei tre bambini che avevo, la mia Edna è morta a causa di una bomba inesplosa due mesi fa… aveva solo dodici anni… e ora anche Lambert…” mormorò mentre la voce gli si spezzava. Ci fu un momento di silenzio, mentre Rick assimilava con un dolore nel petto le informazioni dell’uomo. Aveva praticamente perso tutto. O quasi.
“Ha detto che aveva tre bambini.” disse cauto Castle. “Vuol dire che uno è ancora vivo.”
“Sì…” mormorò Schmidt sbattendo le palpebre e passandosi nervosamente le mani tra i capelli e sulla faccia, come se si fosse risvegliato in quel momento da un incubo. “La piccola Hanne…” mormorò mentre un piccolo sorriso dolce gli si formava sulle labbra.
“Quanti anni ha?” chiese il colonnello.
“Cinque.” rispose. Castle si mise davanti all’uomo senza lasciargli la spalla e attese finché Schmidt non alzò gli occhi per guardarlo.
“Allora vada a casa per lei.” gli disse in tono serio. “Vada dalla sua bambina. Non la lasci sola ora. Ha già perso quasi tutta la sua famiglia. Non faccia sì che perda anche suo padre.” L’uomo lo guardò per un momento come stupito, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati. Quindi scosse la testa e si alzò in piedi di scatto, come se si fosse reso improvvisamente conto che aveva una piccola vita a cui badare e che, nonostante tutto, non poteva abbandonare. Fece un cenno agitato di congedo al colonnello e velocemente si portò all’uscita della stanza. “Se vuole un mio consiglio…” lo fermò Castle, un attimo prima che Schmidt aprisse la porta del suo ufficio. Quello si voltò e il colonnello lo guardò negli occhi per fargli capire meglio la gravità della situazione. “Lasci la città con sua figlia.” Schmidt rimase per un momento immobile. Quindi annuì nervosamente e uscì rapido dall’ufficio, lasciando la porta semiaperta dietro di lui.
Una volta che Schmidt fu scomparso, Castle sospirò malinconico e tornò a sedersi pesantemente sulla sua poltrona. Quindi appoggiò i gomiti sulla scrivania e mise la testa fra le mani. Quel giorno le lamentele erano state più difficili da ascoltare. Quella di Schmidt era stata il colpo di grazia. Il figlio aveva solo diciannove anni... Castle chiuse per un momento gli occhi. Si sentiva stanchissimo. Si chiese quante altre persone ancora mancassero prima che potesse finalmente attendere tranquillo che il suo turno finisse per poi tornare a casa a riposarsi.
Un lieve bussare lo tirò via dai suoi pensieri. Non si mosse e semplicemente disse ‘Avanti’. Forse non era molto dignitoso farsi trovare in quella posa per un colonnello, ma si sentiva davvero sfinito. Udì la porta aprirsi di più con un lieve cigolio, seguito poi da dei passi incerti.
“Posso entrare?” chiese una voce dal forte accento. Castle si ricordò all’improvviso che c’era ancora almeno una persona che non aveva ascoltato. Alzò la testa di scatto e vide Beckett ferma sull’uscio dell’ufficio.
“Vieni, entra!” esclamò subito il colonnello, scuotendo la testa e passandosi le mani sugli occhi per cercare di riprendersi un poco da quegli infelici incontri. Si alzò e le indicò la sedia davanti alla scrivania. Quindi, mentre lei prendeva posto, lui andò a chiudere la porta. Beckett aggrottò le sopracciglia al suo gesto e si irrigidì.
“Scusa.” esordì Rick in inglese così che Kate lo capisse senza problemi. Dall’espressione stupita di lei, la bocca semiaperta e gli occhi sgranati, era evidente che non se lo aspettava. “So che non ti puoi fidare di uno sconosciuto, ma se non chiudo la porta qualcuno potrebbe sentire che non parliamo tedesco e…”
“Tu parli inglese??” lo bloccò Beckett ancora stupita, passando anche lei alla sua lingua madre. Castle ridacchiò.
“Non ti ha fatto venire un dubbio il mio nome?” domandò divertito mentre prendeva un’altra sedia, dimenticata in angolo, e la portava vicino a lei davanti alla scrivania. Si accorse solo in un secondo momento del gesto che stava compiendo. Togliere la barriera della scrivania non era un’idea saggia perché confondeva il lavoro con il resto. Ma d’altronde Rick non voleva la scrivania tra di loro, quindi seguì la sua azione istintiva senza farsi troppi problemi. “C-A-S-T-L-E.” rimarcò lui scandendo ogni lettera mentre si sedeva. Lei arrossì un poco alla sua affermazione.
“Veramente l’ho solo sentito da uno dei soldati che mi ha indicato questo posto e pensavo fosse scritto, non so, con la K o comunque che solo la pronuncia fosse simile all’inglese…” dichiarò imbarazzata. Il colonnello ridacchiò e si mise più comodo sulla sedia, appoggiando la schiena indietro e incrociando le gambe con fare rilassato. Notò che Kate era davvero carina con quel rossore sulle guance.
