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Autore: BlackEyedSheeps    17/01/2014    3 recensioni
“E’ tutto a posto, vero?”
“Sono in vacanza. Cosa potrebbe andare storto? A parte i vicini di casa che decidono di trapanare i muri alle sette del mattino…”

Clint, ancora perseguitato dai superstiti demoni degli eventi di New York, è sempre più isolato. Quando la situazione tocca il fondo, Natasha decide di intervenire, rifiutandosi di restare a guardare. Ma anche lei dovrà fare i conti con i postumi della battaglia degli Avengers...
[Clint/Natasha] [Post-The Avengers]
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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CAPITOLO 4

 

My heart is aching
My body is burning
My hands are shaking
My head is turning
You understand
It's so easy to choose
We've got time to kill
We've got nothing to lose
I want you now

(I Want You Now – Depeche Mode)

 

 

Lussuria

 

Accese la pallida luce sopra il lavandino del bagno e si mise a sedere sul bordo della vasca di fronte.

Alzò, sorpreso, lo sguardo sul proprio riflesso allo specchio.

Dopo aver constatato, con una punta di pudica curiosità, di non essere altro che il vecchio, trasandato Clint - con un paio di contusioni in più sugli zigomi e due occhiaie di tutto rispetto - prese a sbendarsi la ferita alla mano che aveva richiesto un paio di punti di sutura.

 

Non c'era nemmeno stato bisogno di prendere decisioni particolarmente dettagliate a riguardo: Natasha lo aveva trascinato in quello stesso bagno, solo poche ore prima, e gli aveva disinfettato e ricucito il taglio in silenzio.

Ed in silenzio avevano preso la decisione di non parlare di ciò che era successo. I fatti avevano appianato tutte le incomprensioni e l'ostinazione con cui avevano affrontato gli ultimi giorni.

 

Lo aveva aiutato a ricomporsi, a rimettere in sesto le escoriazioni e a placare l'agitazione interiore che lo aveva visto piegato.

Le era grato di questo. Non aveva dovuto giustificarsi, né chiedere scusa. Non ne sarebbe stato in grado. Lei aveva capito, lo aveva accettato, perdonato.

 

A riempirlo, ora, c'era solo un'esausta quiete, una sensazione che non provava da settimane. Ben lontano dall'aver raggiunto quella pace interiore di cui aveva solo sentito parlare, ma abbastanza sicuro di esser arrivato a un buon compromesso con le sue emozioni.

Si sorprese di non provare vergogna per aver mostrato a Natasha così tanto. Di averle permesso di entrare nel suo tormentato universo, di averle lasciato allungare lo sguardo per sbirciare nell'angolo più profondo del suo caos. Al contrario, ne risultò sollevato.

Non aveva più niente da perdere. Più niente da dimostrare. Natasha lo avevo in pugno, ma non gli faceva paura.

 

Con questa rinnovata consapevolezza, lasciò prendere aria al taglio che sembrava reagire bene alla medicazione. Alzò la mano all'altezza del viso, appuntando mentalmente l'ennesima ferita di guerra: l'avrebbe chiamata Tasha. Un onore che non riservava certo a tutti i suoi aggressori.

 

La porta della stanza si aprì con un sinistro cigolio e, quando si voltò, sorprese Natasha appostata sulla soglia, nelle sue stesse condizioni: non meno segnata dalle ultime ore, non meno esausta.

 

“Scusa, ti ho svegliata?” le domandò, rendendosi conto dell'ora tarda e del fatto che a entrambi erano state necessarie ore per sincronizzare il proprio, rinnovato orologio biologico con lo scorrere ordinario della giornata.

La vide scuotere il capo con poca convinzione. Non aveva bisogno di mentire, ma nemmeno di iniziare una conversazione con una profusione di inutili giustificazioni.

“Che stai facendo?” gli domandò invece, andando a sederglisi di fianco, senza bisogno di inviti.

Sapeva che era ancora preoccupata per lui, che lo teneva sotto stretta sorveglianza. Non se la prese a male.

“Prudeva, controllavo che non mi avessi ricamato ad arte qualche parolaccia.”

“Non ci avevo pensato...” rispose, scoccandogli uno sguardo esplicito. “E' un'idea per la prossima volta.”

