Capitolo
3
-
Macchia -
Eloise
si sedette
lentamente sul divano e si tolse le scarpe . Era sola quella sera
perché la madre aveva il turno
all’ospedale. Avrebbe dovuto prepararsi la cena da sola, ma
non aveva molta
fame. Era appena tornata da casa di Emily e, nonostante lei avesse
insistito
per farla restare a cena, aveva rifiutato. Si sentiva stanca, aveva le
gambe a
pezzi e il sonno le annebbiava la mente.
Allungò
il corpo
sulla superficie fredda e chiuse gli occhi. Era abituata a quel
silenzio che le
faceva compagnia e, in fondo, le era sempre piaciuto.
L’aiutava a riflettere, a
fare chiarezza nella testa, ad ascoltare la propria voce nitidamente,
senza che
quella del resto del mondo la sovrastasse, come spesso accadeva. Non
doveva
dare risposte a nessuno, non era costretta a parlare con nessuno e
poteva
tuffarsi in quell’assenza di suono senza ferirsi troppo. A
volte odiava
ascoltare i suoi pensieri, odiava ascoltare la sua voce fissa nella
testa ma in
genere, proprio quando voleva evitare quel fastidio angosciante, si
mischiava
al caos e diventava un tutt’uno con esso. Quella sera invece
non c’era niente
oltre alla stanchezza ad infastidirla. Era stranamente serena e sentiva
che su
quel divano avrebbe potuto chiudere gli occhi e scivolare lentamente in
una
dimensione più leggera. C’erano sogni brutti e
sogni belli, ma se uno ci
pensava bene, non esistevano sogni brutti: bastava aprire gli occhi e
accorgersi che si trattava di un’astratta macchinazione del
cervello, calmare
il respiro e tornare a vivere. Con la vita vera invece non era
così, purtroppo.
A volte riusciva la cosa inversa: chiudere gli occhi ed estraniarsi per
quei
momenti astratti dalla realtà. Se però i problemi
che attanagliavano il corpo
erano insidiosi e pieni di una forza troppo oscura da sopportare,
diveniva
persino difficile addormentarsi.
Eloise
svuotò la
testa, respirò a fondo e senza accorgersene, mentre una
serenità precaria si
impossessava di mente e corpo, si addormentò.
Quella
notte
sognò.
Indossava
una
maschera da pagliaccio e girava con solo una vestaglia indosso per i
corridoi
della scuola. Tutti la guardavano, tutti ridevano, ma lei continuava a
camminare nonostante ogni sguardo che la colpisse la ferisse nel
profondo.
Camminò a lungo, senza una meta, a piedi scalzi.
Passò davanti agli Implacabili
e loro risero fino a che non gli uscirono le lacrime dagli occhi, senza
curarsi
affatto della sua presenza. Passò davanti
all’intera squadra di cheerleader ed
una di loro dal volto quasi indistinguibile alzò la
vestaglia e le risate, che
già le riempivano la testa, divennero ancora più
forti ed assordanti. Non
voleva fermarsi e si chiedeva perché diavolo le sue gambe
non la portassero via
da quel postaccio. Era come se non fosse in grado di andarsene, come se
quegli
sguardi l’avessero fatta prigioniera in quel posto freddo e
cupo. Ad un tratto
vide una figura familiare in cima alle scale. Capelli lunghi, grigi ,un
viso
lungo solcato da qualche ruga, due piccoli occhi color cielo che la
fissavano e
la bocca piena curvata in un piccolo
sorriso spento. Quando Eloise si rese conto di chi fosse
cominciò a correre per
raggiungerlo, ma non appena salì il primo scalino quella
sagoma sparì, lasciandola
sola e abbandonata a delle lacrime di dolore. Con la sofferenza nel
cuore, che
rendeva il suo viso umido e la bocca impastata di saliva,
salì ancora gli
scalini, entrò in una classe e, piena di rabbia,
spaccò una finestra con una
sedia. Il vetro si frantumò in mille pezzettini e lei
stramazzò a terra senza
forze. Il dolore le lacerava il petto, le impediva di respirare e non
dava
tregua ai suoi occhi da quell’acqua impura. Urlò
una volta ,due volte, ma non
c’era nessuno ad ascoltarla. Si trascinò vicino al
vetro che riempiva il
pavimento e prese una scheggia molto appuntita in mano. Posò
la superficie
tagliente sul polso e lentamente lacerò la pelle mentre il
flusso delle lacrime
aumentava; il dolore dell’anima si mischiò a
quella del corpo e in un gioco
perverso e malato, le due cose divennero unico fluido rosso che
macchiava la
pelle di Eloise. La ragazza gettò la scheggia a terra e
quando si voltò rivide
suo padre. La guardava triste, con gli occhi lucidi, l’aria
afflitta e allo
stesso tempo delusa. Era quella delusione sul viso dell’uomo
a rendere Eloise
ancora più disperata. Sperava che si sarebbe avvicinato per
aiutarla ad
alzarsi, per curare le sue ferite, ma lui sparì di nuovo. E
allora si gettò a
terra, mentre quella ferita profonda macchiava di rosso il pavimento
bianco di
quell’aula. Smise di piangere, ma allo stesso tempo di
respirare.
