Mi sta chiamando. I miei passi uno dopo l’altro
seguono l’impervio sentiero che pure conoscono come fosse
tatuato sotto le piante dei piedi. Il sacrilegio che ho compiuto mi
spinge ad avanzare, gli alti fusti delle conifere osservano il cammino
come scure e silenziose sentinelle. La Montagna mi chiama a
sé, mi chiama affinché io possa riposare il mio
dolore nel suo grembo. Mi giro a metà, ma gli inseguitori
sembrano aver perso le mie tracce o forse sono semplicemente
soddisfatti che me ne stia andando. Mi premo una mano sul costato, fa
male: come un fuoco che brucia sotto pelle. Dietro la schiena spunta
ancora una piccola parte dell’asta della freccia che il
più giovane mi ha scagliato.
Ho con me tutte le mie cose, le
ho preparate in fretta mentre la luna sorgeva. Il mio crimine non era
stato ancora scoperto e m’illudevo di poter scappare e far
perdere le mie tracce. Sono tutto un dolore, pesa la faretra di legno
con le frecce, rimaste inutilizzate, e i piccoli contenitori di betulla
che ho riempito di carne secca. Accosto alle labbra aride un otre di
pelle pieno a metà. Il liquido freddo scende in gola
causandomi nuove fitte di sofferenza. Un gemito sfugge dalle labbra.
L’aria fredda punge le narici facendole bruciare. Il respiro
si fa ansante. Nel folto della foresta il sole non riesce a penetrare
con il suo calore. Gioca a nascondino tra i rami. Alzo gli occhi al
richiamo di un uccello. Un trapestio mi fa trasalire, aguzzo gli occhi,
uno schiocco. Respiro lentamente la fredda aria balsamica cercando di
calmare i frenetici palpiti del cuore. Mi stringo meglio il mantello
d’erba addosso, notando quanto siano illividite le punte
delle dita. Il loro colore assomiglia a quello dei miei tatuaggi, ma
questa volta la loro magia sembra non avere effetto. Le ossa
scricchiolano e solo le piccole crocette e i puntini che lo sciamano mi
ha tracciato addosso per sempre sembravano fare effetto. Tocco quei
piccoli segni rendendomi conto con disperazione che sono ormai spenti,
nessuna energia fluisce più da loro, anche il più
tenue contatto con gli Dei si è lacerato. Sono indeciso se
fermarmi a riposare un poco e terminare l’arco e le frecce a
cui stavo lavorando quando mi hanno sorpreso. Ma una fitta al costato
ed una strana urgenza mi costringono a proseguire. Posso quasi sentire
la Voce che mi chiama. E so che per me questo sarà
l’ultimo viaggio, braccato come uno dei cervi che ero solito
cacciare. Non ci saranno donne a piangere la mia morte, né
sciamani a mugolare le loro formule. Forse udrò solo il
lamento del vento. Mi spingo ancora avanti in un cammino senza ritorno
e che sa di agonia. La scheggia di selce conficcata nelle carni canta
una canzone di morte e avidità e vendetta. Prima di salire
su questa montagna per l’ultima volta ero un uomo importante,
le mie donne erano belle e miti. Ma tutto questo è ormai
passato, è il sogno del ricordo dell’uomo che ero.
Prima di macchiarmi di sacrilegio.
Era appena spuntata la prima stella
della sera quando persi il diritto di essere un uomo tra gli uomini.
Già sentivo il cervo che era in me fremere
d’orrore e di paura. Chiudo gli occhi per un momento, le
gambe mi mancano e cado tra i sassi aguzzi e la terra. La vita scorre
lontana da me, ma non posso fermarmi qui, in mezzo al sentiero come una
povera carcassa di bestia. Mi rialzo a fatica, il volto si inumidisce,
non so se di lacrime o sudore. I cervi piangono quando vedono il dardo
dirigersi verso la gola palpitante? Prima di diventare uomo fui
freccia, tanto tempo fa. Le fronde sussurrano la mia storia,
affinché io non possa mai dimenticarla. La fuga silenziosa e
la notte trascorsa nel ventre oscuro della notte, tremante come mai ero
stato nella vita. Come un cucciolo disperso, raggomitolato in un buco.
Mai notte fu più lunga di questa, avrei mai più
visto la luce del giorno? O gli Dei mi avevano già trovato e
punito? Sarebbe stato questo il mio destino: trascorrere
un’eterna notte di terrore. Poi l’aria si era
riempita di chiarore e quando vidi un puntino rosso
all’orizzonte accolsi il sole con esultanza. Se ero riuscito
a passare la notte forse mi sarebbe stato concesso di vivere.
Non mi
ero allontanato molto dal villaggio, alacremente percorsi i sentieri
che conoscevo così bene. Quando il sole fu alto in cielo mi
fermai e cominciai a lavorare alle mie armi. Convinto di poter
cominciare una nuova vita, solitaria, diversa. Ero in una piccola
radura muschiosa, nascosta nel folto della foresta. Intorno a me potevo
sentire i trilli degli uccelli e smuovere di foglie. Un riflesso verde
permeava l’aria tutt’intorno. C’era pace.
Ero concentrato, ma vigile. Qualcosa mutò
nell’aria. Annusai in cerca di odori nuovi, mi sollevai a
metà allarmato da un piccolo schiocco. Lesto come una lepre
selvatica lasciai la radura, ma i miei nemici come lupi assetati di
sangue mi avevano teso un agguato. Erano in due, li riconobbi.
