Fanfic su artisti musicali > Bastille
Segui la storia  |       
Autore: rachel_hetfield    18/01/2014    3 recensioni
Presi una boccata d’aria troppo grande, mi girò la testa e mi appoggiai al metallo freddo della capsula. «Come puoi amarmi se mi odi?»
«Non so come dirtelo che non ti odio.»
Lasciai il metallo e mi avvicinai di più a lui. Con la mano destra mi allungai verso il pulsante del timer. Un suono robotico lo fece partire.
«Non fare cazzate» singhiozzò «ti prego. Resta qui. Non ce la farei senza di te.»
Avevo impostato il timer per sessanta minuti, un’ora esatta. Avevo un’ora di tempo per decidere se fare le valigie, o attirare Kevin e rimandarlo indietro, a Oslo.
Evitai le sue labbra che si erano chinate su di me. «Devo... devo restare da sola. Torniamo nella locanda. Devo pensare.»
«Non farlo...» mormorò con la voce strozzata dal pianto.
Scossi la testa mordendomi un labbro. Fortunatamente ero voltata di spalle, perché avevo iniziato a piangere anche io.
«Rachel, ti amo.»
Singhiozzai e mi sentì. Il mio cuore balzò. Mi aveva circondata con le braccia, di nuovo. Solo che stavolta piangevamo entrambi. Il destino ce l’aveva con noi.
«Ti amo anche io, Dan.» [capitolo 16]
Genere: Drammatico, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Stavanger, Norvegia, 27 settembre 3020
Avevano appena mandato in onda l’ultimo episodio di Viaggio Interstellare, ed era il mio programma preferito, attraverso il quale potevo scoprire i misteri dell’Universo ancora non svelati. L’ultima puntata raccontava di come i buchi neri potevano risucchiare qualunque cosa al proprio interno. Le attrezzature avanzatissime deli scienziati avevano permesso, nel secolo precedente, di spingersi oltre il Sistema Solare e oltre il braccio della Via Lattea che racchiudeva il nostro sistema, scoprendone altri. Molte missioni erano fallite, altre avevano fatto luce sui vari dubbi che l’umanità si poneva da millenni, per esempio se ci fosse altra vita nel cosmo oltre a noi. Sfortunatamente ancora non lo sapevamo, ma di certo gli esperti e gli astronauti avevano localizzato in un braccio della Via Lattea un altro pianeta similissimo alla Terra sia come vivibilità che come forma.
Mentre mi disperavo per la fine delle trasmissioni, il sonder suonò. Sperai che fosse mamma che tornava dal centro commerciale o papà che rincasava dal lavoro, erano già le dieci di sera e non mi avevano chiamata o avvertita del ritardo.
Perciò spensi il video trasmettitore che faceva vedere i titoli di coda del mio programma preferito e mi rintanai sotto le coperte, chiudendo gli occhi. Era una serata molto limpida, dalla finestra potevo scorgere molte stelle e continuando a fissarle mi chiesi de un giorno sarei potuta partire anch’io per lo spazio e scoprire tante cose che nessuno ancora era riuscito a scoprire. Riconobbi il Piccolo Carro, che era proprio di fronte a me e tante altre stelle grandi e piccole che si accumulavano o che brillavano in solitaria.
Sobbalzai sentendo dei rumori provenire dalla cucina. Probabilmente mamma o papà erano rientrati. Mi alzai per andare a vedere chi fosse dei due volevo chiedere loro di fare un salto da nonna l’indomani mattina.
Accesi la luce della cucina e vidi un uomo alto e magro, coi capelli brizzolati che maneggiava qualcosa che nascose subito dietro la schiena. Mi ci volle un altro po’ per capire che era mio padre e mi risparmiai un attacco di panico.
«Papà?» lo chiamai con aria interrogativa.
«Rachel» rispose sudando freddo, aveva tutta la fronte imperlata «che ci fai sveglia a quest’ora?»