«Eloise!
Eloise, svegliati!»
Qualcuno
la scosse
per la spalla.
«Sveglia
El. È
mattina».
La
ragazza aprì gli
occhi a fatica e notò che la luce del sole irradiava il
soggiorno. Si passò le
mani sul viso in preda ad una confusione devastante e si accorse che
era
bagnato.
«Quando
sono tornata
in cucina stavi piangendo. È tutto ok?»
«Mmm…
sì mamma, è
tutto ok».
Merda,
aveva pianto
per davvero. Si stiracchiò, sbadigliò e si
stropicciò gli occhi. Era ancora
persa in quelle immagini surreali che l’avevano attanagliata
per lunghi minuti;
mai come quella volta fu grata al Signore per aver creato il sole.
*
Eloise
si stiracchiò
per l’ennesima volta a scuola. Aveva già
affrontato tre lezioni, una più
faticosamente dell’altra. Non aveva bisogno di ascoltare per
essere in grado di
capire, ma faticava ugualmente nel tenere gli occhi aperti e mettere in
scena
una recitazione in grado di ingannare i professori. Le bastava tenere
lo
sguardo fisso su di loro mentre scrivevano formule o leggevano libri
dalla
cattedra, ed annuire di tanto in tanto quando i loro occhi si fissavano
sul suo
viso in cerca di approvazione. Forse le era più difficile
fingere che ascoltare
per
davvero.
Quel
sogno l’aveva
profondamente scossa. Dopo più di tre ore poteva ancora
riuscire a
capacitarsene. Suo padre diceva sempre che i sogni erano frutto di
desideri o
pensieri che a volte inconsciamente le persone avevano dentro. Poteva
dargli
ragione, ma perché a distanza di un anno tornava a sognare
l’uomo grazie al
quale esisteva? E cosa significava la maschera e tutto il resto?
Continuava a
pensarci e ripensarci, tormentandosi mani e labbra con la testa persa
in quelle
immagini che difficilmente avrebbe scordato. Si era addormentata
serenamente la
sera prima, eppure… in genere sognava cose strane solamente
quando si
addormentava con un pensiero fisso in testa anche per questo motivo non
riusciva proprio a spiegarsene il significato.
La
terza ora era
finita e mentre passeggiava tranquillamente per i corridoi alla ricerca
di una
delle sue amiche vide Jason mano nella mano con Emily.
«Ciao
ragazzi!»
Jason
afferrò il
viso della sua ragazza delicatamente e le diede un bacio intenso per
salutarla;
uno di quei baci che Eloise poteva solo immaginare. Lei non era mai
stata
fidanzata, tranne alle elementari, con un ragazzino di nome Steve.
Ricordava
ancora bene quando passeggiavano per la classe di venticinque metri
quadrati
mano nella mano. Lo rivedeva ancora, di tanto in tanto, quel ragazzo
dai
capelli rossicci, ma quella loro storia insignificante di
quand’erano ragazzini
era come se fosse stato un motivo in più per tenerlo a
distanza da Eloise.
«El!»
urlò Emily piena di
gioia, correndo ad abbracciarla.
«Sbaglio
o il
grande ed impacciato Jason non è poi
cos’è impacciato quando si tratta di
baci?» chiese Eloise con un sorrisetto.