“No, americano nel sangue!” replicò con un ghigno.
“Allora perché sei qui?” domandò Beckett stupita e insieme curiosa. Castle all’improvviso si oscurò. Si fece serio in volto e si irrigidì, incrociando insieme le braccia al petto. Quindi voltò il capo per non guardarla negli occhi e sembrò cercare per un momento qualcosa nella stanza.
“Direi per lo stesso motivo per cui tu sei qui…” commentò alla fine con gli occhi al soffitto. “A causa di un genitore.” spiegò riabbassando lo sguardo su di lei. Kate sembrò ricordarsi all’improvviso del perché era in quella stanza con un colonnello dell’esercito tedesco. Velocemente portò una mano alla tasca del cappotto che ancora indossava e tirò fuori una fotografia. La osservò per un momento con uno sguardo di preoccupazione mista a tenerezza e infine la allungò a Castle.
Rick non prese subito la foto. Rimase a osservare per qualche secondo la mano di Beckett che gli offriva quel pezzo di carta come se fosse l’unica cosa che potesse aiutarla a ritrovare la madre. Ma lui era terrorizzato. Aveva paura non di vedere l’immagine della donna viva, bensì quella della donna morta, stesa davanti a lui in un lago di sangue. Deglutì e si impose di essere lucido e ragionevole. Come si poteva avere paura di una fotografia?
Alla fine Castle districò un braccio dal petto e allungò lentamente la mano. L’attimo in cui le sue dita si strinsero su quella foto ebbe la sensazione che stesse per accadere qualcosa. Ma com’era venuta, quella sensazione sparì. Forse anche a causa dello sfioramento che le sue dita avevano avuto con quelle di Kate. Era bastato quello e una scarica elettrica gli era partita dalla mano per finirgli lungo tutta la spina dorsale.
Rick si schiarì la gola per non far trapelare l’effetto che aveva avuto su di lui quel semplice contatto, mentre Beckett ritirava velocemente la mano ora vuota. Poi prese un respiro profondo e finalmente guardò la foto. Gli bastò una sola occhiata per capire che la sua intuizione era giusta: la donna che aveva visto morire era la stessa dell’immagine. La madre di Kate.
“Come si chiama?” domandò il colonnello usando volutamente il presente. Non sapeva ancora cosa dire a Beckett e non voleva allarmarla prima del previsto.
“Johanna Beckett.” rispose prontamente Kate con una nota di impazienza repressa nella voce. Rick annuì automaticamente mentre osservava la foto. Erano molto simili Johanna e Kate. Tutt’e due belle donne, entrambe avevano i capelli lunghi, mossi e, anche se l’immagine era in bianco e nero, Castle era sicuro che quelli della madre fossero color castano come quelli della figlia. La forma del viso e del naso inoltre era la stessa. Solo gli occhi sembravano differenti. Forse Kate li aveva presi dal padre. “Ne sapete niente?” chiese all’improvviso Beckett togliendo Castle dall’immobilità che lo aveva colpito mentre studiava il mezzobusto di Johanna. Alzò gli occhi e la vide nervosa e agitata, le mani strette con forza contro la pancia, i denti che mordevano il labbro inferiore. Per un istante il colonnello non seppe cosa rispondere. Dire la verità o mentire? Osservò Beckett per qualche istante dubbioso e combattuto, le sopracciglia aggrottate. Alla fine decise cosa dirle.
“No.” rispose con un sospiro allungando di nuovo la foto a Kate. “Non ne sappiamo niente.” aggiunse poi, alzandosi intanto dalla sedia con un peso nel cuore e voltandole le spalle. Non era riuscito a dirle la verità. Non ce l’aveva fatta. Non sapeva neanche lui perché, visto che era una cosa che faceva tutti i giorni, comunicare alle famiglie la dipartita di una persona cara. Forse semplicemente non voleva far soffrire quella donna così speciale davanti a lui, che aveva viaggiato migliaia di chilometri per cercare la madre in un paese straniero e ostile, oltre che in guerra. Forse, egoisticamente, voleva solo avere la possibilità di rivederla.
Con la coda dell’occhio, Rick notò la donna accasciarsi un poco sulla sedia. Sembrava insieme affranta e sollevata per quella notizia.
“Sei sicuro? Insomma…” cominciò la donna lanciando un’occhiata alla porta chiusa e sedendosi più dritta sulla sedia. “Ci sono migliaia di nomi e foto che passano da qui ogni giorno. Come fai a sapere che non c’è quello di mia madre?” ‘Perché sono io il responsabile della sua morte e non avevamo né foto né nome di lei da mettere sulla bacheca…’ avrebbe voluto rispondere Castle.