Si ritrovò a sorridere stancamente a quello scambio di battute. Se ne sentì rincuorato, riempito.

Lei gli prese la mano, per un controllo sommario.

Non trasalì, questa volta, al contatto, ma il suo stomaco si surriscaldò come se glielo avessero appena acceso con una fiammata.

Non ne comprese del tutto il senso, ma decise di non indagare. Se qualcosa aveva mai avuto un senso in quella storia, forse era arrivato il momento di mettere da parte convinzioni e conoscenze. E smettere di pensare.

“Non perderai la mano, tranquillo...” lo rassicurò come se ne sentisse davvero bisogno. La sentì indugiare sul palmo calloso, tracciare, meditabonda, con le dita, le pieghe attorno alla ferita.

 

Gli piaceva il tocco della sua mano, gli era piaciuto persino sentire, concreto, il contatto del suo corpo, ore prima. Il suo profumo lo aveva inondato, si era sorpreso a sperare di potersi perdere in quelle curve, fondersi con esse, sentirsi compiuto con il perfetto incastro di un puzzle.

Cosa sarebbe successo se avesse allungato una mano per intrecciare le dita fra i suoi capelli? Se l'avesse guardata negli occhi e le avesse chiesto, di nuovo, di essere accolto nel suo rassicurante abbraccio? Provare ancora una volta quella sensazione, sentire il calore del suo respiro, la forza del suo essere...

 

Quando ebbe abbastanza lucidità per farlo, risvegliato da quelle improbabili fantasie, avvertì l'inquietudine di lei, in quel tocco.

“Tornerò ad usare il mio arco prima della fine della settimana”, si sentì in dovere di aggiungere, per sedare qualsiasi dubbio a riguardo.

Lei lo lasciò andare immediatamente, sorpresa, scottata: non era sua la colpa di quella ferita e lo sapeva benissimo.

Aveva forse travisato i suoi gesti, mal interpretato il suo indugio?

“Pensavo di farmi un tè... ne vuoi?” la guardò rimettersi in piedi, le sue gambe nervose, celate a malapena da un paio di shorts, in netto contrasto con il clima rigido delle zone circostanti. Le braccia intrecciate al petto, come ad erigere, di nuovo, una certa distanza.

Le rivolse uno sguardo incomprensibile, ancora confuso, ma annuì.

“Ho assaggiato di peggio in questi giorni”, alluse ai miseri pasti preriscaldati al microonde a cui lo aveva abituato nelle ultime ore.

“Stronzo”, lo apostrofò con tono definitivo, lanciandogli addosso una spugna ancora umida.

Soffiò una mezza risata, mentre lei usciva dal bagno con aria volutamente sprezzante.

Si sgonfiò poi, recuperando la benda intrisa di sangue.

Il tocco delle dita di Natasha, un ricordo ancora impresso a fuoco sulla sua pelle.

 

***

 

La trovò che armeggiava con il bollitore e imprecava qualcosa in russo, riguardo l'impossibilità di trovare tazze pulite.

Annodò la nuova benda e le fu accanto, aprendo questo o quello sportello della credenza.

“Felice di constatare di condividere le tue stesse carenze in economia domestica”, le passò una tazza, ripescata negli oscuri meandri di piatti dimenticati, improbabilmente decorata con il disegno di un cucciolo, provvisto di un paio di luminosi ed enormi occhi imploranti. Le lanciò uno sguardo canzonatorio.

“Era dei precedenti proprietari”, si giustificò lei, strappandogliela letteralmente di mano, stando però bene attenta a non sfiorarlo.

“Eddai, Nat, per una volta tanto potresti ammettere di apprezzare anche tu la dolcezza di un paio di occhioni da cucciolo.”

“Quello che apprezzo, nei cuccioli, è che non hanno l'uso della parola come certi esseri umani”, alluse piuttosto esplicitamente. “Trova un'altra tazza.”

Zì badrona...” le rispose, e di nuovo quella sensazione di calore allo stomaco tornò a farsi presente. Non credeva sarebbe più stato in grado di scherzare ancora così con lei. La convivenza, partita nel peggiore dei modi, si stava appianando nell'unico modo che gli risultava quantomeno familiare.

