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Autore: LaniePaciock    09/01/2014    7 recensioni
Torniamo indietro nel tempo e spostiamoci di luogo: 1943, Berlino, Germania. Una storia diversa, ma forse simile ad altre. Un giovane colonnello, una ragazza in cerca della madre, un leale maggiore, una moglie combattiva, una cameriera silenziosa, una famiglia in fuga e un tipografo coraggioso. Cosa fa incrociare la vita di tutte queste persone? La Seconda Guerra Mondiale. E la voglia di ricominciare a vivere.
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Cap.2 Sensi di colpa
 

Castle finì di allacciarsi l’ultimo bottone argentato della divisa e rimase per un momento a osservarsi allo specchio. Era alto, in forma nei suoi 38 anni, un ampio torace ben fasciato dall’uniforme grigia, braccia forti e muscoli scattanti… eppure tutto quello non era servito a salvare l’americana. Cercò i suoi stessi occhi nello specchio. Due iridi blu lo fissavano con lo stesso sguardo abbattuto che aveva avuto durante tutta la settimana, da quando lei era morta. Non era la prima volta che vedeva qualcuno venire ucciso davanti a lui. Era un soldato, c’era una guerra in corso e abitava in un paese che aveva come leader un fanatico della pulizia etnica. In qualche modo però quella morte lo aveva scosso più di quanto avrebbe dovuto. Forse perché era una donna innocente, forse perché americana come lui. Ma, più di tutto, forse perché il dubbio di essere stato proprio lui l’artefice della sua morte lo facevano sentire colpevole.
Da quando quel colpo era partito, Castle si chiedeva chi avesse realmente sparato. Lui o il soldato? Non riusciva a ricordare chiaramente i dettagli della lotta. Ricordava solo di avergli afferrato la mano con la pistola. Chi poteva dire che non era stato lui? Magari aveva premuto il grilletto per sbaglio o schiacciato un dito all’uomo così che sparasse.
Scosse la testa mentre si alzava il colletto dell’uniforme, sistemando insieme le mostrine al collo. Aveva tentato di fare l’eroe, senza pensare che avrebbe potuto benissimo fermare il soldato se si fosse presentato e gli avesse ordinato di lasciar andare la donna, magari puntandogli la sua stessa pistola contro. La morte di lei era stato il prezzo della sua avventatezza. Non erano nemmeno riusciti a scoprire come si chiamasse. La donna non aveva indosso documenti e l’appartamento in cui si era rifugiata era abbandonato da tempo. Tutto quello che sapevano, era che i vicini l’avevano sentita parlare in inglese.
Rick sospirò esasperato, aggiustandosi intanto i gemelli ai polsi. Con quella informazione in realtà non avrebbero saputo dire neanche se la donna arrivasse dall’America, dall’Inghilterra o da qualsiasi altro luogo in cui si parlasse inglese.
Finì di sistemarsi meccanicamente l’uniforme d’ordinanza con ancora la testa piena di dubbi. Quindi si infilò il giaccone, recuperò il cappello e il mazzo di fiori che aveva comprato un paio di ore prima e uscì. Quel giorno il tempo era freddo ma per fortuna limpido. Camminò con lo sguardo basso e pensieroso per quei dieci minuti che lo separavano dalla casa di Ryan, non curandosi minimamente delle persone e dei soldati che passavano intorno a lui. Avrebbe potuto farsi portare da uno dei suoi uomini con una camionetta, ma quando aveva bisogno di schiarirsi le idee preferiva sempre fare quattro passi. Inoltre non voleva arrivare troppo presto a casa dell’amico. I Ryan lo avevano invitato per il pranzo, sicuramente per tentare di distrarlo dai suoi cupi pensieri di sensi di colpa dell’ultima settimana. Rick non era molto dell’umore e non aveva voglia di rovinare loro il pasto, ma i coniugi avevano talmente tanto insistito, dicendo che era una vita che non mangiavano insieme, e tirando anche in causa il piccolo Leandro, che non era riuscito a rifiutare.
Alla fine arrivò davanti all’abitazione. Era una piccola palazzina a due piani, stretta e alta, color rosso mattone, incassata tra altre due palazzine della stessa dimensione ma di colore leggermente differente. Castle si era sempre chiesto se le avessero fatte in quel modo per poter lasciare più privacy agli abitanti o se invece per aiutarli a fargli perdere la strada di casa nella loro stessa via.
Salì i due gradini bianchi davanti alla porta e si fermò sotto la tettoria naturale creata dal balconcino del secondo piano. Prese un respiro profondo e si impose di lasciare fuori dalla sua testa quei pensieri funerei per un po’. Quindi suonò il campanello. Nell’attesa girò lo sguardo verso la strada. C’era poca gente a quell’ora, per lo più uomini che tornavano a casa per il pranzo o donne con borse della spesa. Solo un paio di bambini gironzolavano, anche se controllati a vista dalle madri a pochi passi da loro.
In quel momento Rick sentì dei passi dietro la porta e un attimo dopo Kevin gli aprì.
“Ehi, colonnello!” lo salutò il maggiore con un sorriso facendosi da parte per farlo entrare nel piccolo corridoio che fungeva da anticamera.
“Kev.” replicò in risposta Castle con un mezzo sorriso e un cenno della testa. Si fece avanti togliendosi automaticamente il cappello e portandolo sotto braccio.
“Quelli sono per me?” domandò divertito Ryan indicando i fiori che aveva in mano.
“Spiacente.” rispose Rick subito. “Mi servono per corteggiare tua moglie.” dichiarò serio, notando Jenny arrivare proprio in quel momento con un sorriso dalla cucina. Era davvero una bella donna, il suo amico l’aveva scelta bene. Non era molto alta, ma era snella, con i capelli biondi e lunghi e gli occhi azzurri costantemente allegri. La gravidanza inoltre l’aveva resa ancora più splendente.