L’amica
fece spallucce
«Altro che impacciato: bacia da Dio!»
Le
due risero e la
ragazza dagli occhi verdi colse l’occasione per punzecchiare
l’amica.
«Non
è che fa
anche altro da Dio?»
«Elly!»
strillò
l’amica ridacchiando. «Da quando in qua fai
battutine su queste cose? Abbatti
un tabù, lo sai?»
«Allora
scusa.
Niente più battutine, promesso».
«Lo
sai che te lo
dirò se dovesse succedere, ma sai anche come la penso,
no?»
«Lo
so, scherzavo
solamente».
«Solo
baci, solo
baci. Ma a volte…»
«A
volte?» chiese
Eloise curiosa, tornando a sorridere.
«Beh,
ecco…»
l’amica era imbarazzata e le guance chiare si colorarono
leggermente di rosso
«a volte vorrei concedermi di più, capisci?
Insomma, è pur sempre un maschio e
quando ci baciamo sul letto o magari quando sono seduta su di
lui… percepisco
il suo desiderio di avere più di qualche semplice
bacio».
Entrambe
sorridevano, ed Eloise annuì dimostrando comprensione.
«E
poi ha un
fisico pazzesco! Spesso dobbiamo fermarci quando ci baciamo e siamo
soli in
casa sua, altrimenti… la tentazione
c’è».
«Ma
tu vuoi
aspettare fino al matrimonio, giusto?»
«Giusto!»
rispose
sicura l’amica «perché, tu no?»
Eloise
non aveva
mai veramente pensato a come e quando perdere la sua
verginità; forse perché
non aveva mai avuto un ragazzo e quindi il problema non si era mai
posto. Per
lei era qualcosa di importante e di certo non si sarebbe concessa al
primo
stupido che avrebbe incontrato. Probabilmente avrebbe aspettato anche
lei il
matrimonio.
«Sì,
penso di sì.
Non ci ho mai riflettuto veramente ma dovrà essere
speciale».
«Sono
d’accordo»
rispose l’amica compiaciuta.
La
campanella
suonò e le strade delle due amiche si dovettero dividere.
«Ci
vediamo a
mensa».
«Ciao
Em» la
salutò Eloise.
La
ragazza sorrise
ed annuì con il capo.
Le
gambe di
Eloise, che quel giorno erano fasciate da dei jeans scuri a zampa di
elefante, la
portarono rapidamente all’armadietto per permetterle di
prendere i libri
dell’ora successiva. La ragazza sbuffò sonoramente
e convinse ogni fibra del
suo corpo a non scappare via da quel posto orribile. Non aveva voglia
di stare
in classe, persa nei meandri della sua mente; non aveva voglia di
ascoltare le
voci dei professori e non aveva neppure voglia di camminare, respirare
o
parlare. Perché per una buona volta non era rimasta a casa?
Avrebbe potuto
recuperare un po’ di energie dormendo e poi rilassarsi
leggendo qualche pagina
di
libro. Aveva erroneamente pensato che andare a scuola e distrarsi un
po’sarebbe
stato di sicuro migliore che restare in casa da sola a tormentarsi.
Sbagliava, aveva
tralasciato un piccolo particolare: sarebbe stato meglio andare a
scuola per
qualsiasi essere vivente, ma non per la studentessa modello Eloise
McKenzie.
Quanto desiderava una persona che la strappasse via da quella
quotidianità
velenosa, qualcuno che in un giorno come quello la tentasse a
sgattaiolare via;
qualcuno di cui era talmente presa che ogni tentazione sarebbe stato un
motivo
in più per cedervi.
C’erano
coppie di
nerd, coppie di secchioni, coppie di popolari, coppie di
inetichettabili per
via della loro invisibilità sociale. Chiunque trovava un
compagno o una
compagna, ma lei? Avrebbe mai trovato la persona giusta ?Quella che le
avrebbe
fatto tremare le gambe? Quella che avrebbe reso ogni suo respiro
più corto e
disperato? Quella che le avrebbe mandato in tilt qualunque organo
vitale? Quella
che avrebbe riempito il suo cuore di così tanto amore, che
sarebbe potuto
scoppiare ?
Un
altro sospiro
riempì il silenzio di quel corridoio, ma proprio quando Elly
chiese
implicitamente uno scossone alla propria vita, quello arrivò
nel peggiore dei
modi.