Decise di lavare una delle tazze dimenticate nel lavabo.

 

Il silenzio non fu però meno confortante.

La osservò riempire con cura l'infuso con le foglie di tè.

Si ricordò l'odore agrumato che aveva sentito la prima volta che era andato a trovarla nel suo vecchio appartamento, nel Queens.

Era odore di tè. L'odore che sempre avrebbe associato a Natasha.

La guardò muoversi per la cucina, attendendo pazientemente la conclusione di quelle metodiche operazioni.

Natasha controllava i dettagli anche nelle più semplici azioni quotidiane.

Rammentò però il modo in cui si era lasciata andare, a causa sua, solo qualche ora prima, e si domandò se fosse stato uno sforzo lasciarsi domare dall'istinto o se lo fosse invece reprimerlo ogni santo giorno, con studiata perizia.

Eppure la risposta non poteva che essere una sola. Aveva accolto su di sé il frutto della sua ira e poi l'abbraccio confortante del suo perdono, della sua comprensione. Non potevano essere azioni studiate, elaborate. Natasha era un essere umano dal sangue caldo, capace di istinti feroci e implacabili, come qualsiasi altro.

Si ritrovò a chiedersi quando avrebbe avuto la possibilità di sentire di nuovo su di sé il carico dei suoi impulsi e la risposta che gli arrivò non fu meno destabilizzante dei suoi stessi pensieri.

Di nuovo tornò alla sensazione dell'abbraccio di quella mattina.

 

Aveva già decretato quanto pericoloso sarebbe stato assecondare quel rimescolio allo stomaco o anche solo prendere in considerazione di farlo, e allora perché il pensiero tornava proprio adesso a pungolargli fastidiosamente la mente?

Di nuovo per il modo in cui era stato scatenato, solo qualche minuto prima, a causa di un semplice, innocente, contatto fra due mani?

Proprio ora che credeva di non avere davvero più niente da perdere?

 

Quanto si sbagliava.

 

Non aveva proprio valutato la più devastante, rischiosa delle possibilità.

Quell'ultimo, definitivo impeto che lo opprimeva da ancora prima che Loki prendesse a giocare con il suo cervello, che aveva segretamente ricacciato indietro, che aveva deciso non avrebbe portato a nulla di buono, che avrebbe compromesso per sempre un ingranaggio perfetto che permetteva a lui e Natasha di scorrere ritmicamente, uno accanto all'altro.

Capì di non essere mai stato tanto in errore: non erano perfetti.

Non erano sinceri.

Lui non era sincero e non lo sarebbe stato mai del tutto.

Non fino a quando avrebbe nascosto alla donna lo spirito con cui a volte - e adesso così prepotentemente - i suoi pensieri si soffermavano a valutarla, finché non avrebbe ammesso che non c'era proprio niente di fraterno o nobile o puro.

 

Così come non c'era niente di aulico nel modo in cui ora la stava guardando, nel frustrante rimescolio al basso ventre, di come i suoi occhi seguissero, ingordi, i movimenti delle sue gambe nude, di come indugiassero fra le pieghe di quella felpa troppo pesante che ne celava le forme, che aveva imparato a conoscere, di cui anelava il calore, che avrebbero fatto esplodere la voglia che aveva di rituffarcisi.

 

Sentì la gola improvvisamente secca. Un vago senso di colpa a stuzzicargli la coscienza.

Troppo tardi si rese conto che Natasha lo stava osservando. Troppo tardi si rese conto che lo stava facendo da più tempo di quanto lui stesso ne fosse consapevole.

“Che c'è?” la sentì pronunciare a fiori di labbra, una vaga incertezza nel tono.

Si affrettò a scuotere la testa, incapace di elaborare una risposta soddisfacente. Si sentì colto sul fatto come un bambino con le mani nella marmellata.

Scrollò le spalle e cercò il suo posto al tavolo della cucina, aspettando che fosse lei a portargli il tè, così come le piaceva fare.

Una piccola gentilezza di cui non l'avrebbe privata.

Una gentilezza che però, questa volta, tardò ad arrivare.