Quando Jenny si avvicinò Castle le fece l’occhiolino. Ryan chiuse la porta sbuffando e superò il colonnello per passare un braccio intorno alla vita della moglie con fare possessivo.
“Trovati la tua!” ribatté il maggiore in risposta. Jenny alzò gli occhi al cielo, mormorando qualcosa di molto simile a ‘bambini’, mentre il colonnello ridacchiava. La donna poi si liberò dalla stretta del marito e lo spedì in salone. Kevin si allontanò borbottando, fintamente offeso per essere stato mandato via. A quel punto lei si avvicinò a Castle con un sorriso dolce e lo baciò sulla guancia.
“Come stai, Rick?” gli chiese. Voleva essere una domanda di circostanza, ma non era riuscita a nascondere la seria preoccupazione che aveva per lui. Castle e Ryan erano come fratelli, quindi per lui Jenny era come una cognata acquisita che si preoccupava per il suo benessere come per il marito. Prima della guerra inoltre era sempre stata la prima a presentargli ragazze che potessero finalmente accasarlo.
“Bene…” mentì lui, porgendole i fiori ed evitando accuratamente di guardarla negli occhi.
“ZIO RICK!!” Una vocetta squillante li fece voltare entrambi verso la fine del corridoio, dove si trovava il salone.
“Ciao Leandro!” lo salutò Castle con il primo sorriso sincero che aveva in volto da tutta la settimana. Il piccolo arrivò di corsa e lui lo prese al volo. “Wow, siamo diventati pesanti!” commentò ridacchiando per lo sforzo, mentre quello gli si attaccava al collo.
“Non sono pesante!” replicò il bambino facendo una smorfia. “Sei tu che stai invecchiando, zio!” continuò poi Leandro con aria seria, facendolo restare a bocca aperta.
“Vecchio io??” esclamò Rick con gli occhi sgranati. “Hai sentito??” domandò poi scandalizzato rivolto a Jenny accanto a lui. “Mi ha dato del vecchio!! Ah, ma io lo so chi è stato!” aggiunse poi tornando a guardare il piccolo. “E’ stato quel simpaticone di zio Kev insieme a tuo padre, ne sono certo!” Leandro ridacchiò e gli lasciò un bacio sulla guancia come ricompensa per la sua faccia offesa. In risposta Castle gli scompigliò i capelli neri con un sorriso affettuoso. In poco tempo si era affezionato molto a quello scricciolo. Leandro era piccolo e magrolino, ma stava crescendo in fretta. Con la carnagione un po’ scura che si ritrovava, gli occhi neri, vivaci e caldi, e il carattere aperto che aveva, Rick era sicuro che a breve avrebbe fatto strage di cuori. Sempre che la guerra in corso glielo avesse permesso.
“Leando, vai di là e dì a tutti di lavarsi le mani mentre zio Rick si toglie la giacca che ora è pronto.” gli disse dolcemente Jenny. Quello annuì subito e attese che Castle lo posasse a terra.
Rick sospirò e lo mise giù, pregando che il bambino non conoscesse mai gli orrori della guerra e della morte che avevano vissuto molti suoi coetanei. Leandro schizzò subito verso il salone, sparendo dalla sua vista, per avvertire che stavano per pranzare. A quel punto Castle recuperò il cappello dal pavimento, che gli era caduto quando aveva afferrato al volo il piccolo, e si tolse la giacca per posarli entrambi sull’attaccapanni poco lontano da lui. Jenny gli lanciò un’occhiata del tipo ‘per stavolta ti sei salvato’ e poi sparì in una porta laterale che dava sulla cucina insieme ai fiori. Il colonnello sospirò internamente sollevato. Quindi si voltò verso un’altra porta, nella parte opposta del corridoio, per andare in bagno.
“Ben arrivato, Herr Castle.” L’uomo si fermò e fece un mezzo sorriso nel sentirsi chiamare così. Tutti lo nominavano sempre con il suo grado dell’esercito, o semplicemente con il cognome, ma una sola persona preferiva usare il termine di signore: Victoria Gates, la cameriera di casa Ryan. Castle era certo che in passato la donna avesse avuto dei problemi con i soldati, ma non aveva mai saputo quali. D’altronde la Gates non era una signora di molte parole. Però era saggia e sempre pronta a rispondere a tono. Non era la classica domestica infatti. Aveva la carnagione scura, cosa non molto comune in quegli anni in Germania, inoltre era piccola e di una certa età, ma era anche una gran lavoratrice e fedele domestica. Lavorava in quella casa perché sapeva di essere al sicuro con Kevin e Jenny. Inoltre era pagata, e Castle sapeva che mandava buona parte dei soldi che guadagnava alla sua famiglia, nascosta alla periferia della città, spesso tramite lo stesso Ryan.
Rick si voltò di nuovo e infatti si ritrovò davanti la cameriera con un grosso vassoio d’argento chiuso da un coperchio. Aveva al solito un’aria severa, ma il colonnello sapeva che per lo più era facciata. La prima volta che l’aveva incontrata, si era convinto che lei ce l’avesse con lui. E forse era stato anche così, visti i suoi borbottii ogni volta che si parlava di guerra e soldati e soprattutto quando lui ne parlava, come se non capisse davvero cosa stesse dicendo. Con il tempo però avevano imparato a rispettarsi e a rimanere se non altro in buoni rapporti. Anche se a volte ancora lo preoccupavano quegli sguardi taglienti che gli lanciava. Nonostante questo, Castle aveva visto come la Gates si comportava quando c’erano bambini in giro. Ogni volta che uno era presente in casa, lei diventava peggio di una tata premurosa. Con Leandro era stata la stessa cosa. E il colonnello era sicuro che fosse stata anche tra le prime a gioire per la notizia della nascita del piccolo Ryan.