«Non volevo perdermi l’ultimo episodio di Viaggio Interstellare» mi giustificai con innocenza. Lui annuì e vidi che stringeva qualcosa tra la mano, come una piccola boccetta, ma non afferravo di cosa si trattasse. Feci per andare verso il distributore di bevande per prendere qualcosa da bere ma poi cambiai idea e mi addentrai nel corridoio stretto di casa mia.
«Dov’è la mamma?» chiese prima che tornassi in camera. Tornai indietro un po’ di malavoglia e feci spallucce.
«Era al centro commerciale, diceva di non fare tardi» risposi.
«Hai provato a contattare il suo microchip?»
Sospirai. «Lo ha spento.»
«Ah» soffiò triste «beh non credo che farà tardi.»
Sollevai di nuovo le spalle e tornai in camera borbottando un ‘buonanotte’ molto tirato. Ero preoccupata per la mamma, ma ero davvero stupida a preoccuparmi per l’incolumità di un adulto che sapeva badare a se stesso. Ma cosa ne volevo sapere io, a diciotto anni, degli adulti? Magari erano anche più fragili di noi ragazzi.
Non dormii quella notte. Per la mente mi passavano sempre in mente i momenti in cui papà nascose quell’oggetto dietro di lui, quella cosa che sembrava una boccetta. Non ero stupida, l’avevo vista, ma dovevo ancora afferrare il motivo per cui nasconderla.
Gli stupefacenti erano vietati nel nostro Paese, insieme al fumo e qualunque tipo di dipendenza medicinale, il motivo per cui molte persone si erano suicidate. E non solo, la crisi che stava colpendo la Norvegia stava frantumando ogni speranza di sopravvivenza della popolazione. Erano in vista rivolte, ribellioni, tutti temevano un’imminente guerra civile. Papà era uno dei primi che si preoccupava di quello che potesse succedere, per questo a volte, tornando dal lavoro, invece di andare a casa andava alle riunioni coi partiti contro la dittatura che avevano instaurato i governatori alla nostra nazione.
Il concetto di nazione non era mai stato importante per me, non mi era mai importato tanto della Norvegia e del suo destino, non ero un patriota come mio padre, io cercavo di lottare per la libertà e disintegrare quelle leggi ridicole che il Governo imponeva per limitare il tasso di stupro, prostituzione e di droghe varie.
Lo stupro era una cosa psicologica, che si poteva evitare solo se da ragazzi si riceveva un’adeguata istruzione, non qualcosa che si faceva perché tanto non era contro a nessuna regola. Ma i governatori non lo capivano. I governatori credevano che imponendo leggi assurde le persone avrebbero contribuito ad un tipo di società migliore, ma che di migliorare non ne voleva sapere.
Troppe assurdità, troppe idiozie e leggi che andavano contro ogni concetto di normalità, nessuna precauzione per la sanità popolare e la sicurezza altrui, perché a pararsi il fondoschiena da soli non avevano nessun problema.
Un altro rumore di sedie che si muovevano nella cucina. Pensai fosse di nuovo papà, e non ci pensai.
Tornai a chiudere gli occhi ma niente, il rumore persisteva, sembrava un domino, si spostava una sedia e di conseguenza un’altra, e poi un’altra ancora, e si fermò solo dopo un paio di minuti che sembrarono ore.
Mi sedetti sul materasso e rimasi in ascolto di quel rumore così persistente. Una porta che sbatteva, una chiave elettronica che si poggiava sul tavolo e un gemito sconnesso. Ginocchia che si buttavano sul pavimento e il mio cuore che si dimenticò di continuare a battere. I muscoli si erano irrigiditi. Non riuscivo a muovermi. Qualcosa di vetro cadde per terra senza frantumarsi, e mi fece tornare a respirare. Mi mossi con velocità verso la porta ma non sapevo se aprirla o rimanere dentro ad aspettare e vedere come si svolgeva la situazione. Gli occhi si fecero lucidi e il naso bruciava. Tirai un altro respiro molto profondo e premetti il bottone per sbloccare la porta scorrevole che si aprì da sola e misi un piede fuori dalla stanza. Strisciai lentamente lungo il breve corridoio tenendomi schiacciata contro il muro freddo e raggiunsi la cucina, buia, spenta. Chiusi gli occhi strizzandoli e allungai la mano verso il sensore per accendere la luce. Con una passata con la mano tutta la stanza si illuminò di una luce azzurrina. Con le palpebre socchiuse e gli occhi appannati per il sonno e la stanchezza, avanzai dietro al tavolo dove vidi delle sedie spostate o poggiate per terra, le scarpe della mamma. Nient’altro.