“Perché tutti i nomi e le foto passano davanti a me prima o poi.” rispose invece atono, andando verso la finestra del suo ufficio e lanciando fuori un’occhiata. L’unica cosa che vide nel vetro buio fu la sua immagine riflessa. “E non ho visto nessuna Johanna Beckett, né tanto meno ho visto una sua fotografia.” aggiunse poi, voltandosi di nuovo verso di Kate. In fondo era vero. Fino a pochi minuti prima non conosceva il nome della donna che aveva contribuito a uccidere, né l’aveva mai vista in foto. Beckett annuì piano, lo sguardo triste. “Perché non mi dici qualcosa di lei?” chiese all’improvviso Castle. Beckett lo guardò sorpresa per poi aggrottare le sopracciglia perplessa. “Magari mi aiuterà a trovarla.” continuò il colonnello alzando appena le spalle. E poi così avrebbe potuto sapere qualcosa di più anche su Kate.
La donna ci pensò qualche secondo, come a valutare se le sue informazioni avrebbero potuto davvero aiutare a trovare la madre o meno. Alla fine dovette decidere di fidarsi di Castle, perché prese un respiro profondo e annuì.
“Ok.” rispose solo. Prima ancora che potesse aprire bocca però, il colonnello la sorprese di nuovo.
“Vuoi un caffè?” domandò infatti Rick avvicinandosi a un angolo della stanza dove c’era un piccolo fornelletto da campo con sopra una caffettiera. Non era molto, ma quando era in servizio era quello che lui riusciva a permettersi. “E’ piuttosto amaro, ma ho un sacco di zucchero e del latte per addolcirlo.” continuò il colonnello, iniziando ad accendere il fuoco.
“Io…” iniziò Beckett un po’ titubante. Castle si voltò e la vide mordersi il labbro inferiore. Sorrise.
“Giuro che non metterò veleno né strane droghe nel caffè!” dichiarò divertito. Quell’affermazione strappò un sorriso a Kate. Un sorriso che per un attimo mandò in tilt il cervello di Rick.
“Posso fidarmi di un colonnello nazista?” gli chiese Beckett ironica. Lui ci pensò su per un secondo, non offendendosi minimamente a quell’affermazione un po’ provocatoria. Prese tempo, versando intanto dell’acqua di una brocca lì vicino nella caffettiera e aggiungendo il caffè in polvere prima di posizionare il tutto sul fornellino.
“Puoi fidarti dell’uomo americano.” rispose alla fine Castle serio, girandosi di nuovo verso di lei. Kate lo squadrò per un momento, stupita dalle sue parole e dal tono in cui erano state pronunciate. Alla fine cedette con un sospiro.
“Un cucchiaino di zucchero e tanto latte…” borbottò Beckett sconfitta. Il colonnello sorrise e attese che il caffè uscisse per prepararlo come gli era stato ordinato. Non dissero una parola mentre aspettavano pazientemente che la bevanda fosse pronta. Il silenzio comunque non era imbarazzante. Era come se entrambi stessero rimuginando sui propri pensieri per capire quante informazioni rivelare all’altro e quante celare.
Qualche minuto dopo il borbottio liquido del caffè ruppe il silenzio. Castle prese due tazze e le riempì, aggiungendo poi un cucchiaio di zucchero in uno e tre nell’altro insieme a una generosa dose di latte per entrambi.
“Ecco qui!” dichiarò il colonnello con un mezzo sorriso, porgendo a Beckett la sua tazza e sedendosi poi di nuovo sulla seggiola davanti a quella di lei. “Allora…” iniziò lui soffiando appena sul caffè, ma tenendo gli occhi incollati su Kate. La donna stava assaggiando cauta un sorso dalla sua tazza. “Cosa mi puoi dire su Johanna Beckett?”
Beckett non rispose subito. Soffiò appena sul caffè bollente e guardò il liquido muoversi appena quando lei si fece girare un poco la tazza tra le mani. Qualche secondo dopo prese un respiro profondo.