«Ma
guarda un po’
chi c’è!» disse Carry Wilson,
squadrandola con cattiveria.
Eloise
strillò una
serie di parolacce nella sua testa. Abbassò lo sguardo e si
girò, stralunando
gli occhi. Carry era un ragazza bellissima: aveva un viso ovale, magro,
labbra
scure a cuoricino, occhi verdi come smeraldi e lunghi capelli biondi.
Era così
magra e aveva una pelle così magnificamente abbronzata che
ad Eloise, nel solo
guardarla, dolevano gli occhi. Come tutti i giorni
quell’umana dall’aspetto di
una dea indossava la divisa bianca e blu delle cheerleader ad esaltarle
le
lunghe gambe affusolate.
Dietro
a Carry,
con la funzione di formare un trio perfetto e pieno zeppo di
malvagità, c’erano
Ashley Welsh e Micaela Simons.
Ashley
era
all’ultimo anno ma era decisamente la più
insignificante tra le tre. Aveva un
viso lungo, capelli mori con la frangetta e la pelle color pesca. Non
aveva un
corpo bello o speciale come quello delle altre due. Sfiorava il metro e
cinquantacinque e le sue gambe erano leggermente in carne.
Emily
detestava
con tutta se stessa quella ragazza. Soltanto sei mesi prima aveva fatto
di
tutto per distruggere il rapporto tra Jason e lei perché si
era presa una cotta
per il biondo. L’aveva odiata e soprannominata “la
nana malefica”.
Micaela
Simons era
di una bellezza indescrivibile. Ogni volta che Eloise la guardava si
chiedeva
come cavolo avesse fatto la genetica a dar vita ad una creatura di una
simile
bellezza. Non riusciva nemmeno a provare invidia nel puntarle gli occhi
addosso. Era così bella che non si poteva fare a meno di
venerarla in segreto.
Nemmeno se Eloise si fosse sforzata con tutta se stessa sarebbe
riuscita ad odiarla;
nessuno ci riusciva e se non ci fosse stata Carry Welsh ad oscurare la
sua
luce, quella ragazza avrebbe accecato l’intera
città di Archer City.
La
prima cosa che
spiccava e meravigliava nel viso di Micaela erano i suoi grandi occhi
blu.
Aveva degli occhi stupendi di una colorazione che, se osservata bene,
tendeva
quasi al violetto. Il viso era ovale, dai tratti leggeri e delicati. Le
labbra
scure e carnose, i capelli mori e lisci. Aveva un fisico mozzafiato,
tonico,
con delle forme stupende e delle gambe che mettevano in soggezione
chiunque.
Micaela aveva l’aspetto tipico di una fotomodella, ricordava
un po’ l’attrice
bellissima di Transformers. Eloise era sicura che se quella ragazza
fosse nata
in grandi città come New York o Los Angeles avrebbe sfondato.
«Girati
quando ti trovi
in nostra presenza» disse acida Ashley.
Eloise
non voleva
voltarsi. Era impietrita, con lo sguardo fisso
sull’armadietto, mentre pensava
ad una scappatoia da quella brutta situazione.
«Girati!»
strillò
Carry.
Purtroppo
Eloise
obbedì ed una cascata di frullato freddo, dallo strano
colorito rosa e
dall’odore disgustoso, le macchiò la maglietta
arancione.
Le
ragazze risero
di gusto e Carry gettò il bicchiere vuoto sui piedi della
povera vittima, macchiandole
anche le scarpe con degli schizzi.
«Così
impari a non
obbedire. Noi volevamo solo fare una chiacchierata» concluse
la bionda, dileguandosi
con le sue amiche tra le risate che rimbombavano nel silenzio.
Eloise
si guardò
attorno, disperata. Era immobile,
fradicia e puzzolente. Prese un lembo
della maglietta che le aderiva sulla pelle come della carta velina e lo
osservò.
«Cazzo»
borbottò, sbuffando.
Diede
un calcio al
bicchiere e, muovendosi come se improvvisamente avesse perso la
capacità di
camminare, si diresse in bagno.
Era
in ritardo di
almeno cinque minuti per la lezione di storia e come sarebbe rientrata
in
classe zuppa in quel modo? Tutti avrebbero riso di lei, per
l’ennesima volta.