Frau Gates.” la salutò di rimando Castle con un mezzo sorriso, accennando insieme un inchino con il capo.
“Farà meglio a sbrigarsi perché sto mettendo in tavola.” dichiarò secca la donna alzando appena il vassoio tra le sue mani per fargli capire meglio il concetto. Rick in risposta le fece un saluto militare all’americana, portando la mano tesa alla fronte e mettendosi sull’attenti.
“Sì, signora!” esclamò subito. La Gates gli lanciò un’occhiataccia, ma il colonnello vide anche un guizzo divertito nei suoi occhi neri. Quindi sbuffò appena, come scocciata ed esasperata insieme, e si voltò per andare a portare il vassoio in salone. Castle ridacchiò e andò in bagno a lavarsi le mani. Aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua fredda. Si lavò le mani con cura usando la saponetta bianca posta lì accanto.
A un certo punto però il suo sguardo si perse. Un ricordo lo colpì all’improvviso. Una ruga profonda gli si formò in mezzo alla fronte per l’ansia. Per un attimo rivide le sue mani sporche di sangue. Il sangue della donna che aveva cercato di salvare. Perfino dopo aver visto la sua espressione spaventata, pallida e spenta, morta, si era buttato su di lei nel tentativo di fermare quel fiotto rosso sul suo petto che si affievoliva sempre più. Ma era stato troppo tardi. Era dovuto intervenire Ryan per farlo staccare da quella sconosciuta. L’aveva alzato di peso e l’aveva portato fuori da quell’appartamento all’improvviso diventato soffocante e odorante di morte. Aveva scalciato, pregato Kevin di farlo tornare da lei, da quell’innocente che non meritava la morte, da quella donna che avrebbe dovuto proteggere e che invece aveva finito per ammazzare!
Il respiro gli si fece veloce e pesante. Il sangue rosso era ancora vivido sulle sue mani. Non riusciva a toglierlo! Non riusciva a…!
“ZIO RICK!!” La voce del piccolo Leandro proveniente dal salone riportò Castle bruscamente alla realtà. Si accorse di essere leggermente sudato, ansante, le mani strette a pugno sopra il lavandino tanto forte da conficcarsi quasi le unghie nella pelle. Notò che aveva ancora in mano la saponetta. L’aveva deformata completamente nella sua stretta. La lasciò andare come se scottasse e quella cadde con un tonfo nell’acqua del lavandino ancora aperto. Deglutì, sbattendo insieme gli occhi e scuotendo la testa per riprendere lucidità. Poi aggrottò le sopracciglia, confuso e preoccupato, mentre il suo cuore tentava di diminuire i battiti cardiaci. La domanda che aveva di nuovo in testa era sempre la stessa: Perché lei mi fa questo effetto?
“Zio Rick!” Castle sussultò spaventato e si voltò di scatto verso la porta del bagno, gli occhi sgranati e la bocca semiaperta. Cercò di ricomporsi immediatamente non appena vide Leandro che lo guardava preoccupato e un po’ spaventato per la sua espressione. “Zio, stai… stai bene?” domandò esitante. Il colonnello spostò lo sguardo dal bambino, deglutì di nuovo e si passò una mano umida tra i capelli. Quindi prese un respiro profondo e tornò a osservarlo, cercando di simulare una calma che non aveva.
“Sì… sì, sto bene.” replicò Rick con un mezzo sorriso incerto. “Scusami, io… arrivo subito.” continuò poi con tono più sicuro, spostando però gli occhi da Leandro ancora fermo sulla soglia del bagno. “Finisco di lavarmi le mani e vi raggiungo.” concluse infine recuperando la saponetta e iniziando a sfregarsela sulle mani con colpi decisi.
“Ok…” sentì mormorare il piccolo a bassa voce. Quindi un lieve scalpiccio gli indicò che se ne era andato. Castle lanciò un’occhiata alla porta per assicurarsi che non ci fosse nessuno e sospirò stancamente. Poi alzò gli occhi sull’immagine riflessa di sé stesso nello specchio sopra il lavandino. Era ancora un po’ pallido e le borse sotto gli occhi si erano fatte più vistose. Scosse la testa, quindi mise le mani a coppa e le riempì d’acqua gelata che si gettò poi in faccia. Doveva restare lucido. Dai Ryan non si poteva attaccare a una bottiglia per dimenticare quelle immagini.
Chiuse il rubinetto e osservò ancora per un attimo le sue mani, ora bagnate e pulite. Poi prese un respiro profondo, si asciugò e si preparò a sfoggiare il miglior sorriso che gli sarebbe riuscito per il pranzo.
 
“Ehi, amico, allora non ti sei perso!” esclamò Javier Esposito divertito, vedendo finalmente entrare Castle nel salone. Il colonnello scosse la testa e sorrise all’uomo. Javier era più basso di lui, pelle scura e capelli neri ricci tagliati a spazzola. Dai muscoli delle braccia, che si intravedevano dalla camicia bianca che portava, si poteva intuire che una volta doveva essere stato in gran forma. Ora però la vita familiare, e soprattutto lo stare nascosto in casa tutto il giorno, l’avevano impigrito e una lieve pancetta si poteva facilmente intravedere dai bottoni tesi sullo stomaco. Castle conosceva poco del suo passato perché l’uomo non ne parlava volentieri. Sapeva solo che si era trasferito con Lanie, sua consorte da circa nove anni, in Germania dall’America poco prima di sposarsi per cercare un lavoro migliore nella Berlino in forte crescita. Una cosa che Rick aveva notato avere in comune con la moglie, era che erano entrambi testardi e orgogliosi, ma anche focosi e piuttosto maliziosi.