“E’ una giornalista.” dichiarò infine Kate atona, gli occhi fissi sulla sua tazza. “Fino a pochi anni fa molti in America erano convinti che in Germania in fondo non andasse così male, come dichiaravano alcune voci. Si vociferava di soldati a ogni angolo delle città, di persone portate via di casa con la forza, di uomini imprigionati e picchiati senza un motivo, di donne stuprate, di campi di lavoro fatti per ammazzare gli ebrei, i politi contrari e chissà chi altro…” Durante quella breve presentazione, la voce di Beckett si era fatta più tesa e agitata. Si fermò e prese un altro respiro profondo per calmarsi. “A differenza di molti però,” continuò poi più tranquilla. “Mia madre credeva a quelle voci. Erano troppo…” Cercò la parola migliore per indicare quello che pensava con una piccola smorfia di dolore in volto. “Orribili… per non essere vere.” Alzò gli occhi su Castle per cercare di capire se avesse inteso quello che diceva. Lui annuì piano, consapevole molto più di altri che quelle voci erano del tutto vere. “Scrisse più e più volte insieme ad altri giornalisti le barbarie del governo di Hitler, per denunciare quello che accadeva in Germania, ma pochi le diedero retta. La maggior parte delle persone in America preferirono semplicemente chiudere gli occhi e pensare che quello nazista fosse solo un governo più rigoroso di altri.” Disse la parola ‘rigoroso’ con un chiaro disprezzo nel tono. “Così mia madre decise a far aprire gli occhi all’America e al mondo intero. Prese una nave da New York e qualche giorno dopo sbarcò nel nord della Germania.” Si fermò di nuovo e fece un sospiro. “Tutto questo comunque accadde più di due anni fa, prima dell’attacco di Pearl Harbor dei Giapponesi e quindi prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. E a quel punto tutte le voci e le teorie dei giornalisti come mia madre furono prese finalmente in considerazione prima e poi ritenute vere.” Commentò l’ultima frase con una nota ironica. “Da quel momento ho avuto solo sporadiche chiamate e qualche lettera, ma ormai erano diverse settimane che io e mio padre non la sentivamo. Mi sono preoccupata e sono partita per cercarla.” concluse alla fine con una lieve alzata di spalle come se fosse la cosa più ovvia da fare. Castle la guardò sorpreso.
“E tuo padre ti ha lasciato andare??” Lei si morse il labbro inferiore.
“Non esattamente…” Da quelle due parole, il colonnello capì che l’ultima cosa che avrebbe voluto il padre sarebbe stato vedere la figlia partire per un paese in guerra. “Ma volevo sapere se mia madre stava bene!” aggiunse subito Kate combattiva, come a voler sfidare l’uomo a dire il contrario. Rick la osservò per un momento con una punta di ammirazione, colpito ogni momento di più dalla donna davanti a lui.
“Perché non è scappata quando gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra?” chiese il colonnello curioso. “Tutti gli stranieri sono fuggiti in qualche modo e…”
“Mia madre è ebrea.” buttò fuori Beckett alla fine, deglutendo appena e irrigidendosi sulla sedia, come se fosse sul punto di fuggire al minimo movimento del suo interlocutore. Castle sgranò gli occhi sorpreso. Non per la notizia in sé. Più che altro si stava chiedendo come avesse fatto Johanna Beckett a sopravvivere per più di due anni lì a Berlino. Doveva aver avuto un bel fegato e una bella dose di fortuna. Finché non aveva incontrato lui. “Mi aveva detto di essersi già identificata come tale prima di Pearl Harbor.” continuò Beckett. “Quindi molti sapevano chi era e l’avevano schedata.” Rick annuì piano.
“Quindi non poté fuggire…” commentò pensieroso, le sopracciglia aggrottate. Stava pensando che avrebbe dovuto approfondire meglio le ricerche su Johanna, allargando il raggio d’azione. Aveva chiesto solo alle centrali vicine se qualche donna schedata corrispondesse alla descrizione della morta. Avrebbe dovuto mandare una descrizione in tutte le caserme di Berlino, ma erano pochi quelli che si preoccupavano di controllare i nomi dei deceduti. Per questo tutti i nomi e le foto finivano nella loro centrale, perché erano gli unici che se ne curavano. “Non indossava neanche la stella…” mormorò tra sé Castle. Stava pensando alla stella di David che ogni ebreo era obbligato a portare appuntata al petto.
“Come?” domandò Kate nervosa. Rick alzò la testa di scatto.
“Niente.” replicò subito. “Mi chiedevo solo se porta la stella.” Beckett si agitò sulla sedia e negò con il capo, continuando a fissarlo come lui se dovesse attaccarla da un momento all’altro. “Ok.” disse solo il colonnello.
“Pensi che riuscirai a trovarla?” chiese diretta Beckett qualche secondo dopo. Castle riuscì a reggere il suo sguardo speranzoso solo per un attimo, poi dovette abbassare gli occhi.
“Ci proverò.” rispose.
“Provarci non mi basta.” replicò seccata la donna. Il colonnello sbuffò divertito.
“Cercherò ogni traccia di tua madre per quanto me ne sarà possibile.” dichiarò allora Rick con un mezzo sorriso. “Più di questo non posso prometterti. Ok?” Beckett lo squadrò per qualche secondo.
“Ok.” sbottò alla fine. Castle ovviamente sapeva cosa era successo alla madre, ma si era messo in testa di cercare ogni informazione su Johanna per capire quanto conoscessero di lei. Soprattutto voleva controllare che non risultasse che avesse una figlia. E poi lo incuriosiva sapere come era rimasta nascosta per tutto quel tempo a Berlino. Voleva ricreare la sua storia e i suoi spostamenti, per quanto possibile. Magari sarebbe stato utile per qualche futuro lavoro di occultamento con Ryan e la sua sempre nuova ‘famiglia adottiva’.