Mi mossi silenzio verso l’angolo dove si cucinava, dove avevo avuto la mia breve conversazione con papà poco tempo prima, e c’era una boccetta, piccola, allungata, sembrava una di quelle presine che usavano gli scienziati per gli esperimenti chimici.
Tornò alla mente la mano di papà che la teneva chiusa. Non conteneva nessun liquido, ora. Era completamente svuotata. Una mano grigiastra si intravedeva da dietro l’angolo cottura. Dei respiri soffocati e dei colpi leggerissimi sul pavimento echeggiavano nella mia testa come un martello che mi dava sempre dei colpetti alle tempie.
Mi si bloccò il respiro. Così anche ogni capacità motoria e riflessiva. Strinsi il pugno e spalancai gli occhi. Barcollando, mi mantenni sul bordo del mobile e temetti di svenire.
Con una forza che non consocevo, mi piegai a raccogliere la boccetta vuota. Lo immaginavo. Gli occhi mi bruciarono, così il naso, e mi faceva male lo stomaco, si era bloccato qualcosa in gola e smisi di respirare per parecchi, anche troppi secondi che iniziò a girarmi la testa. I capelli biondo platino della mamma coprivano completamente il petto immobile della persona con cui avevo parlato poco prima.
Muto, con gli occhi semichiusi che non si muovevano, le labbra che non facevano entrare o uscire aria, non respirava, era una mummia.
Le spalle di mamma si muovevano leggermente come tremando, i capelli vibravano, e quando alzò la testa mi guardò prima i piedi coperti da un paio di calzini e poi la mia faccia sconvolta. Lei non era da meno. Quel poco di trucco che aveva era finito sulle guance. Ci guardammo negli occhi per poco tempo e poi le mie gambe cedettero, lasciando che la mia vista si annebbiasse totalmente lasciando spazio solo al nero.
 
Stavanger, Norvegia, 3 ottobre 3020
«Andrà tutto bene, mamma» le sussurrai strofinandole il braccio.
Lei singhiozzò più forte, quasi venne da piangere anche a me. «Ma io non so cosa ti potrebbe capitare, non so se starai bene, non so niente...»
La abbracciai più forte e le diedi un bacio sulla fronte. La lasciai alle mani di zia Kharen e salii sull’aerobus con una valigia in mano, seguita da qualche altra signora che partiva per Oslo.
Non ero pronta a farmi una nuova vita senza i miei genitori, ma mamma aveva bisogno di cure psichiatriche e io avevo bisogno di solitudine. La morte di papà non finì nemmeno sui giornali, né venne trasmessa in video trasmettitore, fu una morte silenziosa e privata, e forse era meglio così. Da un lato me l’aspettavo, dall’altro avrei voluto non averlo mai scoperto, in un’altra opzione sarei voluta andare con lui.
Ma in un certo senso, la mia vita era appena iniziata e non potevo di certo perdere l’occasione di fuggire da quel posto pieno di oppressioni e di tristezza, una terra macchiata dal dolore e dal sangue di tanti uomini che cercavano la felicità trovandola solo nella morte.