“Lascialo in pace, Javi!” lo riprese severamente Lanie al suo fianco. Lei era più bassa del marito, pelle scura, lunghi capelli neri e lisci, aveva inoltre labbra piene e un seno prosperoso. Una volta l’aveva vista mentre aveva indosso una sottoveste piuttosto scollata e girava per casa di Ryan liberamente e senza vergogna. Castle era entrato per parlare con Kevin e se la era ritrovata davanti in quell’abbigliamento. Era rimasto imbambolato a fissarla all’altezza del seno e per poco non si era beccato un cazzotto da Esposito, arrivato in quel momento dalla loro camera segreta. Ovviamente Javier sapeva che il colonnello non ci avrebbe mai provato con la moglie, ma aveva voluto ricordargli di chi era la donna a modo suo, da vero macho latino qual era. “Ha passato una settimana difficile.” continuò Lanie sempre rivolta al marito, ma lanciando insieme un’occhiata preoccupata a Castle. Ecco un’altra che si preoccupa per me… pensò Rick con un misto di irritazione e affetto. A causa del lungo tempo che avevano già passato in casa Ryan, ormai anche loro erano diventati un po’ parte della famiglia. Quando sarebbe giunto il momento però, quel legame avrebbe reso solo più difficile l’addio.
“Lo so, ma ho fame!” replicò Javier con una smorfia. “Non posso mica aspettare che cerchi di salvare tutte le donne della città, no?” aggiunse poi verso il colonnello strizzandogli l’occhio. Rick sbuffò divertito. Era il suo modo di confortare le persone: scherzare sull’accaduto. In effetti non era male come idea. Forse solo un po’ cupa, ma d’altronde, con una guerra in corso, ‘cupa’ era sempre meglio di ‘nera’.
“Come stai, Castle?” domandò Lanie, ignorando il commento del marito. Il colonnello sospirò. Non sapeva più quanta gente gli avesse fatto quella domanda nell’ultima settimana.
“Bene.” mentì ancora una volta, girando lo sguardo per la stanza alla ricerca di Leandro. Il salone dei Ryan era piuttosto ampio e ben arredato con mobili in legno scuro. Una libreria piuttosto fornita campeggiava a lato della stanza, dove stavano anche una poltrona e un divano su cui erano seduti gli Esposito, mentre di fronte si trovava una credenza antica davanti alla quale c’era il tavolo da pranzo. Il tavolo era già coperto da una tovaglia bianca e apparecchiato di tutto. Sulla parete di mezzo c’era una grande finestra che riusciva a illuminare da sola tutto lo spazio circostante.
“Si mangia!” annunciò allegro Ryan entrando in quel momento dalla cucina con il cestino del pane. Nonostante avessero una cameriera, sia Jenny che Kevin preferivano non trattarla da serva. Certo, la donna puliva, lavava e preparava il pranzo, ma entrambi la aiutavano, anche se ora di meno con Jenny incinta e il maggiore sempre fuori casa. Inoltre era la Gates che controllava la casa e i suoi ‘ospiti’ ogni volta che marito e moglie erano fuori.
Kevin posò il pane sul tavolo e fece cenno agli altri di avvicinarsi per prendere posto. Castle notò che al centro c’era un grande vassoio con un mucchio di tartine dai colori differenti. Doveva essere quello che aveva prima in mano la cameriera quando era entrato.
“Non siete ancora seduti?” borbottò entrando in salone la Gates, arrivando proprio in quel momento con un altro vassoio, questa volta aperto e con un grosso pezzo di carne fumante ben visibile, lanciando occhiatacce a tutti.
“Arriviamo!” dichiarò subito Esposito alzandosi di scatto e filando verso il tavolo. Più che il cibo, Castle sospettò che fosse stato lo sguardo della cameriera a farlo schizzare in piedi.
“Leandro!” chiamò Lanie una volta in piedi. “Vieni che è ora di mangiare!” Castle si guardò intorno e finalmente scorse il bambino dietro le tende della portafinestra con in mano due cavalli giocattolo. Il colonnello lo guardò con tenerezza. La finestra era uno dei posti preferiti del piccolo, nonostante il rischio di essere visto, per via della luce che vi entrava e di quel poco di paesaggio che vedeva. Doveva mancargli davvero tanto lo scorrazzare libero all’aria aperta e poteva anche capirlo.
Leandro corse nella camera segreta a posare i giocattoli, quindi tornò in salone. Appena gli passò davanti, Castle lo prese al volo e lo lanciò per aria. Il bambino, che all’inizio aveva un’aria preoccupata per la faccia strana che gli aveva visto in bagno, cominciò a ridere mentre il colonnello lo faceva volare per quei pochi centimetri lontano dalle sue mani per poi riprenderlo al volo.
“Pronto per la pappa?” domandò alla fine Rick tenendo il bambino in braccio mentre ancora ridacchiava. Leandro annuì subito.
“C’è anche il dolce dopo!” esclamò poi dimenticando completamente l’episodio del bagno. “E io ho aiutato a farlo!” aggiunse orgoglioso.
“Davvero?” domandò Castle divertito. “Possiamo fidarci a mangiarlo, allora?” chiese poi avvicinandosi al tavolo mentre anche Jenny e Kevin prendevano posto insieme a Lanie e Javier. Il bambino mise il broncio alla sua affermazione e Rick ridacchiò. Quindi gli scoccò un bacio sulla guancia e lo mise direttamente sulla sua sedia. “Sono sicuro che sarà venuto buonissimo.” disse poi con tono di voce dolce, scompigliando i capelli scuri del piccolo. Leandro sorrise felice. Quindi venne distratto dalla Gates che gli stava servendo proprio in quel momento una bella fetta di carne. Castle andò a prendere posto insieme a quella che ormai era diventata un po’ la sua famiglia.