“Sarà il caso che vada ora.” dichiarò Beckett alzandosi dopo aver lanciato un’occhiata fuori dalla finestra ormai completamente buia. “Hai di certo del lavoro da fare e…”
“Ti accompagno.” dichiarò Castle alzandosi a sua volta. “Dove alloggi?”
“Perché?” chiese diffidente.
“Devo sapere se quello in cui stai è un posto sicuro.” replicò il colonnello. “E poi altrimenti come faccio a farti rapporto se trovo qualcosa?” aggiunse con un sorrisetto ironico.
“Posso sempre venire io qui.” ribatté Kate. Rick scosse la testa.
“C’è troppa gente.” rispose. “Non solo aspetteresti ore, ma rischieresti anche che qualcuno scopra le tue origini.” Beckett sbuffò contrariata, ma alla fine annuì.
“Sto al Finder Blau.” confessò. Castle ci pensò su per un momento. Conosceva quell’hotel. Un posto nella media che fino a pochi anni prima era stato molto gettonato dai turisti. Ora era conosciuto più che altro per il suo pub, aperto a tutte le ore, che ospitava soprattutto soldati dell’esercito. Rick ricordava inoltre che era uno dei posti preferiti del colonnello Dreixk, suo rivale e piantagrane da sempre.
“Non va bene, devi cambiare posto.” dichiarò Castle allungando il passo per arrivare alla porta e chiamare il suo sottoposto, il Tenente Durren.
“Cosa??” chiese scioccata Beckett mentre il colonnello urlava ‘DURREN!’ con la testa fuori dalla porta.
“Il Finder Blau non è sicuro.” le spiegò velocemente Castle a bassa voce mentre sentiva il tenente salire le scale. “E’ costantemente frequentato da soldati. Ti serve un posto più anonimo.” In quel momento arrivò Durren e il colonnello passò al tedesco per non destare sospetti.
“Durren, manda Gustaf e Ulmann al Finder Blau a prelevare i bagagli di Fraulein Beckett.” gli ordinò sotto gli occhi stupiti della stessa Kate. “Quindi digli di portarli al Fidel Weltbummler. Mi raccomando, Tenente, tutto deve essere fatto con discrezione.” In un clima come quello, fortunatamente nessuno si sarebbe insospettito troppo se due soldati fossero entrati a forza in un alloggio per portare via i bagagli del proprietario. L’unica cosa a cui dovevano fare attenzione, cioè quello che Castle intendeva con discrezione, era non dire assolutamente nessun nome o luogo e controllare di non essere seguiti.
“Sì, Colonnello!” rispose il tenente, quindi gli fece il saluto, un cenno a Beckett e scappò di nuovo di corsa alle scale.
“Come puoi fidarti che faranno quello che gli hai detto?” domandò Kate in inglese con una smorfia scettica.
“Perché gli ho dato un ordine.” rispose Castle chiudendo di nuovo la porta e tornando anche lui all’inglese. “E poi perché sono i miei uomini. Loro si fidano di me, quindi io mi fido di loro.”
“Ok, ma in ogni caso cosa ti fa pensare che il Fido Wel… Fidie Witl… Fide Weltbum…!” Castle ridacchiò del suo problema di lingua e lei gli lanciò un’occhiataccia arrossendo appena. “Insomma quel posto che hai detto! Come puoi sapere che è più sicuro dell’altro?”
“Al Fidel Weltbummler ho amici all’interno che ti terranno d’occhio.” replicò Rick. “E controlleranno anche che nessuno, soldato o ammiratore o scimmia ammaestrata allo zoo ti diano fastidio mentre sei qui.” aggiunse velocemente prima che lei potesse replicare. Kate rimase spiazzata da quell’ultima frase.
“Credevo che voi soldati foste tutti uguali…” commentò piano, stupita, abbassando pensierosa lo sguardo al pavimento. Rick fece un mezzo sorriso a quell’affermazione.
“Solo perché la maggior parte lo sono, non significa che lo siano tutti.” replicò con un sorriso. “E nel mio caso, forse devi solo imparare a conoscermi meglio.” aggiunse poi con un vago tono di speranza nella voce. Kate alzò gli occhi e i loro sguardi si intrecciarono. Rick cercò di comunicarle che poteva fidarsi. Lei tentava di non farsi sentire così bisognosa di protezione in un luogo che non conosceva con scarso successo. Il mondo intorno a loro fu come svanito per un attimo. Ma durò solo un attimo. Una campana di una chiesa vicino batté all’improvviso le ore e li fece risvegliare bruscamente dalla loro trance.
“E’ tardi, devo andare.” disse velocemente Beckett girandosi verso la porta mentre un vago rossore le colorava le guance. Rick annuì.
“Prendo la giacca.” dichiarò avvicinandosi all’attaccapanni del suo ufficio. La donna sgranò gli occhi stupita per poi lanciargli un’occhiataccia.
