Insieme, scrivo, perchè sta tutto lì in realtà, lì in mezzo, in quella 'e' che divide i loro nomi -- in quella congiunzione che, inspiegabilmente, li unisce.
[ShikaTema]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Shikamaru Nara, Temari | Coppie: Shikamaru/Temari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
Stava lentamente, ma progressivamente capendo che qualunque cosa
risiedesse in mezzo a loro non aveva poi molta importanza -- non quando
il tocco più blando riusciva a trasformarsi in un fiume di
lava
terribilmente bollente, non quando la minima distanza tra lui e il suo
corpo, o tra lei e il suo,
riusciva a far star male in modo del tutto irrazionale e infantile
quasi, come quando dividi un bambino dal suo giocattolo preferito, come
quando non riesci a dormire nonostante i muscoli spossati, le ossa
indolenzite e le tempie che pulsano di un dolore incontrollabile.
Non aveva, poi, molta importanza guardarsi allo specchio per capire la
differenza, per anche solo cercarla tra lo spazio degli occhi, sulle
occhiaie, nella curva frustrata delle labbra quando un litigio li
vedeva dividersi quasi a forza, quasi a strapparsi per
andare il più lontano possibile dall'altro.
Perchè faceva male. Tutto quello che c'era -- o non c'era -- in
mezzo a loro faceva male.
I suoi capelli, ad esempio, diventavano crespi quando il sudore si
asciugava e gli graffiavano la pelle quando l'unica cosa che avrebbe
voluto era un letto cosparso di cose morbide; le sue braccia lo
tenevano stretto per almeno cinque minuti quando disincastravano le
gambe e ricominciavano ad usare i polmoni e anche lì, anche
in
quel momento, lui voleva soltanto buttarsi sul materasso di faccia e
respirare da solo, col suo
tempo, con la sua
cassa toracica senza aver paura di schiacciarla o farsi schiacciare,
senza pensare alla schiena dolorante o alle gambe pesanti.
Tra loro era tutto molto fisico quando mettevano da parte obblighi,
ruoli, diamine, soprattutto quando i vestiti scivolavano via, scoprendo
la pelle. Non dovevano neanche pensare al sesso. Certe volte lui si
limitava a guardarla mentre si spogliava -- il ventaglio appoggiato con
cura accanto al letto, l'obi piegato su una sedia, gli elastici
sistemati uno accanto all'altro sul comodino --, e pensava. Pensava a
tutto mentre lei si scopriva le spalle, la schiena, mentre si chinava
in avanti per far scivolare la gambe fuori dalle calze. Pensava a
tutto, tranne a quanto gli sarebbe piaciuto arrivarle alle spalle,
tirarle i capelli indietro e baciarla così, petto contro
schiena, torreggiando su di lei per avere una parvenza di dominio sulla
sua persona.
Aveva sedici anni quando cominciò a pensare a lei in quel
modo. Ci era anche arrivato in ritardo, perchè a sedici
anni,
nella loro società, se non hai ancora fatto sesso come
minimo ti
fai venire la sindrome del tunnel carpale a forza di seghe. Certo si
dovevano mettere in conto la guerra, le morti, traumi post-traumatici
vari ed eventuali, suo padre. No, il pensiero di suo padre. E Asuma. E
sua madre, gli occhi
di sua madre, gli occhi che vedeva allo specchio, i pensieri che faceva
solo quando era da solo con
lo specchio.
Era una relazione anche mentale, la loro. C'era una certa
consapevolezza, l'immensa
certezza
di potersi permettere sguardi indiscreti, di poterla spogliare non solo
con gli occhi, ma non era solo quello, non credeva lo fosse mai stato.
Guardarla, semplicemente.
Anche il solo posare gli occhi sulla sua figura, su quella schiena
sempre troppo dritta, su quel mento quasi sempre alzato, sulle mani che
molte volte lei nascondeva contro i fianchi quando incrociava le
braccia o quando muoveva le dita tra i capelli sciolti, ricci, o quando
passava i polpastrelli sui bordi chiusi del suo ventaglio, con
riverenza, come a ringraziarlo per tutte le volte che aveva salvato la
vita a lei e agli altri. E poi incrociare i suoi occhi --
perchè
lei sapeva sempre quando la stava guardando, riusciva ad intercettare
il suo sguardo anche quando lui non avrebbe voluto --, e comunicare con
lei senza l'imbarazzo di dover scegliere le parole.
Non l'aveva capito, all'inizio, di quanto fiero
fosse l'atto di guardarla senza dover per forza dirle qualcosa, aveva
creduto non avessero niente di cui parlare all'inizio, come se le loro
-- diverse, opposte, incompatibili, tragicomiche, impossibili --
identità si prendessero reciprocamente a schiaffi ogni qual
volta l'uno o l'altra era a distanza ravvicinata. C'era sempre qualcosa
sulla quale contraddirsi a vicenda -- la tua zuppa di miso è
troppo salata, i tuoi piedi sono freddi, puoi stare zitto come un morto
per almeno tre ore?! --, era sempre una lotta, una specie di terrorismo
psicologico che invece di bloccarli faceva fare loro esattamente quello
che l'altro non voleva si facesse. Tenere i capelli sempre legati, ad
esempio, usare l'ultimo palmo di shaampoo anche se nessuno dei due
aveva bisogno di lavarsi i capelli, usare troppe spezie su una pietanza
che stava benissimo senza, gridare a squarciagola la propria opinione
così da farla sentire a tutte le orecchie in ascolto in un
raggio di cinquecento metri, lasciare i vestiti sporchi in giro di
proposito, mettersi a letto ancora umidi dalla doccia, farle il
solletico anche se non le piaceva, nasconderle gli elastici in posti
improbabili (dentro il frigorifero, sotto il divano, dentro gli anfibi).