 
Inghilterra, 27 dicembre 2013
Era tutto così uguale e monotono. Trovavo ogni singola cosa in quella locanda inutile e che si poteva utilizzare chissà per quali stupidi scopi, come quell’aggeggio in alto vicino alla porta grande e bianco con delle valvole che si aprivano e si chiudevano dalla quale usciva aria calda. Dovevano essere i riscaldamenti del ventunesimo secolo, ma non avevo idea di come si chiamassero. Mi alzai dal tavolo sul quale c’era una colazione insolita ma ottima e mi ci avvicinai a quella cosa, venendo travolta da un getto di aria calda e umida. Mi ritirai e tornai a sedermi davanti a Dan che teneva la testa tra le mani a fissare il piatto vuoto che conteneva delle paste rotonde e schiacchiate, che Woody chiamava frittelle. Erano deliziose, poi, con un condimento particolare che si chiamava sciroppo d’acero. Dan invece ci aveva aggiunto del cioccolato liquido, e sembrava molto più invitante. La cucina del terzo millennio non era poi così elaborata, specialmente in Norvegia, dove la crisi era alle stelle e le riserve alimentari scarseggiavano per tutti – tranne che per i potenti, ovviamente.
Il rumore della porta principale che sbatteva ci fece sobbalzare a tutti e tre: c’erano gli amici di Dan, Kyle e Will. Avevo brutti ricordi dall’ultima volta che avevo visto Will.
Si sedettero subito vicino a noi, Kyle accanto a Dan e Will accanto a me, e subito mi allontanai strisciando sulla panca in legno. Notai che negli occhi di Dan c’era un fuoco nei confronti dell’uomo seduto al mio fianco al quale io tentavo di svicolare. Sarei corsa dietro al bancone da Woody se non ci fosse stato un muro alla mia destra.
«Come vanno le cose?» chiese Kyle guardando prima Dan e poi me. Scrollai le spalle.
«Come sempre» abbozzai un sorriso. Colsi Dan con le mani nel sacco a fissarmi.
«A me non sembra» si mise in mezzo Will sporgendosi verso Dan che cercò di fulminarlo.
Lui si poggiò sullo schienale della panca senza distogliere lo sguardo dall’amico.
«Non ho intenzione di portare avanti questa storia, William» lo gelò.
Will dopo un secondo di serietà fece un’aspra risata che non mi andò giù. «Non mi chiami così dai tempi del liceo, Daniel.»
Poggiò l’accento sul suo nome per intero. Mi suonava così minacciosa la conversazione. Guardai Kyle che sistemava il cappellino di lana poggiato sui capelli e ricambiò lo sguardo. Sollevò le spalle.
«I-io non c’entro niente qui» mormorai alzandomi. Dan mi seguì con lo sguardo mentre scavalcavo Will e mi dirigevo verso l’uscita.
«Nemmeno io» sentii dire da Kyle che a sua volta sollevò il sedere dalla panca e mi accompagnò fuori.
 
Non scendeva nemmeno un fiocco di neve e i marciapiedi erano meno gelati del solito, una mattina piuttosto calda per essere in pieno inverno. Non avevo nemmeno bisogno di mettere una giacca, quella specie di maglione col cappuccio mi riparava abbastanza dal freddo.
Kyle mise le mani in tasca e passeggiò avanti e indietro lungo il marciapiede. C’era un palo abbastanza alto sul quale era affisso un cartello, grande e bianco, che comunicava il nome della cittadina in cui ci trovavamo: Congledon. Sembrava un nome carino se non facesse così freddo la notte.
Tirò un calcio ad una pietra grande quanto un pugno e finì dall’altra parte della strada. Osservai quel ciottolo rotolare fino a fermarsi sotto al gradino del marciapiede e tornai a Kyle.
«Noi non abbiamo avuto modo di parlare molto» disse avvicinandosi guardando ancora il sassolino immobile che aveva calciato.
Scossi il capo. «Ci sono stati dei gran casini questi giorni.»
«L’avevo notato.»
Ci zittimmo. Mi poggiai sul muro che proteggeva la locanda dalle intemperie e dal tempo atmosferico poco rassicurante e osservai il cielo nitido coperto da qualche nuvola qua e là. Era di un azzurro piuttosto vivo.