“Perché?” domandò irritata. “Posso benissimo andare a quell’albergo da sola!”
“Ah, sì?” commentò Rick, alzando un sopracciglio e cercando di soffocare una risata per la testardaggine di Kate mentre si infilava il cappotto. “Dimmi come si chiama allora.” Lei lo guardò male. Il colonnello finì di allacciarsi i bottoni con calma e prese il cappello sulla sua scrivania ancora sotto lo sguardo di fuoco di Beckett. Quando finalmente rialzò gli occhi su di lei, la vide sbuffare contrariata.
“Accompagnami.” borbottò sconfitta senza guardarlo prima di sgusciare fuori dalla porta. Castle la seguì ridacchiando.
 
Il colonnello scortò Beckett fino al Fidel Weltbummler senza dare minimamente ascolto ai lamenti della donna che, ogni due minuti, borbottava che poteva benissimo essere lasciata al primo angolo con le sole indicazioni stradali. Castle la portò in auto, guidando lui stesso la piccola Volkswagen bombata messagli a disposizione per i suoi spostamenti dall’esercito. L’alloggio era a quasi venti minuti di distanza dalla centrale e molto vicino al centro di Berlino, in uno dei pochi quartieri relativamente tranquilli. Rick conosceva il proprietario, un tedesco contrario ai nazisti che aveva aiutato più volte lui e Ryan quando avevano dovuto nascondere qualcuno che Kevin aveva in casa durante un’indagine su di lui. Era una persona fidata e di buon cuore. Una rarità in quei tempi.
“Eccoci arrivati!” esclamò alla fine Castle parcheggiando a lato della strada. Beckett alzò lo sguardo verso il palazzo davanti a cui si erano fermati. Era un edificio di cinque piani di uno strano colore marroncino chiaro. Un tempo doveva essere stato molto ricco poiché si vedevano diversi intagli e decorazioni dipinte sugli angoli e intorno alle finestre. Ora però molta della vernice si era scostata e formava piccoli riccioli un po’ ovunque sulla facciata mentre in molte parti si scorgevano i mattoni rossi della muratura.
Beckett concluse la sua analisi dell’edificio lanciando a Castle un’occhiata scettica, un sopracciglio alzato. Castle scosse la testa con un mezzo sorriso.
“Non si dovrebbe mai giudicare un libro dalla copertina.” commentò sorridendo un attimo prima di scendere dall’auto e andare velocemente ad aprire la portiera di Kate.
“Sarà…” mormorò lei seguendolo dubbiosa all’interno della palazzina. Non appena varcarono la porta principale, la donna rimase a bocca aperta.
“Che ti avevo detto?” domandò divertito Rick. Quel posto faceva sempre quell’effetto. L’esterno era diroccato e mal tenuto, ma l’interno era tutta un’altra storia. Non era d’alta classe ovviamente, ma pulito, caldo e confortevole. Davanti a loro si apriva un’ampia sala. Le pareti erano color legno e perfino il tetto era composto da travi di colore scuro, mentre una serie di lampade a olio appese alle pareti e al soffitto illuminavano l’ambiente. Un lungo bancone era posizionato di fronte alla porta principale, in fondo alla sala, mentre tutt’attorno c’erano tavoli e sedie per chi voleva mangiare. In pratica la hall fungeva anche da pub per gli avventori e gli ospiti. La prima volta che l’aveva visto, Rick si era convinto di essere entrato all’improvviso in una taverna medioevale. Senza però lo sporco, l’aria pregna di sudore e fumo e gli uomini ubriachi seduti ai tavoli che molestavano le taverniere e giocavano a dadi. Beh, in realtà quest’ultima cosa, gli uomini ubriachi, li aveva trovati in una sua successiva visita e più di una volta.
“Wow...” mormorò Kate stupita. Castle sorrise e la spinse gentilmente insieme a lui verso il bancone.
“Richard!” esclamò una donna dall’altra parte del tavolo facendogli un gran sorriso. La donna era piccola e tozza, con lunghi capelli castano scuro acconciati in una treccia, occhi altrettanto scuri e un sacco di lentiggini. Rick sorrise a sua volta. Solo Frau Gothe e sua madre lo chiamavano con il nome intero.
“Alwara.” la salutò di rimandò il colonnello con un cenno della testa. “Come stai?” chiese in tedesco. In auto Rick era riuscito a convincere Kate a parlare il meno possibile e a farlo in tedesco, riservando l’inglese solo per quando parlava con lui. Non era egoismo, era preoccupazione per lei. “Come vanno gli affari?”
“Lasciamo stare!” sbuffò sonoramente la donna, scuotendo la testa accigliata. “Quegli stupidi nazisti mi stanno spaventando la buona clientela con le loro improvvisate!!” Castle si oscurò subito.
“Sono stati qui?” chiese con tono preoccupato.