 
“Si sa qualcosa di Amburgo?” domandò cauto Esposito rivolto sia a Ryan che a Castle. Avevano finito di mangiare e tutti e tre si erano spostati a lato del salone, avvicinando l’apparecchio radio, situato prima in un angolo per evitare che qualcuno lo rompesse accidentalmente, per sentire le ultime notizie. Rick e Javier si erano posizionati sul divano, Kevin invece era seduto sulla poltrona. Tutti e tre avevano un’aria pensierosa e addolorata. Jenny e Lanie erano in cucina insieme alla Gates per chiacchierare e intanto lavare piatti e posate. Leandro era di nuovo alla finestra con i suoi soldatini e cavalli giocattolo.
La radio aveva appena annunciato che il numero delle vittime dell’attacco aereo su Amburgo, avvenuto tra il 25 luglio e il 3 agosto, era stato altissimo anche se non era stata ancora fatta una stima precisa nonostante i mesi di distanza. I feriti, gli sfollati e i dispersi erano inoltre ancora incalcolabili. Si parlava di un’intera città quasi rasa al suolo, case e chiese cadute come castelli di carta, esplosioni e incendi ovunque...
“I dati ufficiali non sono ancora stati diramati.” rispose Castle con un sospiro. “Ma si contano sulle cinquantamila vittime…”
“Cinquatamila??” ripeté incredulo Ryan scuotendo la testa. Erano entrambi soldati e conoscevano cosa volesse dire mandare avanti una guerra in termini di vite umane, ma quello era qualcosa di completamente diverso. Era bombardare una città con quasi il solo scopo di fare il più alto numero di vittime civili tra i nemici per demoralizzare il rivale e costringerlo ad arrendersi.
“Probabilmente di più.” aggiunse il colonnello con tono mesto, lo sguardo puntato sulla radio davanti a sé, ma la testa altrove. Era stato ad Amburgo due mesi prima per ordine del suo superiore. Aveva dovuto fare una stima dei danni e redigere un rapporto iniziale su cosa era ancora sfruttabile militarmente. Non ci aveva messo molto. Mezza città era stata distrutta, soprattutto la parte delle fabbriche e degli alloggi militari. Moltissimi innocenti però c’erano andati di mezzo per il solo fatto di abitare ad Amburgo. Aveva visto i danni delle bombe ai pavimenti, ai muri, alle case. Tutto era stato almeno in parte danneggiato. Anche perché avevano usato un altro tipo di arma oltre le bombe normali. Era un tipo di bomba particolare, che il colonnello sapeva ancora in via di sperimentazione. Evidentemente avevano usato Amburgo come camera di prova.
Castle aveva visto i muri neri, le ceneri di ciò che il fuoco aveva bruciato. Non solo oggetti. Soprattutto persone. Aveva visto i corpi sfigurati dei morti e dei vivi, con la carne viva e pulsante in vista e i brandelli di pelle laceri e neri lungo il corpo. Bombe incendiarie. Ecco cosa avevano usato sulla città. Castle aveva ancora in testa le urla dei feriti e i loro sguardi spenti e doloranti. Per chi ancora aveva gli occhi per poter guardare.
“Pensate che attaccheranno di nuovo?” domandò Esposito, togliendo Rick dall’orrore dei suoi pensieri.
“Amburgo? Non credo.” replicò Ryan andando a girare una manopola per spegnere la radio. Dopo diversi minuti di cupo gracchiare, scese il silenzio. “Hanno fatto così tanti danni che ci vorranno anni per rimetterla in sesto. Non è più un punto strategico…”
“Intendo Berlino.” lo fermò Javier. Castle alzò gli occhi e si accorse che lo sguardo preoccupato di Esposito era rivolto dietro di lui, verso il piccolo Leandro seminascosto da una tenda a giocare. “Finora hanno attaccato sporadicamente Berlino e si sono concentrati su altre città, però…”
“Quelli non erano attacchi.” mormorò cupo Rick. Sapeva di cosa parlava Javier. Tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre c’erano state diverse incursioni aeree su Berlino, ma, a parte l’ultima, nessuna aveva causato danni davvero ingenti. Il 23 agosto gli inglesi avevano gettato bombe a caso, senza un bersaglio preciso e avevano finito per fare poche rovine e anzi molti velivoli erano stati abbattuti dai cannoni antiaerei. Il 31 agosto avevano sbagliato proprio punto di sganciamento, col solo risultato di abbattere qualche fattoria a 50 km di distanza. L’ultimo attacco però, la notte del 3 settembre, nonostante fosse stato mal progettato anche in quel caso, aveva finito per danneggiare diversi quartieri più periferici. Uno dei suoi tenenti aveva perso la moglie e due figli a causa di una bomba che aveva fatto crollare la casa in cui abitavano. Dopo quello, molti berlinesi avevano deciso di lasciare la città per paura di un nuovo attacco. E forse non avevano avuto tutti i torti, perché quello non era stato per niente un attacco mirato a Berlino. “Erano solo esercitazioni.” continuò con lo stesso tono Castle.
“Ma sono passati tre mesi dalla loro ultima incursione…” iniziò Ryan speranzoso. Il maggiore cercava di trovare un lato positivo a causa del figlio che sua moglie portava in grembo. Voleva, o meglio sperava, che potessero restare al sicuro entrambi. Ma in quella guerra nessuno era al sicuro.