“Quello sguardo, in un uomo... lo conosco bene”, le sue parole come una sentenza di morte. Non ebbe il coraggio di voltarsi, o di guardarla in viso, per paura di trovarci qualcosa di terribile.

La cruda consapevolezza di essere stato scoperto e nel modo più stupido.

“Stavo solo...” tentò un qualsiasi approccio, pentendosene immediatamente. Non esistevano grandi giustificazioni. Si era lasciato andare, in preda all'onda della sincerità che la stava facendo da padrona, all'esplosione delle sue emozioni che si erano trovate libere da qualsiasi diga di contenimento, che lo avevano lanciato, a briglia sciolta, in un cosmo a lui del tutto sconosciuto.

“Stavi solo... ?” lo spronava a continuare, a difendersi. Se non fosse stato troppo preso dall'elaborare una risposta soddisfacente, forse si sarebbe reso conto del tono di malcelata aspettativa con cui Natasha aveva realmente pronunciato quelle parole.

Serrò le palpebre, lasciando che fosse allora la sua onda a parlare.

“Ti stavo solo guardando”, ammise, e si sentì persino stupido nel farlo, come se non fosse già abbastanza evidente.

Sentì la presenza di lei così vicina, alle sue spalle. Ne immaginò il respiro a un soffio dalla sua nuca.

Per un attimo ebbe paura a voltarsi, di nuovo per scoprire qualcosa che avrebbe cancellato tutte le sue fantasiose illusioni.

Poi decise solamente di smettere di essere codardo: aveva afferrato e trattenuto quella soluzione di comodo per troppo tempo.

Si volse, il tempo di rendersi conto che lei non gli era davvero che a un passo, di trovare immediatamente il suo sguardo intenso, agitato. Il verde dei suoi occhi, incupito da un velo di burrasca imminente.

“Non... volevo mancarti di rispetto”, fu tutto quello che ebbe da dire. Ed ora sì che ci lesse un grado di frustrazione nella sua espressione.

“E' nascondendomi quello che vuoi che mi manchi di rispetto.”

Cercò di rielaborare quella risposta, ma non riuscì a trovare voglia o tempo di farlo.

“Natasha, io non -” trovò il dito di lei a serrargli le labbra.

Non riusciva a leggerle dentro, non riusciva a capire come avesse accolto quella rivelazione, se di rivelazione si poteva davvero parlare.

Si trovò a pensare a quante volte l'avesse già guardata a quel modo e in quante di quelle occasioni lei si fosse accorta di quello sguardo, se lo avesse ignorato deliberatamente, etichettandolo come uno sfizio temporaneo o se non lo avesse affatto preso sul serio, credendolo uno stupido abbaglio.

“E' questo che vuoi... Clint?” la sua domanda ora era diretta, senza nessuna parvenza di ipotesi o dubbio.

Era questo che lui voleva? Oltrepassare i confini di una mera fantasia? Fra l'essere sinceri e superare il limite concreto di un desiderio, la differenza era abissale.

“Vorrei solo non doverci pensare tanto”, e di nuovo fu sincero, di nuovo la sua onda aveva risposto per lui, e sì, aveva già attraversato troppi strati di paranoia in una sola giornata per avere anche solo la benché minima intenzione di starci a ragionare.

“E allora... non pensarci”, risolse lei il dubbio, di nuovo quel tono di supplice aspettativa.

 

Assecondò dunque l'onda, accogliendola come una liberazione.

Come la mattina precedente, a malapena registrò i proprio movimenti, le sue mani che raccoglievano quelle di lei, che l'attiravano a sé. Quel calore di nuovo lì, di nuovo suo.

Quattro occhi che si agganciavano in un brevissimo istante.

Ci lesse lo stupore, il sollievo e tutto ciò che era rimasto insabbiato per troppo tempo.

 

Sospinto da questa improvvisa consapevolezza, catturò infine le sue labbra, pronto a saggiare tangibilmente lo slancio di quel momento.

Non si sorprese di trovare una rapida risposta in quelle di lei: una cruenta, avida reazione alla quale non riuscì e non volle sottrarsi, sospinto dalla stessa imprudente bramosia.

All'ennesima, brusca contrazione del suo stomaco, del calore che lo infiammò, di nuovo, impietoso e violento, capì che non avrebbe più potuto tornare indietro.