Forse quel sogno era stato un messaggio di allarme, o forse era stata
solo la
triste previsione della sua realtà quotidiana.
Non
appena aprì la
porta imbrattata di scritte una violenta puzza di fumo le
bloccò immediatamente
il respiro. Qualcuno stava fumando, ma chi, se era severamente vietato?
Alzò
gli occhi e vide Mary; era appoggiata al muro con i piedi incrociati e
con la
sigaretta tra le labbra. Era così bella in quella posizione
che qualcuno
avrebbe dovuto immortalarla con una foto per non lasciare che ogni
dettaglio di
quel momento sparisse con il tempo. Ad Eloise tremò per un
istante la terra
sotto i piedi, quando la ragazza prese la sigaretta tra le dita ed
aprì le
labbra lasciando uscire lentamente il fumo bianco. La ragazza dai
capelli
corvini indossava una canottiera nera semplice, un paio di jeans scuri
strappati sulle ginocchia e le sue solite Converse nere. I capelli
erano sempre
e impeccabilmente fissati in quel ciuffo ribelle e sbarazzino.
Eloise
sentiva di
non avere scelta : o se ne sarebbe andata (ed anche alla svelta) oppure
sarebbe
rimasta in quel bagno che era una cappa di fumo e avrebbe iniziato a
fissare
quella ragazza misteriosa.
Poteva
scappare di
nuovo? Quanto sarebbe stato brutto se l’avesse fatto ancora?
Erano
passate due
settimane da quella famosa domenica in cui si era rifiutata di
stringere la
mano di Mary, fuggendo dalla chiesa. Due settimane in cui le era parso
che la
serie di problemi che si era posta non fossero mai esisti. Per i primi
tre
giorni aveva cercato inutilmente lo sguardo vuoto di Mary a mensa per
chiederle
scusa con gli occhi, ma l’altra non aveva accennato a
guardarla nemmeno una
volta, come se fosse invisibile o non fosse degna di essere guardata.
All’inizio ci era rimasta un po’ male, come se si
fosse aspettata un qualcosa
che però non era mai arrivato; poi, con il passare dei
giorni, ci aveva fatto
l’abitudine a quella presenza singolare e solitaria che non
degnava nessuno del
suo sguardo e della sua parola.
No,
non se ne
sarebbe andata. Quella volta aveva davvero bisogno del bagno e se
proprio
qualcuno se ne sarebbe dovuto andare, quella sarebbe stata Mary.
Eloise
si guardò
allo specchio e scosse la testa. Aveva la maglietta completamente
fradicia e
per di più le si vedeva il reggiseno. Guardò
ancora allo specchio ma questa
volta si fissò sulla figura di Mary che ricambiò
l’occhiata. Continuava a
fumare appoggiata a quel muro e, probabilmente, non si sarebbe spostata
da lì
nemmeno se fosse crollato il mondo.
Eloise
doveva togliersi la
maglietta, provare a rimuovere
la macchia e ad asciugarla con della carta igienica, ma come faceva se
quella
ragazza continuava imperterrita a fissarla, senza accennare nemmeno
minimamente ad
andarsene da lì? Non poteva chiederle di andar via, sarebbe
stato molto
scortese, così prese un pezzo di carta, lo bagnò
con dell’acqua e provò a
pulire la macchia ugualmente.
«Se
ti do fastidio
me ne vado» disse una voce rompendo il silenzio.
Eloise
sgranò gli
occhi quando capì a chi appartenesse quel suono grazioso.
Mary Walker le aveva
parlato. Alzò lo sguardo verso lo specchio e la
guardò stupita. Restò ferma alcuni
secondi in quella posizione, come un’ebete,
tant’è che l’altra sollevò le
sopracciglia e sorrise appena.
«Ehm…
no, tranquilla.
Non mi dai fastidio».
Mary
Walker le
aveva parlato. Aveva una voce così… grave ,ma
allo stesso tempo dolce, melodica
e leggermente roca.
«Ok»
rispose
l’altra, tranquilla.
Eloise
aveva i
muscoli rigidi a differenza di Mary. Era leggermente in imbarazzo per
la sua
condizione e si sentiva a disagio ed impacciata.