“Vuol dire solo che dobbiamo aspettarcelo da un momento all’altro.” concluse il colonnello preoccupato e pensieroso, gli occhi rivolti verso il bambino alla finestra.
 
Castle salutò tutti e uscì dalla casa dei Ryan solo a pomeriggio inoltrato. Dopo la conversazione seria e pesante avuta con Kevin e Javier, aveva sentito il bisogno di qualcosa di più leggero. Così aveva iniziato a giocare con Leandro mentre gli altri adulti li guardavano ridacchiando. Non era una cosa comune in fondo vedere un bambino magrolino di sette anni che dava ordini a un uomo, per di più colonnello grande e grosso, su come muoversi con i soldati e i cavalli lungo il campo di battaglia che era il pavimento del salone. Quel carattere docile e da bambinone veniva fuori raramente in Rick. Con il lavoro che faceva era obbligato a darsi un contegno e al suo appartamento non aveva nessuno con cui far uscire quel lato di lui. Quindi quando aveva intorno Leandro, Castle diventava la persona più giocherellona e tenera del mondo. Una cosa che si concedeva di fare solo davanti agli occhi dei Ryan e degli Esposito.
Castle rabbrividì appena nel cappotto. Il contrasto tra il caldo della casa e il freddo dell’esterno era notevole. Si notava che erano in novembre. Le giornate si erano fatte più gelide e grigie e si erano accorciate vistosamente. Ormai era già quasi buio. Il colonnello alzò il bavero della giacca e si calcò di più il cappello in testa per proteggersi dal venticello leggero ma freddo che si era alzato, quindi si incamminò verso il suo appartamento. Aveva ancora in testa la conversazione di prima. Gli inglesi avrebbero attaccato presto Berlino, ne era certo. Era in quei momenti che si chiedeva se non avesse fatto meglio a restare in America, facendo magari un altro mestiere, invece di seguire il volere di suo padre. Non era la paura per sé stesso che lo preoccupava però. Era il terrore di perdere qualcuno a cui voleva bene. Ryan era un soldato come lui e sarebbe potuto cadere sotto uno degli attacchi cercando di difendere la città. Oppure avrebbero potuto colpire la sua casa e allora sarebbero rimasti sotto le macerie Jenny, gli Esposito, il piccolo Leandro o anche la Gates. Oppure ancora una bomba avrebbe potuto far saltare in aria uno dei teatri in cui sua madre recitava e…
Castle scosse violentemente il capo come a voler scacciare tutti quei pensieri dalla sua testa. Non poteva pensare a quello. Se avesse continuato a vedere i corpi dei suoi amici o di sua madre morti davanti a lui, avrebbe preso tutto e se ne sarebbe andato, Dio sa solo dove. Ovunque tranne che in Germania. E si sarebbe portato dietro tutti loro. Ma in fondo dove andare? L’aveva capito già prima: si combatteva non solo lì, ma anche nel resto del mondo. Nessuno era al sicuro in quella guerra.
Il colonnello sospirò e, alzando gli occhi, si accorse di essere praticamente arrivato a casa. Scosse la testa stupito. Non aveva prestato la minima attenzione alla strada. Dopo neanche un minuto stava salendo i pochi gradini verso la porta della sua abitazione. Tirò fuori le chiavi da una tasca e aprì la porta. Una volta dentro la richiuse e poi si tolse cappotto e berretto, andandoli ad appendere sull’attaccapanni lì vicino. Come abitazione era molto simile a quella di Ryan, palazzina piuttosto stretta, anche se meno di quella di Kevin, alta a due piani e incassata tra altri due alloggi, ma un po’ più grande e più spoglia. Castle non ci aveva mai tenuto troppo ad arredarla. Qualche foto, un paio di dipinti e oggetti particolari, come una spada intarsiata appesa a una parete, ma niente gli dava una sensazione di calore vero come la casa dei Ryan. Probabilmente era il fatto che fossero una famiglia, mentre lui era sempre solo, a eccezione della madre che veniva a trovarlo di tanto in tanto, fermandosi a volte a dormire. Quella in cui stava non riusciva a vederla come casa sua comunque. Gli era stata assegnata quando era diventato Maggiore e sarebbe rimasta sua finché non fosse diventato Generale. Ma non era davvero sua. L’unica cosa che considerava più vicino a una casa era il piccolo appartamento in cui aveva vissuto con i genitori, finché il padre non era morto, e dove viveva attualmente la madre. Più o meno da quel tempo i suoi alloggi gli erano sempre stati assegnati nelle zone in cui sarebbe stato utile militarmente.
Si passò una mano tra i capelli e si sbottonò la giacca dell’uniforme mentre attraversava il piccolo corridoio d’ingresso per infilarsi nel salone. Lanciò un’occhiata alla pendola a uno dei lati della stanza e vide che mancava ancora più di un’ora prima del suo turno alla postazione di difesa. Per un momento pensò di dormire un po’, ma poi ci ripensò. Era capace di addormentarsi e risvegliarsi il mattino dopo invece che un’ora più tardi.
Castle si guardò pensieroso intorno, poi gli venne in mente che poteva fare. Si diresse quindi verso un’altra stanza che avrebbe dovuto fungere da studio privato, ma che lui aveva trasformato in una piccola biblioteca. Amava leggere, soprattutto i romanzi investigativi, d’azione e di fantascienza. Era la sua debolezza. Una debolezza che doveva tenere nascosta perché la Germania nazista non vedeva di buon occhio i libri, soprattutto se americani o comunque stranieri. Rick ricordava bene il rogo dei libri avvenuto dieci anni prima. Quello era stato solo l’inizio del peggior potere mai esistito. Per fortuna lui non aveva praticamente mai ospiti in casa a cui doverli nascondere.