 

Se quello era l'effetto di un solo bacio della donna ragno, sarebbe morto piuttosto di decidere coscientemente di abbandonare prematuramente il campo di battaglia.

 

***

 

La bocca di Clint le parve bollente, il sapore delle sue labbra un misto indecifrabile nel quale riuscì a riconoscere una lontana, metallica nota di sangue. La consapevolezza le provocò una contrazione quasi dolorosa al basso ventre, spronandola a stringergli il viso tra le mani, a rovinargli addosso, ancora seduto sulla sedia, a baciarlo con più ferocia, incapace di curarsi dei propri movimenti sgraziati, col solo ed unico desiderio di assaggiarlo ancora e ancora, finché non ne avesse scoperto ogni più recondito segreto. Se la sua bocca fosse stata un calice colmo di un vino ricco e prezioso del quale avrebbe voluto indovinare ogni retrogusto, Natasha ne sarebbe stata già ubriaca. Non l'avrebbe mai rivelato a nessuno, neppure a se stessa se avesse potuto evitarlo, ma il sapore del sangue le dava alla testa, la riportava ad una dimensione bestiale fatta di solo istinto e muscoli e sudore. Il concetto la terrorizzava, ma sapeva esserci un non so che di sensuale, intimo, nell'atto di uccidere qualcuno, nel palpitare all'unisono di due cuori, nel fluire denso e vischioso del sangue, del suo calore sulle mani, sul viso.

 

Il sesso e la morte erano, nella sua testa, due entità intrecciate l'una all'altra, inscindibili: non era forse il sesso l'annullarsi di due persone per crearne una nuova? Non era l'assassinio l'annullarsi di due persone – l'una nel fisico, l'altra nell'anima – per crearne una nuova, temprata nel sangue? In entrambi i casi le sembrava di perdere il controllo di sé, di permettere ad una bestia, oscura e mostruosa, di prendere il sopravvento, di dominarla e agire per suo conto, commettendo inenarrabili crimini, cedendo in sua vece alle pulsioni più violente.

 

Sentiva il suo respiro sul viso, la sua lingua contro la propria, il calore della sua pelle ad avvolgerla, le sue mani ferme e decise sulle spalle, sulla schiena e poi più giù, ad afferrarle la curva dei glutei, serrandoli in una ferrea, incandescente morsa.

 

Una fitta d'eccitazione la colpì come una stilettata, facendola fremere bruscamente. A malapena registrò il tonfo della sedia respinta all'indietro un attimo prima che Clint, ora in piedi, la sollevasse di peso e l'appoggiasse sul tavolo, riportasse i loro visi alla medesima altezza per poi riprendere a baciarla sconclusionatamente, togliendole il respiro. Soffocò un gemito nella sua bocca, cingendogli la vita con le gambe nude, strattonandolo possessivamente a sé.

 

In un'altra vita, se fosse stata più lucida, sarebbe inorridita ai propri gesti: il sesso, per lei, era stato un lavoro prima, e uno sfogo poi, ma in entrambi i casi l'approccio era metodico, una danza dai passi ben precisi, un repertorio provato e riprovato fino alla perfezione. Non importava quanto fosse frustrata o quanto avesse bisogno di sfogare i suoi più sordidi istinti, il fattore controllo c'era, sempre e comunque.

 

Adesso, invece, ogni suo gesto – il modo in cui insinuò una mano sotto la sua maglia, la furia con cui si fece strada oltre il bordo dei suoi pantaloni e dei suoi boxer - tradiva la ferocia e la goffaggine con cui necessitava di quel contatto: non c'era più eleganza, più freddezza nel suo corpo, solo carne e sangue che reclamavano il loro dovuto con cieca e bruciante urgenza.

 

Le mani piantate sul tavolo a ciascun lato di lei, lo sentì irrigidirsi e smozzicare un'imprecazione al brusco contatto delle sue dita con la pelle di lui al di sotto dei vestiti: accolse il sospiro che gli sfuggì dalle labbra con un moto di trionfo, euforia e sollievo, la sua eccitazione quasi dolorosamente evidente.

 

Tasha...”