«Da quanto tempo frequenti Dan?» chiese rompendo quei pochi istanti di pace che mi ero creata, staccandomi da ogni tipo di contatto.
«Non... non ci frequentiamo. Cioè, ci siamo conosciuti per caso.»
Che stavo facendo? Mi stavo aprendo con una persona del tutto sconosciuta, che mi chiedeva cose assurde dalla prima volta che lo avevo visto, non sapevo nemmeno se le sue intenzioni erano come quelle di Will oppure era dalla mia parte come Woody. Ormai non sapevo più nemmeno da che parte stesse Dan. Mi faceva paura, come tutto il resto, ma per nulla al mondo io sarei tornata nel terzo millennio, avrei solo sofferto di più.
«Capisco» sospirò.
«Tu da quanto lo conosci?»
Si stiracchiò ma poi rimise subito le mani in tasca, forse perché sentì freddo. «Siamo amici da una vita noi quattro, cioè io e Dan ci conosciamo da forse quindici anni, sin da piccoli. Woody e Will li abbiamo incontrati strada facendo, al liceo, nei locali... Con Dan, Will ha sempre avuto qualche controversia e battibecco.»
Mi sporsi per ascoltare meglio. «Perché?»
Fece una risatina. «Dan è quello che tutti noi riteniamo il “donnaiolo” del gruppo. E Will cercava di soffiargli il posto.»
Rabbrividii. «Cosa vuoi dire?»
«Daniel non è quel genere di ragazzo che trova una persona, ci prova a stare insieme, aspetta sempre di trovare il momento e la donna giusta. È strano ma... è l’unico del gruppo a ragionare così. Woody invece è il più sincero, ma non ha intenzione di aprire i rapporti con nessuno per ora, dice che gestire una locanda vuol dire avere un via vai continuo di gente simpatica e che gli piace molto... diciamo che nessuno di noi è impegnato, per ora.»
La storia di Dan non mi convinceva. Ognuno dei suoi tre amici la spiegava in modo diverso: Will andava completamente contro il nostro “rapporto”, Kyle diceva che era un donnaiolo e aspettava quella giusta e poi c’era Woody che tentava di dirmi che Dan era davvero innamorato di me. Ma nessuna di queste sembrava plausibile, né tantomeno assomigliavano minimamente a quelli che erano i pensieri di Dan. Ognuna di queste versioni dei fatti mi apriva un dubbio enorme, solo Dan stesso sapeva la storia, e per scoprire come le cose stavano davvero mi ci avrebbe fatto impiegare più del tempo che mi sarei aspettata, perché era un tipo chiuso e non sarei riuscita ad aprirgli la mente con così poco che ci conoscevamo. O come aveva definito Kyle, frequentavamo.
«Kyle, conosci bene questa città?»
Mi squadrò con aria interrogativa. «Sì, perché?»
«Mi piacerebbe farci un giro, ti andrebbe d farmi da guida?»
Fece un sorriso luminoso quanto imbarazzato, e annuì contento.
 
 
Writer’s wall
Bene bene plebee, sono tornata! I’m back! Purtroppo per voi muahahahah c’:
c’è da dire che ho avuto parecchio da fare questi giorni e ne avrò fino all aprossima settimana, quindi pubblicherò i capitoli più lentamente rispetto a poco tempo prima e questo mi duole molto ma spero di aumentare la vostra curiosità anche se non ci riuscirò mai nehehe.
Un ringraziamento particolare a Noemi (colei che qui su efp conoscete come shesunbroken e se non avete letto le sue storie vi costringo a farlo) che mi ha sempre appoggiata nella realizzazione della storia e che è sempre riuscita a non buttarmi giù, a Nives, Eva, Maria Luisa e tutte le stormers (e non) che mi sostengono sempre e mi seguono fedelmente!
Un bacio, Angelica.
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Bastille / Vai alla pagina dell'autore: rachel_hetfield