Scosse la testa per liberare la mente da quei pensieri, quindi si mise alla ricerca di un libro che lo interessasse e distraesse per un po’. Tre pareti su quattro erano scaffali pieni di volumi e al centro della sala c’erano due grosse e comode poltrone con un tavolino in mezzo. Cercò per qualche minuto finché non trovò un titolo che lo attirasse. In realtà aveva già letto quasi tutti i libri, ma gli piaceva rileggerli di tanto in tanto. Alla fine il suo sguardo fu catturato da Ten Little Indians di Agatha Christie. Lo prese e si tolse la giubba dell’uniforme lasciandola su una poltrona per poi sedersi sull’altra, rimanendo così con la sola camicia bianca per stare più comodo. Sprofondò un po’ nella poltrona e aprì il libro. In un’altra vita, pensò Castle mentre sfogliava lentamente le pagine iniziali per arrivare al primo capitolo, mi sarebbe piaciuto fare lo scrittore. Avrei scritto storie d’azione e di spionaggio, mettendoci anche una bella donna per il protagonista. Forse avrei potuto anche farlo innamorare… ma alla fine avrebbe dovuto lasciarla comunque per via del suo lavoro. O magari sarebbe morto lui. Però avrebbe potuto anche essere solo morto per finta e ritirarsi a vita privata. Magari solo per un po’, finché non fosse stato richiamato e… Un mezzo sorriso comparve sulle labbra del colonnello. Un sorriso triste. In un’altra vita. pensò. Una vita senza guerra.
 
Un’ora e mezza più tardi, Castle era alla sua centrale operativa. ‘Centrale operativa’ in effetti era un po’ un’esagerazione. In realtà era un piccolo edificio grigio con poche finestre e molti uffici. Il suo pregio però era che aveva uno spiazzo sul retro molto ampio, ottimo per radunare i soldati nei casi di emergenza per impartirgli gli ordini dovuti e anche abbastanza grande da tenere un paio di cannoni antiaerei con relativi proiettili.
Il colonnello si fermò per un momento sulla soglia dell’uscita dell’edificio al piazzale. Diversi soldati giravano armati di mitragliette pronti per i turni di guardia, altri si allenavano da un lato con dei pesi, altri ancora giocavano a dadi in un angolo buio. Come se questo impedisse che i superiori li vedessero. In ogni caso ormai quasi nessuno sgridava più gli uomini che giocavano d’azzardo. Avevano bisogno di allentare la tensione in qualche modo e, finché non si azzuffavano, a Castle andava bene così. Avevano pure il diritto di sfogarsi. In fondo meglio quello che violentare donne o uccidere per divertimento.
Rick alzò gli occhi e rimase a osservare due soldati che, dall’altra parte dello spiazzo, davano il cambio ad altri due uomini a guardia di uno dei cannoni antiaerei. Ogni ‘centrale’ aveva le sue difese per Berlino e loro avevano due cannoni e diverse mitragliette posizionate lungo il muro perimetrale. E tutto quello faceva capo a lui. Era responsabile della sicurezza e dell’ordine di quella specie di caserma in miniatura e di tutta la zona circostante. Per fortuna erano quasi in periferia e non avevano praticamente mai grossi problemi.
“Colonnello!” lo chiamò uno dei suoi soldati dall’interno dell’edificio. Castle si voltò e attese che il Tenente Durren gli facesse il saluto prima di proseguire. “Ci sono dei civili che vogliono parlare con lei.” continuò quindi con una mezza smorfia in volto il soldato. Evidentemente non gli andava molto a genio che disturbassero il suo superiore. E Castle immaginava anche perché.
“Sono parenti di dispersi?” domandò con un sospiro, tornando a guardare malinconico verso lo spiazzo. Durren annuì.
“Perché vengono sempre a rompere qui??” domandò scocciato il Tenente senza riuscire a trattenersi. Castle sapeva che era la tensione a farlo parlare in modo brusco e senza pensare troppo. “Sembra che noi conosciamo la sorte di tutti…” Durren era giovane, di almeno dieci anni più giovane di lui, irrequieto e un po’ testa calda, ma un ottimo soldato.
“Sai bene che le foto e i nomi dei deceduti in battaglia o negli attacchi passano da qui.” replicò il colonnello con un mezzo sorriso triste. Era vero. I nomi dei morti, insieme ai loro oggetti personali o foto, arrivavano allo sbaraglio alla centrale. Lì venivano trascritti, divisi per zone di provenienza, o di morte, e inviati di nuovo verso la sede principale di Berlino, che si sarebbe presa il compito di avvertire le famiglie o comunque di fare una lista di facile consultazione. “Cercano solo di capire la sorte dei loro cari.” continuò Castle, distogliendo alla fine gli occhi dal piazzale per rivolgerli verso l’ansioso tenente davanti a lui. Quello annuì e abbassò gli occhi come dispiaciuto. “Dove sono?”
“Alcuni già nel suo ufficio.” replicò Durren con di nuovo un tono un po’ seccato. “Qualcuno è rimasto nell’atrio.” continuò poi, stavolta con un’inflessione diversa nella voce. “E c’è una donna tra loro che vorrei tanto andare a consolare, se permette, Colonnello…” Rick ridacchiò per l’aria furba di Durren. Non era la prima volta che cercava di ‘consolare’ una bella vedova.
“Prima aspetta almeno che ci parli, Tenente!” dichiarò Castle divertito. Quindi gli passò davanti e si inoltrò nello stretto corridoio davanti a lui, superando le molte porte aperte e rumorose lungo la strada, piene di soldati indaffarati a trascrivere nomi, conservare foto, passare messaggi e altro.