 

Tutto il suo corpo reagì prontamente alla supplica, come se non avesse atteso altro che quella per un'interminabile eternità: le sembrava quasi che il sangue di lui stesse richiamando il suo, come chiedendo tacitamente il permesso.

 

Annegò il soffio delle sue labbra nella propria bocca, appropriandosene in malo modo mentre Clint le afferrava la felpa per sfilargliela da sopra la testa e lanciarla chissà dove, lasciandole i capelli scompigliati, il viso congestionato, le guance rosse. Si sentì addosso il suo sguardo, i suoi occhi grigi improvvisamente scuri e torbidi che parevano bruciarla lì dove si posavano, sui suoi seni scoperti al freddo dell'aria, al calore del suo corpo.

 

Ignorò il vago, stupido sentore di fastidiosa vulnerabilità alla voracità che gli lesse nel viso, trasformato. Cancellò il disagio riprendendo a muovere le mani, a rispondere alle sue esigenze senza che il cervello riuscisse a star loro dietro: attorcigliò le dita attorno all'orlo della sua maglia scura, costringendolo a togliersela, negandogli l'ennesimo bacio finché il suo petto scoperto non le occupò la visuale. Trattenne il respiro, saggiando con mano la consistenza del torace, dei pettorali, degli addominali, di quel corpo che avrebbe potuto riportare alla memoria con perfezione disarmante e sul quale riconobbe le cicatrici di quelle ferite che lei stessa aveva ricucito con ago e filo, sfiorandolo ad ogni missione senza mai realmente toccarlo.

 

Il calore umido della bocca di Clint si richiuse sul suo collo, facendole inarcare la schiena, cercare il contatto tra i loro bacini, premere le unghie nei suoi fianchi scoperti, combattere contro le palpebre improvvisamente pesanti. Le sfuggì un gemito stonato mentre le labbra di lui, accompagnate dal suo respiro, scendevano alle sue spalle, alla clavicola e più giù fino alle curve del suo petto.

 

Si ritrovò ad aggrapparsi alla sua schiena, a nascondere il viso contro una delle sue braccia muscolose: un seno prigioniero del calore umido e incandescente della bocca di Clint, l'altro intrappolato nella morsa di una mano, mentre con l'altra la teneva su, come per impedirle di allontanarsi troppo sotto l'impeto delle sue attenzioni.

 

La pelle le si riempì di brividi, il calore in mezzo alla cosce si fece quasi insopportabile, l'urgenza ingestibile, il piacere intenso e sconosciuto a strapparle il fiato dalla gola. Serrò la presa attorno al suo braccio, ai muscoli tesi ed in evidenza sotto la pelle. Ci affondò i denti, nel vano tentativo di fermare i suoni che continuavano a sgorgarle dalle labbra, inarrestabili.

 

Stava per lasciarsi andare, come burro nelle mani di lui, quando un'esigenza si aggiunse ed impose sulle altre: la competizione. Tentò di combattere contro l'oblio che era sul punto di ottenebrarle tutti i sensi, per mescolarli l'uno nell'altro, riuscendo miracolosamente a trovare di nuovo il bordo dei suoi pantaloni: stavolta la pretesa fu irrevocabile. Si spostò a morderlo sul petto, a cercare di indovinare i punti che, se raggiunti, gli facevano battere il cuore più rapidamente, pompare il sangue con maggiore urgenza. Non c'era delicatezza nel tocco delle sue mani, solo un bisogno impellente di farlo sciogliere alle proprie attenzioni così come lui stava riuscendo a fare con lei.

 

Strinse il calore della sua eccitazione tra le dita e un attimo dopo si ritrovò sollevata da terra tra le braccia tese e forti di Clint. Il mondo, la stanza, sembrò ruotarle attorno prima di capitolare sul tappeto che le risultò gelido in confronto alla bollente consistenza del corpo dell'uomo che adesso la sovrastava, le mani impegnate a sfilarle gli shorts e l'intimo insieme a quelli, a farglieli scendere lungo le gambe nude e pallide, fino a liberarsene definitivamente.