Si
costrinse ad
abbassare lo sguardo e continuò quel lavoro praticamente
impossibile. La
maglietta non aveva intenzione di asciugarsi, ma Eloise non si
arrendeva. Sentiva
gli occhi di Mary addosso ed era come bloccata nella sua posizione
nient’affatto comoda. Perché quella strana ragazza
le faceva quell’effetto?
Possibile che la intimorisse così tanto? Era inquietudine o
soggezione quella
che provava?
«Io
non insisterei
così tanto» disse ancora quella voce «Se
continui di questo passo la
scolorirai».
Per
poco Eloise
non sussultò nel riascoltare quelle corde vocali vibrare di
nuovo; quella volta
però, c’era dell’ironia in quella voce e ciò che la rendeva ancora più
gradevole. Fu
allora che decise di sciogliersi un po’ da quella sua
rigidità e voltarsi per
non continuare a sembrare più maleducata di quanto non fosse
già apparsa. In
fondo Mary le aveva parlato; era una persona qualunque,
perché doveva continuare
a comportarsi come una cretina?
Si
girò e la vide fare
l’ultimo tiro di sigaretta e camminare per gettare la cicca
nel water.
«Si
asciugherà
prima o poi, con questo caldo. Sono già un sacco in ritardo
per la lezione di
storia».
Mary
sorrise sprezzante
«perché, tu ci vai pure a lezione?»
Eloise
fece
spallucce ricambiando il sorriso.
La
ragazza
tenebrosa, vista
da vicino, sembrava ancora più alta e
più bella di quanto non le
fosse sembrata prima di allora. Era intrisa di una bellezza
particolare, non
catalogabile; forse era proprio la sua ambiguità, il suo
atteggiamento, o la
sua aria da bella e dannata a far sentire a disagio Eloise.
C’era qualcosa in
quei suoi grandi occhi scuri, che rendeva le persone inquiete come se
avessero
visto un diavolo. Ogni fibra di quel corpo lungo ed elegante era piena
di
un’essenza indefinibile ma dannatamente magnetica. Ad Eloise
era bastato guardare
quella ragazza una volta per non togliersela più dalla
testa. Quella tipa era
l’unica cosa strana, nuova ed interessante in un paesino
squallido come Archer
City e forse Eloise, senza che se ne fosse nemmeno resa conto,
aspettava da
anni che quella ventata d’aria fresca le pizzicasse il viso,
distogliendola
dalla sua orrida realtà.
Mary
si avviò
verso l’uscita e all’improvviso ad Eloise prese un
senso di sconforto. Non
voleva che se ne andasse, non voleva smettere di guardare quel viso
duro o di
ascoltare il suono di quella voce.
«Ehi!»
strillò
senza starci a pensare due volte. La ragazza si voltò.
«Mi dispiace di non averti
stretto la mano in chiesa».
Gli
occhi di Mary
si rabbuiarono ed Eloise fermò l’impulso di
gridare a se stessa “brutta
idiota”.
«Non
preoccuparti.
Me ne ero scordata. Non è di sicuro la cosa peggiore che mi
sia capitata»
concluse cercando di sdrammatizzare con un sorrisetto forzato.
Poi,
come se fosse
stata una presenza creata dall’immaginazione esperta di una
mente brillante,
quella ragazza si voltò e sparì lentamente,
lasciando sola Eloise in quella
cappa di fumo che portava la sua firma.
Sembrava
tutto un
sogno; un sogno vivido o un’allucinazione. Ad Eloise non era
ancora chiaro cosa
fosse accaduto, nè
le era chiara la distinzione tra realtà ed immaginazione. Si
era immaginata
tutto fin dall’inizio? Forse aveva avuto un così
disperato bisogno di allontanarsi
dallo schifo della sua vita che aveva iniziato a creare un modo tutto
suo, i
cui protagonisti erano misteriosi personaggi dalla scia oscura come la
notte.
No,
quella puzza
di fumo le riempiva violentemente le narici ed era la prova materiale
di cui
aveva bisogno per ritornare sulla terra ferma.
Eloise
si strofinò
il naso, sbatté un paio di volte le palpebre fissando il
pavimento e, con un
sorriso inspiegabilmente stampato sul volto,uscì da quel
bagno che sapeva di incredulità e confusione.