“Dovrebbe vederla, Colonnello!” continuò il tenente con aria sognante come se Rick non avesse parlato. “E’ una visione!”
“Beh, spera che la tua visione non ci dia troppe grane, Durren.” lo bloccò Castle scuotendo la testa esasperato, ma con un lieve sorriso divertito sulle labbra. “O potrai scordarti di consolarla.” Il colonnello sentì prima un leggero sbuffo e poi un borbottato “Sì, signore.” alle sue spalle proveniente dal tenente.
In quel momento arrivarono all’atrio dell’edificio. Era piuttosto ampio, con un tavolo sul lato opposto della sala rispetto al portone d’entrata che avrebbe dovuto fungere da banco accettazione. In realtà era più un punto informazioni per le persone che venivano a cercare i loro parenti o amici. C’era infatti una grande bacheca, che occupava quasi interamente una delle pareti laterali dell’atrio, che conteneva nomi e, nei casi fortunati, foto dei morti più recenti. Quando però un nome non veniva trovato, allora i parenti si rivolgevano al banco per sapere se erano arrivate notizie della tal persona che abitava nella tal città che era stata appena bombardata. Spesso infatti i nomi erano talmente tanti da non riuscire a farceli stare nella bacheca, così i soldati al banco si occupavano di cercare negli archivi le copie dei certificati di morte mandati alla sede centrale oppure di visionare tra i nuovi arrivi se ci fossero corrispondenze.
Castle alzò gli occhi verso la parete ingombra di gente. Era stracolma di foto in bianco e nero e nomi scritti su pezzi di carta attaccati alla meno peggio con uno spillo al sughero della bacheca. Il loro numero era aumentato vertiginosamente negli ultimi mesi. Le persone alla timorosa ricerca dei nomi dei loro cari erano molte, tanto che si faticava a intravedere le immagini appese. Spesso accadeva che qualcuno non riuscisse a trovare il nome della persona che cercava, o che al contrario la trovasse, ma non volesse credere che quella fosse la realtà, e allora Castle si ritrovava a dover combattere anche con civili delusi, addolorati o ostili, che pensavano che ci fosse stato un errore di trascrizione. Succedeva ogni giorno ormai. La fila davanti al suo ufficio era sempre più lunga.
Il colonnello stava già per prendere le scale, sulla parete opposta a quella della bacheca, per salire al suo ufficio, quando qualcosa all’improvviso lo trattenne dal muoversi. Aggrottò le sopracciglia, mentre scrutava meglio tra la folla davanti a lui. Poi capì cosa l’aveva bloccato. Rimase a bocca aperta, gli occhi sgranati, il fiato d’un tratto corto e il cuore in accelerazione.
“Ah! E io cosa le avevo detto, Colonnello?” dichiarò Durren allegro quando vide cosa stava guardando il suo superiore. “Non è una visione?”
Doveva essere davvero una visione. O un sogno. O un incubo. Per forza. Perché quella donna non poteva essere davvero lì. Era morta. Morta sotto i suoi occhi a causa di un proiettile in mezzo al petto. Dissanguata in pochi secondi davanti a lui. Ma allora come era possibile che fosse viva e in salute a pochi passi da lui?
Prima che Castle riuscisse a dire o fare qualcosa, la donna si voltò e lo vide. Per un momento il colonnello tremò quando gli occhi color verde-nocciola, lucidi e attenti, di lei incontrarono i suoi. Erano così uguali e insieme così diversi da quegli occhi marroni, spenti e morti, della donna che aveva visto morire in un piccolo appartamento la settimana precedente. Rick non riusciva a muoversi. Sembrava pietrificato sul posto. Una parte nascosta di lui aveva sempre creduto alla magia, agli alieni e ai fatti paranormali… ma la resurrezione non l’aveva mai ritenuta possibile.
Poi la donna si mosse nella sua direzione e il colonnello trattenne il respiro. Pochi passi dopo era già davanti a lui.
“Lei è il Colonnello Castle?” domandò la donna. Ha una bella voce… si sorprese a pensare Rick. Ma con un forte accento… Scosse violentemente la testa, quindi sbatté per un momento le palpebre per riprendere lucidità. In fondo era sempre un colonnello dell’esercito. Avrebbe dovuto saper gestire ogni situazione!
Si schiarì la gola e annuì.
“Sì, sono io.” rispose Castle cercando di essere il più indifferente possibile. “Cosa vuole?”
“Sto cercando mia madre.” rispose senza mezzi termini la donna. “Voglio sapere se è viva e mi hanno detto di venire da lei.” Castle la studiò per un momento e finalmente vide che era più giovane della donna che aveva visto morire. Capì di aver sbagliato. Non era un fantasma. Era la figlia della donna. All’improvviso si sentì insieme sollevato e in colpa.
“Come ti chiami?” domandò con un tono un po’ più informale, sentendo anche le difficoltà di lei nel parlare tedesco.
“Beckett.” rispose. “Kate Beckett.”

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Xiao!! :D
Ecco qui il secondo cap! X) Mi scuso se il primo è risultato un po' lento, ma dovevo raccontare per forza qualcosa dei protagonisti perché fosse più facile comprenderli... Per chi aveva pensato che la donna nell'appartamento fosse Kate... Beh, direi che ora sapete che non è lei! XD
Spero di aver iniziato a suscitare qualche interesse in più per la storia... XD 
Boh, buona settimana! ;D (e buon PCA a chi lo guarda stasera! Incrocio tutte le dita!!!!!)
A presto! :) 
Lanie
ps: pubblicherò di nuovo mercoledì prossimo! ;)
pps: di nuovo grazie alle mie super consulenti Katia e Sofy (anche se una delle due è un po' oberata di studio povera...) <3
  
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