“Tranquillo, Richard, sono entrati e usciti come al solito!” replicò Alwara, mentre un sorrisetto divertito le spuntava sulle labbra. “Io e il mio Edzard non li abbiamo nemmeno fatti avvicinare alle scale!” Poi abbassò la voce e si allungò appena in avanti verso il colonnello, mettendo in parte in mostra dalla scollatura del vestito il suo ampio seno. “Al momento non c’è niente da nascondere, ma devono sapere chi comanda qui dentro!” dichiarò con l’indice puntato con decisione sul tavolo. Castle soffocò una risata. I nazisti che venivano lì per controlli di routine si trovavano sempre davanti il muro di ferro dei coniugi Gothe. Che Rick sapesse, lui e Ryan erano gli unici soldati a cui era concesso di andare nelle camere ai piani superiori. Infatti alla fine mandavano sempre loro a controllare se c’erano irregolarità al Fidel Weltbummler. Ovviamente non avevano mai trovato nulla di cui parlare.
“Sei sempre la migliore, Alwara!” dichiarò Rick ridacchiando.
“Certo che è la migliore, altrimenti perché l’avrei sposata??” Una voce profonda li fece voltare verso le scale. Un omino, piccolo quanto la donna di fronte a loro e altrettanto robusto, con due baffoni che gli coprivano in parte le labbra, i capelli biondi tagliati corti e due occhi azzurro ghiaccio, scese gli ultimi gradini e venne verso di loro tirandosi su le maniche della camicia a quadri rossi che indossava. Data la larghezza delle sue braccia, Rick era sempre stato convinto che Edzard Gothe in realtà fosse uno spaccalegna che aveva messo su un albergo solo per passare tempo.
“Perché è un’ottima cuoca, Ed!” esclamò di rimando Castle allungandogli una mano con un sorriso. Edzard ridacchiò e strinse con forza la mano del colonnello annuendo vigorosamente. Con la coda dell’occhio il colonnello vide Beckett osservarlo preoccupata. Evidentemente si stava chiedendo se per caso l’uomo non gli stesse stritolando la mano.
“Mi hai scoperto!” replicò Edzard lasciando finalmente la mano di Castle. “Oh, Alwara, tesoro,” disse poi all’improvviso con tono più dolce voltandosi verso la moglie. “I signori Strass hanno bisogno di nuovi asciugamani. Puoi portarglieli, per favore?”
“Vado subito.” rispose annuendo la donna. Un attimo prima di andarsene però si bloccò e lanciò un’occhiata curiosa a Castle e, soprattutto, a Beckett dietro di lui che ancora non aveva aperto bocca. “Ma prima mi piacerebbe sapere perché il nostro colonnello preferito sia qui…”
“In effetti è vero.” commentò il marito osservando Kate come se la vedesse per la prima volta. “Cosa ti porta qui, amico mio? Immagino non sia una visita di cortesia.” Edzard non si preoccupò di abbassare la voce, quindi il colonnello immaginò che al momento ci fosse solo gente conosciuta e fidata nel locale.  Scosse la testa in risposta.
“Edzard ho bisogno di un favore…” iniziò Rick abbassando comunque la voce e guardandosi in giro circospetto.
“Richard!” esclamò Alwara all’improvviso in tono scandalizzato. “Non ti facevo uno da questo genere di cose!!” lo rimproverò severa. Castle e Beckett la guardarono per un momento confusi. Appena capirono cosa intendesse, Rick si affrettò a spiegare prima che Kate potesse replicare furibonda.
“Alwara, non è come pensi…” cercò di dire il colonnello, ma Beckett scoppiò lo stesso.
“Non sono una prostituta!” esclamò indignata. Marito e moglie la guardarono sorpresi. Kate aveva parlato in tedesco, ma, essendo arrabbiata, il suo accento americano era risultato ancora più marcato del solito. Rick si guardò intorno preoccupato, ma per fortuna gli unici avventori erano un po’ a distanza, e soprattutto erano già ubriachi, e non avevano recepito niente.
“Rick, che significa?” chiese Edzard all’improvviso serio. Il suo tono profondo di voce rese quelle parole severe e dure. Se prima aveva osservato Kate con curiosità, ora la guardava con diffidenza. E lo stesso valeva per la moglie. Il colonnello sospirò frustrato. Era quello che avrebbe voluto evitare. Edzard e Alwara era due bravissime persone che combattevano a modo loro contro il nazismo, ma erano tedeschi e la Germania in quel momento era in guerra con gli Stati Uniti. Quegli stessi Stati Uniti che, d’altronde, durante un attacco aereo congiunto con l’Inghilterra, gli avevano ucciso il loro terzogenito quasi un anno prima mentre giocava per strada. Sapevano entrambi chi aveva iniziato quella guerra, ma non potevano perdonare che il loro bimbo più piccolo fosse morto innocente a soli 6 anni.
Beckett dovette sentire su di sé tutto quell’astio perché Castle la sentì muoversi a disagio vicino a lui.