Dirle che l'amava, sentirsi rispondere 'non è vero',
dirglielo
ancora e ancora e ancora -- a bassa voce, nell'incavo tra spalla e
collo, solleticarle la pelle dietro l'orecchio con le labbra, spostarle
ciocche di capelli sudate con il naso, premersi impossibilmente vicino,
e sentirla tremare, vederla sciogliersi ed arrossire, socchiudere
languidamente gli occhi per guardarlo da sotto le ciglia ed ascoltare
gli sbuffi del suo respiro che gli accarezzavano il mento, il collo.
Quanto il suo 'ti amo' non era altro che lo stringersi dei suoi muscoli
e i battiti irregolari e il sudore che scivolava dalla sua pelle alle
lenzuola sotto di loro. Quando glielo diceva stando immobile come una
statua, gli occhi persi, le labbra gonfie ed un minuscolo sorriso ad
incresparle le labbra.
Starle vicino senza toccarla, acutamente consapevole che non ce n'era
bisogno, che non doveva far capire a tutto il mondo che lei era sua,
sua, sua, sua. Era così sua che era quasi impossibile, per
lui,
ricordare il prima. O come si era sentito prima, e come si era sentita
lei senza tutto quello che li univa.
Non era esattamente convenzionale pensarla a quel modo, non per due
come loro. Lei, Temari,
lei -- che non aveva bisogno di essere salvata, che si bastava,
che si accettava, che non aspettava la fine del mondo con un sentimento
ansioso, preferendo andare avanti con la sua vita, non sempre a braccia
aperte, non sempre accogliendo il futuro o quello che lei considerava
tale a braccia aperte, ma lo faceva con una testardaggine ammirevole,
inconsapevole.
Lui aspettava, ponderava, si fermava spesso, ci dormiva sopra, si
rilassava anche se molti lo sconsigliavano.
Era giusto pensare che la parola 'unire' non si prestasse bene a due
come loro. Diversi, opposti, incompatibili, tragicomici, impossibili.
Che si amavano comunque.
E scrivo comunque, mica 'nonostante tutto' che cambia l'intero concetto.
Ci sarebbe voluta, per loro, una definizione. Non una di quelle che
sottolineano l'ovvio -- lei era di Suna, lui di Konoha; lui era fin
troppo intelligente per la sua stessa sicurezza, lei quella sicurerzza
la faceva sbarellare; lei era bionda, lui no; lei era un Ambasciatrice,
lui una specie di stratega disimpegnato; lui certe volte aveva paura ma
la superava sempre con la testa, lei aveva sempre paura e la prendeva
sempre a cazzotti -- bensì una che togliesse ogni dubbio,
che
zittisse ogni recriminazione, ogni critica per la quale loro non
avrebbero dovuto stare insieme o che avrebbero dovuto, quantomeno,
cambiare per
stare insieme.
Come, ad esempio: si
amavano fino allo schifo e questo schifo se lo portavano sempre dentro,
addosso, punto.
Certo lei era
di Suna ed era
bionda. Lui era
di Konoha ed era
moro. Ed era vero che l'intelligenza di Shikamaru era un pericolo per
la sua stessa sicurezza personale, ed era indubbio che Temari della
sicurezza di Shikamaru faceva minuscole polpette che poi spiaccicava
contro il muro per pura soddisfazione personale, ma era anche vero che
etichettare tutte le loro incongruenze era come dire 'loro, si, loro, mi fanno
paura'.
Shikamaru aveva smesso di avere paura delle cose che li dividevano,
dopotutto non poteva farci niente, non poteva cambiarle, non voleva
cambiarla.
Temari, d'altro canto, non avrebbe mai smesso di contorcersi, di
ribellarsi a lui che lasciava i panni sporchi in giro, che le
nascondeva gli elastici dentro il frigorifero e che le diceva
costantemente 'ti amo' anche se lei non voleva sentirselo dire.
Stavano lentamente, ma progressivamente, capendo che le cose fra di
loro, quelle che stavano proprio in mezzo, non erano poi
così
grandi o insormontabili o anche solo lontanamente spaventose se si
guardavano allo specchio in due. Soprattutto quando si lavavano i denti
l'uno accanto all'altra, perchè certe volte sono proprio
quelle
cose, quelle minuscole, insignificanti movenze a mettere tutto a posto,
lì dove dovevano sempre stare, senza pretendere grossi
cambiamenti, facendo dei compromessi non con l'altro, ma con se stessi,
perchè era quello che avevano imparato a fare lentamente e
progressivamente, insieme. Insieme
scrivo, perchè sta tutto lì in realtà,
lì in mezzo, in quella e
che divide i loro nomi -- in quella congiunzione che inspiegabilmente li
unisce.
N/A
Tra tutte le schifezze che negli anni sono uscite dalla mia tastiera,
questa è la cosa più vera che io abbia mai
scritto.
Non per niente credo di aver finalmente consumato il mio matrimonio con
la ship, e credo anche di aver appena scritto il mio manifesto sulla
ship. E' una cosa assurda.
Chi mi conosce fuori dalle fanfiction può dire che qualsiasi
cosa io scriva mi fa schifo, la cambio, la ricambio, la cancello, la
riscrivo. Di questa non ho cambiato una. Virgola.
Spero di non aver delirato troppo anche se non me ne
frega niente e spero che vi piaccia.
Angela.