 

La consapevolezza di essere nuda, nessuna barriera a dividerla da lui, le fece stringere il petto. Poi di nuovo il folle bisogno di dominare si impossessò di lei: agganciò le gambe tra le sue e fece forza con tutti i suoi muscoli per ribaltare le posizioni, schiacciarlo al pavimento, osservarlo, come delirante e febbricitante sotto di lei, in sua balia. Si beò della vista, volle trattenercisi più del dovuto, cominciando a tracciare una lunga scia di baci umidi dal suo sterno fino agli ultimi indumenti che ancora aveva addosso. Tirò via quegli inutili strati di stoffa, liberandolo così come lui aveva fatto con lei solo un attimo prima. Altrettanto, Clint l'afferrò per la vita, tornando a farla scivolare sotto di sé con facilità tanto disarmante da provocarle un fulminante moto di eccitazione e fastidio insieme.

 

“Stronzo”, bisbigliò, inorridendo al tono basso e roco della propria voce, come se ad emetterla non fosse stata lei, ma la bestia che del suo corpo e dei suoi sensi si era appropriata per dar sfogo a tutti i suoi più sordidi bisogni.

 

Sopraffatta nella posizione, approfittò della prima vera incertezza che gli lesse nello sguardo da quando le loro bocche si erano incontrate per la prima volta: dischiuse le gambe, avvicinò le ginocchia alla sua vita in un invito volutamente sfacciato, come per mettere – irrazionalmente - in chiaro che il fatto che fosse riuscito a riaverla sotto di sé non significava di certo che era lei quella sotto il suo controllo.

 

Fece scivolare un mano tra i loro corpi frementi e sudati, lo strinse di nuovo tra le proprie dita, godendo neppure troppo internamente del grugnito che gli sfuggì dalle labbra al contatto. Lo guidò dentro di sé con una spavalderia che le venne a mancare un secondo dopo, lo stomaco sottosopra, la consapevolezza di non essere mai stata tanto vulnerabile in sua presenza.

 

Clint sembrò accorrere in suo soccorso, lo sguardo irrimediabilmente incatenato al suo viso, alla ricerca – Natasha lo comprese – del benché minimo dissenso, dolore o disappunto. Il suo corpo contro il suo, le sue braccia a circondarla, presero una consistenza improvvisamente più concreta e reale, la sua presenza così dolorosamente evidente da toglierle per un attimo il respiro. I suoi occhi le dicevano che erano caduti entrambi in una trappola tremenda che li costringeva ad esserci, ad esistere, più veri di quanto si fossero mai sentiti prima.

 

Mosse il bacino verso il suo prima di potersi accorgere di ciò che stava facendo. Clint accolse l'invito senza farselo ripetere due volte, afferrandole una coscia a piena mano, piantando l'altra sul pavimento ricoperto dal tappeto per tenersi dritto sopra di lei. Riprese a scivolarle dentro con lentezza snervante: il suo corpo protestò debolmente all'intrusione, si acquietò subito dopo, lasciando spazio ad un fastidioso desiderio che adesso reclamava di essere soddisfatto, senza appelli.

 

Trattennero entrambi il respiro, gli occhi dell'uno in quelli dell'altra, finché non raggiunsero un'immobilità quasi assoluta, sospesa. Sentiva il cuore di lui battergli all'impazzata nel petto, ad un'irrisoria distanza dal suo, con lo stesso ritmo, la stessa sincronia.

 

Una parte di lei avrebbe voluto cristallizzare quella sensazione impossibile, imprimersela a fuoco nella memoria, per richiamarla a sé quando e dove avesse voluto, quali che fossero state le circostanze. Il pensiero di Clint, la consapevolezza di tutto ciò che erano stati, di ciò che erano in quel momento, furono – per un istante – troppo.

 

“Aspetti un i-invito scritto?” Pronunciò le parole come per colpa di un meccanismo di auto-difesa che la costrinse a dimenticarsi di quelle riflessioni che promettevano di farla precipitare in un baratro senza fine. Clint parve riprendersi da quel torpore contemplativo in cui erano sprofondati entrambi: una luce strana negli occhi, accolse la sfida nel momento esatto in cui riprese a muoversi, dapprima con riguardo – senza far altro che esacerbare la frustrazione di lei – poi con sempre maggior impeto.