“Vi prego, ascoltatemi prima di prendere qualsiasi decisione!” esclamò a bassa voce Rick con tono quasi implorante avvicinandosi ai due coniugi immobili. “Lei…”
“Come fai a sapere che non è una spia o qualcosa di simile?” lo bloccò Edzard facendo una smorfia scocciata. “Come puoi sapere che è davvero chi dice di essere?” Castle per un attimo non seppe cosa rispondere. Sapeva che Kate diceva la verità, perché se lei era lì, in parte era anche per colpa sua. Ma come poteva spiegarlo?
“Sua madre è sparita.” rispose Castle con tono grave. Aveva deciso di dire parte della verità, quella che gli aveva raccontato la stessa Kate. Solo quelle poche parole però iniziarono a fare un certo effetto, almeno su Alwara. Infatti ora, insieme alla diffidenza, c’era anche un po’ di compassione. “Sì, Beckett è americana, ma è venuta qui solo per...”
“Beckett?” esclamò Alwara sorpresa scambiandosi un’occhiata con un altrettanto sorpreso Edzard. A quel comportamento, Kate sgranò gli occhi e si fece subito attenta. Rimase stupito anche il colonnello. Non si aspettava che i due sapessero qualcosa. “Johanna Beckett?”
“Conoscete mia madre?” domandò subito Kate a bassa voce, lottando contro il suo accento. “L’avete vista?” C’era un’eccitazione repressa nel suo tono, mista ad autentica speranza, che non poteva che indicare che la sua storia fosse vera, che cercava davvero sua madre. L’atteggiamento di Alwara cambiò completamente, mentre quello di Edzard, seppure più tranquillo, rimase ancora un po’ diffidente.
“Ha alloggiato qui circa tre mesi fa per due settimane.” rispose Alwara dolcemente. “Ora che me lo fate notare, tu le assomigli molto.”
“Sapete dov’è ora??” chiese ancora più eccitata Beckett. Ma la donna scosse la testa dispiaciuta.
“No, bambina.” replicò. Kate sembrò afflosciarsi su sé stessa. Per un attimo Rick fu tentato di abbracciarla. Si stupì da solo di quel pensiero. Non era solito dare abbracci agli sconosciuti, anche se belle donne, ma lei… lei era diversa.
“Capite ora perché siamo qui?” domandò alla fine Castle, dopo qualche momento di silenzio, guardando marito e moglie. “Ha bisogno di un posto dove stare mentre faccio delle indagini sulla madre. Un posto sicuro.” Alwara annuì.
“Ce ne prenderemo cura noi.” replicò subito la donna facendo il giro del bancone per portarsi accanto a Beckett. Arrivava appena all’altezza del suo mento. “Vero, Edzard?” domandò poi retorica al marito lanciandogli un’occhiataccia mentre prendeva delicatamente Kate per un braccio. Quello borbottò qualcosa, ma annuì e si infilò senza dire altro dietro al bancone, prendendo il posto precedentemente occupato dalla moglie. “Bene!” commentò Alwara con un tono, chiaramente rivolto al marito, che voleva reprimere ogni protesta. “Andiamo, bambina, ti porto alla tua camera.” aggiunse subito dopo con tono più dolce a Beckett portandola con sé verso le scale. “Sembri molto stanca e una buona notte di sonno è quello che ti ci vuole! Non preoccuparti per la cena, tra un momento te la porto su e…”
“Un attimo!” esclamò Kate liberandosi appena della stretta protettiva di Alwara per girarsi di nuovo verso Rick. “Quando ci rivedremo?” domandò preoccupata.
“Domattina avevo in mente di andare a fare qualche domanda in giro.” rispose Castle cauto. “Per cui, se ti va bene, pensavo di venire per ora di pranzo.” Lei ci pensò su un momento, quindi annuì.
“Ok. Buonanotte.” replicò Kate salutandolo e lasciandosi finalmente portare da Alwara su per le scale.
“A domani…” mormorò Rick quando le due donne sparirono, chiacchierando sottovoce, al primo piano. Poi sospirò e infine si rivolse a Edzard di fronte a lui. L’uomo aveva ancora un’aria scettica, ma Rick era certo di poter contare sulla sua lealtà.
“Metti il mio nome per la sua camera.” disse a Edzard. “E, per favore, tenetela al sicuro.”

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Xiao!! :D
Ecco per chi si chiedeva cosa avrebbe detto Castle... beh direi che è più importante quello che NON ha detto! XD
Anyway, sarò corta stavolta! X) Spero solo vi sia piaciuto il capitolo e che almeno un poco questa storia vi stia interessando! :)
Come sempre grazie alle mie consulenti/minacciatrici Katia e Sofia! <3
A presto! :D
Lanie
ps: di tedesco non so nulla, i termini li ho presi da internet, quindi se sbaglio qualcosa è colpa di internet! XD
  
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