Così gli Dei avevano scelto loro come vendicatori. Avrei
dovuto accogliere il mio destino, ma corsi via. Forse ho perso davvero
la mia umanità perché gridarono parole che non
capii. Il più giovane tese l’arco, come gli avevo
insegnato. Una fitta di fuoco mi colpii. Le lepri si catturano con le
reti. Stupido piccolo uomo. Mi dileguai nel folto con occhi sbarrati e
respiro mozzato tra i denti.
Un capogiro mi sorprende. Con sorpresa mi
rendo conto che più il cuore batte veloce e più
sento le forze venirmi meno. Il mio sguardo si offusca, la pelle
è fredda e sudata. Continuo a camminare verso il Richiamo.
Gli alberi che avevano vegliato il mio cammino si fanno più
radi, lasciandomi sempre più solo. Le fronde che si muovono
sembrano dirmi addio. Il paesaggio attorno a me cambia, si fa da bruno
e verde a bianco e azzurro. Un sole lontano splende abbacinate, i suoi
raggi feriscono gli occhi, ma non riescono a dare calore alle ossa.
Quasi volessero beffarsi di me.
Proseguo ancora, sempre più
lentamente, trascinando i piedi stanchi. Con un rantolo mi accascio
sulla coltre bianca, mi accoglie materna nel suo grembo. Il gelo che si
espande dalla punta della freccia sembra voler rivaleggiare con quello
della neve. Tra le guglie frastagliate in grottesche figure che
sembrano deridermi il vento geme modulando la sua canzone a cui si
unisce la voce della Montagna. E il sole dardeggia la sua e la neve
sussurra la sua. E la punta di selce piantata vicino al cuore, anche
lei mormora la sua canzone. Gli occhi annebbiati si chiudono, le
tenebre mi avvolgono. L’ultima cosa che posso udire
è la canzone di morte e consolazione che la Montagna canta
per me. Il vento mi ricopre con un sottile manto di neve e si porta via
il mio respiro.
Nota dell’autrice:
L’uomo, conosciuto come Oetzi (dalla vicina valle dell’Oetzal), era un maschio adulto, alto circa 160 cm, che al momento della morte doveva avere all'incirca 46 anni. Un'età ragguardevole visto che la mummia risale all’età del Rame (3300 - 3100 a.C.). L'Uomo venuto dal ghiaccio era equipaggiato nel migliore dei modi per la permanenza in alta montagna. Aveva calzature, una specie di pantaloni, perizoma, sopravveste, un mantello fatto d'erba e un berretto di pelo d'orso. Inoltre portava con sé un arco non finito, una faretra con frecce, un'ascia di rame, un pugnale di selce con fodero, un ritoccatore, contenitori in corteccia di betulla, una gerla, punteruoli d'osso ed altro. Le nuove indagini radiografiche e tomografiche hanno evidenziato una punta di freccia nella spalla sinistra. Trafiggendo il corpo, la freccia ha prodotto un foro di circa 2 cm nella scapola. Pur non avendo leso organi vitali, sembra che sia stata proprio questa ferita a provocarne la morte. La freccia fu scoccata dal basso e da una distanza di circa 100 m. Una ferita da taglio piuttosto profonda sulla mano destra lascerebbe intendere che Oetzi abbia avuto una colluttazione poco prima di morire. Analisi del DNA del sangue riscontrato sui vari oggetti ed armi d'accompagnamento hanno evidenziato quattro tipi di sangue umano diversi. I pollini nell'intestino di Oetzi e le foglie d'acero di montagna, colte fresche dall'albero, permettono di fissare il momento della sua morte all'inizio dell'estate. La mummia si trova a Bolzano, nel Museo Archeologico dell'Alto Adige.
Nota dell’autrice:
L’uomo, conosciuto come Oetzi (dalla vicina valle dell’Oetzal), era un maschio adulto, alto circa 160 cm, che al momento della morte doveva avere all'incirca 46 anni. Un'età ragguardevole visto che la mummia risale all’età del Rame (3300 - 3100 a.C.). L'Uomo venuto dal ghiaccio era equipaggiato nel migliore dei modi per la permanenza in alta montagna. Aveva calzature, una specie di pantaloni, perizoma, sopravveste, un mantello fatto d'erba e un berretto di pelo d'orso. Inoltre portava con sé un arco non finito, una faretra con frecce, un'ascia di rame, un pugnale di selce con fodero, un ritoccatore, contenitori in corteccia di betulla, una gerla, punteruoli d'osso ed altro. Le nuove indagini radiografiche e tomografiche hanno evidenziato una punta di freccia nella spalla sinistra. Trafiggendo il corpo, la freccia ha prodotto un foro di circa 2 cm nella scapola. Pur non avendo leso organi vitali, sembra che sia stata proprio questa ferita a provocarne la morte. La freccia fu scoccata dal basso e da una distanza di circa 100 m. Una ferita da taglio piuttosto profonda sulla mano destra lascerebbe intendere che Oetzi abbia avuto una colluttazione poco prima di morire. Analisi del DNA del sangue riscontrato sui vari oggetti ed armi d'accompagnamento hanno evidenziato quattro tipi di sangue umano diversi. I pollini nell'intestino di Oetzi e le foglie d'acero di montagna, colte fresche dall'albero, permettono di fissare il momento della sua morte all'inizio dell'estate. La mummia si trova a Bolzano, nel Museo Archeologico dell'Alto Adige.