 

Natasha scese ad afferrargli il fondoschiena con entrambe le mani, come per imprimere sempre più forza ai suoi affondi, per convincerlo ad abbandonare qualsiasi riserbo, a dare sfogo a tutte le sue folli esigenze in modo da poter esaudire quelle di lei.

 

Sentiva il respiro mancarle ad ogni movimento, l'eccitazione risalirle su per le cosce e il ventre ad ogni spinta, la pelle bollente di lui sfregare contro la sua, umida e febbricitante, i loro respiri e gemiti e sospiri a mescolarsi in un bacio incompleto, le loro labbra vicine, che si sfioravano solo tra un brusco affondo e l'altro, come la continua promessa di un premio ad aspettarli al traguardo.

 

La fame non smise di crescerle nello stomaco, nel petto, in tutto il corpo, assuefacendo a quell'unico obbiettivo ogni singola fibra della sua persona: gli agganciò le gambe attorno alla vita, fece forza sulle natiche che ancora teneva strette nella morsa delle proprie mani, si dette lo slancio per ribaltarlo di nuovo di lato ed invertire le posizioni, stretti nel famelico abbraccio dell'uno nell'altra.

 

Gli afferrò i polsi, glieli sollevò sopra la testa e lo immobilizzò al tappeto. Riprese a muoversi sgraziatamente, senza risparmiarsi, su e giù sopra di lui, senza incontrare resistenza, leggendo la sorpresa e la soddisfazione sul viso di Clint, a rispecchiare il suo, a dargli un volto e una consistenza.

 

Continuò a sollevarsi e sprofondare sopra di lui per una, dieci, cento volte, sentendo i muscoli bruciare per lo sforzo, l'eccitazione crescere di affondo in affondo, il piacere sempre maggiore e ravvicinato, i loro movimenti sempre più coordinati, le spinte di Clint dal basso, il modo in cui lei gli si riabbatteva addosso, quello in cui fece scivolare le mani dai polsi ai suoi palmi, ad intrecciare le dita con le sue fino a fargli male, finché non ebbero raggiunto il limite massimo.

 

Si sentì precipitare dalla parte opposta senza alcun preavviso: dette sfogo alle ultime energie che le restavano prima che il piacere non si facesse quasi insopportabile, troppo. Gemette sulle sue labbra, si contrasse tra le sue braccia, la sensazione le riverberò in tutto il corpo e si liberò un attimo dopo, togliendole il respiro e la lucidità. Cercò di prolungarla al massimo, di esaurirla fino all'ultimo spasmo e non smise di muoversi, continuando finché non sentì anche il corpo di lui contrarsi sotto al suo, scosso dall'orgasmo. Si lasciò andare sopra i muscoli tesi del suo petto, facendo scivolare il viso tra il suo collo e la sua spalla, contro la sua pelle sudata e improvvisamente profumata.

 

Sentì le sue braccia circondarla, stringerla a lui, tenere insieme le sue membra spossate quasi a combattere l'impressione che il suo corpo si stesse sfaldando nel piacevole torpore che li aveva riempiti entrambi.

 

Socchiuse gli occhi e si lasciò cullare dai respiri di Clint, a sollevarsi e abbassarsi impercettibilmente ad ognuno di quelli, mentre cercava di fare altrettanto: i polmoni doloranti, le labbra rosse e dischiuse alla ricerca d'aria.

 

Si sentì spostare delicatamente di lato, ritrovandosi appoggiata su un fianco, senza dubbio a fronteggiare Clint nella sua stessa posizione. Avrebbe aperto gli occhi se non le fosse sembrato tanto faticoso, se la sensazione di pacifica soddisfazione che l'aveva afferrata non fosse stata tanto supremamente preferibile ad uno sforzo di qualsiasi tipo. Restarono immobili per quelli che non avrebbe saputo definire né minuti, né ore.

 

Con l'odore e le braccia di Clint a circondarla (era lei che stringeva lui o lui che stringeva lei?), senza averlo realmente pianificato, Natasha scivolò nel sonno.

 

 

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N.d.A.: grazie a chi è arrivato fin qui e a chi continua a commentarci <3 (Se ci fosse qualche problema di rating segnalatecelo, grazie!) Al prossimo peccatuccio :P

 

 

 

  
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