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Autore: cassiana    04/06/2008    10 recensioni
Il 19 settembre 1991 quello che sembrò essere un macabro ritrovamento si rivelò essere invece una delle più importanti scoperte archeologiche mai avvenute. Due turisti tedeschi, scendendo dalla cima del Similaun, scoprirono il corpo di un uomo perfettamente conservato dai ghiacci, risalente circa all’età del Rame. Successivi studi hanno messo in luce che la mummia del Similaun non fosse morta per cause naturali, ma per una freccia conficcata nella spalla sinistra. La vicenda di Oetzi si configura, forse, come il più antico “giallo” della storia. Chi l’ha ucciso? E perché?
Genere: Fantasy, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità
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Un tempo fui freccia Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.



Mi sta chiamando. I miei passi uno dopo l’altro seguono l’impervio sentiero che pure conoscono come fosse tatuato sotto le piante dei piedi. Il sacrilegio che ho compiuto mi spinge ad avanzare, gli alti fusti delle conifere osservano il cammino come scure e silenziose sentinelle. La Montagna mi chiama a sé, mi chiama affinché io possa riposare il mio dolore nel suo grembo. Mi giro a metà, ma gli inseguitori sembrano aver perso le mie tracce o forse sono semplicemente soddisfatti che me ne stia andando. Mi premo una mano sul costato, fa male: come un fuoco che brucia sotto pelle. Dietro la schiena spunta ancora una piccola parte dell’asta della freccia che il più giovane mi ha scagliato.
Ho con me tutte le mie cose, le ho preparate in fretta mentre la luna sorgeva. Il mio crimine non era stato ancora scoperto e m’illudevo di poter scappare e far perdere le mie tracce. Sono tutto un dolore, pesa la faretra di legno con le frecce, rimaste inutilizzate, e i piccoli contenitori di betulla che ho riempito di carne secca. Accosto alle labbra aride un otre di pelle pieno a metà. Il liquido freddo scende in gola causandomi nuove fitte di sofferenza. Un gemito sfugge dalle labbra. L’aria fredda punge le narici facendole bruciare. Il respiro si fa ansante. Nel folto della foresta il sole non riesce a penetrare con il suo calore. Gioca a nascondino tra i rami. Alzo gli occhi al richiamo di un uccello. Un trapestio mi fa trasalire, aguzzo gli occhi, uno schiocco. Respiro lentamente la fredda aria balsamica cercando di calmare i frenetici palpiti del cuore. Mi stringo meglio il mantello d’erba addosso, notando quanto siano illividite le punte delle dita. Il loro colore assomiglia a quello dei miei tatuaggi, ma questa volta la loro magia sembra non avere effetto. Le ossa scricchiolano e solo le piccole crocette e i puntini che lo sciamano mi ha tracciato addosso per sempre sembravano fare effetto. Tocco quei piccoli segni rendendomi conto con disperazione che sono ormai spenti, nessuna energia fluisce più da loro, anche il più tenue contatto con gli Dei si è lacerato. Sono indeciso se fermarmi a riposare un poco e terminare l’arco e le frecce a cui stavo lavorando quando mi hanno sorpreso. Ma una fitta al costato ed una strana urgenza mi costringono a proseguire. Posso quasi sentire la Voce che mi chiama. E so che per me questo sarà l’ultimo viaggio, braccato come uno dei cervi che ero solito cacciare. Non ci saranno donne a piangere la mia morte, né sciamani a mugolare le loro formule. Forse udrò solo il lamento del vento. Mi spingo ancora avanti in un cammino senza ritorno e che sa di agonia. La scheggia di selce conficcata nelle carni canta una canzone di morte e avidità e vendetta. Prima di salire su questa montagna per l’ultima volta ero un uomo importante, le mie donne erano belle e miti. Ma tutto questo è ormai passato, è il sogno del ricordo dell’uomo che ero. Prima di macchiarmi di sacrilegio.
Era appena spuntata la prima stella della sera quando persi il diritto di essere un uomo tra gli uomini. Già sentivo il cervo che era in me fremere d’orrore e di paura. Chiudo gli occhi per un momento, le gambe mi mancano e cado tra i sassi aguzzi e la terra. La vita scorre lontana da me, ma non posso fermarmi qui, in mezzo al sentiero come una povera carcassa di bestia. Mi rialzo a fatica, il volto si inumidisce, non so se di lacrime o sudore. I cervi piangono quando vedono il dardo dirigersi verso la gola palpitante? Prima di diventare uomo fui freccia, tanto tempo fa. Le fronde sussurrano la mia storia, affinché io non possa mai dimenticarla. La fuga silenziosa e la notte trascorsa nel ventre oscuro della notte, tremante come mai ero stato nella vita. Come un cucciolo disperso, raggomitolato in un buco. Mai notte fu più lunga di questa, avrei mai più visto la luce del giorno? O gli Dei mi avevano già trovato e punito? Sarebbe stato questo il mio destino: trascorrere un’eterna notte di terrore. Poi l’aria si era riempita di chiarore e quando vidi un puntino rosso all’orizzonte accolsi il sole con esultanza. Se ero riuscito a passare la notte forse mi sarebbe stato concesso di vivere.
Non mi ero allontanato molto dal villaggio, alacremente percorsi i sentieri che conoscevo così bene. Quando il sole fu alto in cielo mi fermai e cominciai a lavorare alle mie armi. Convinto di poter cominciare una nuova vita, solitaria, diversa. Ero in una piccola radura muschiosa, nascosta nel folto della foresta. Intorno a me potevo sentire i trilli degli uccelli e smuovere di foglie. Un riflesso verde permeava l’aria tutt’intorno. C’era pace. Ero concentrato, ma vigile. Qualcosa mutò nell’aria. Annusai in cerca di odori nuovi, mi sollevai a metà allarmato da un piccolo schiocco. Lesto come una lepre selvatica lasciai la radura, ma i miei nemici come lupi assetati di sangue mi avevano teso un agguato. Erano in due, li riconobbi. Così gli Dei avevano scelto loro come vendicatori. Avrei dovuto accogliere il mio destino, ma corsi via. Forse ho perso davvero la mia umanità perché gridarono parole che non capii. Il più giovane tese l’arco, come gli avevo insegnato. Una fitta di fuoco mi colpii. Le lepri si catturano con le reti. Stupido piccolo uomo. Mi dileguai nel folto con occhi sbarrati e respiro mozzato tra i denti.
Un capogiro mi sorprende. Con sorpresa mi rendo conto che più il cuore batte veloce e più sento le forze venirmi meno. Il mio sguardo si offusca, la pelle è fredda e sudata. Continuo a camminare verso il Richiamo. Gli alberi che avevano vegliato il mio cammino si fanno più radi, lasciandomi sempre più solo. Le fronde che si muovono sembrano dirmi addio. Il paesaggio attorno a me cambia, si fa da bruno e verde a bianco e azzurro. Un sole lontano splende abbacinate, i suoi raggi feriscono gli occhi, ma non riescono a dare calore alle ossa. Quasi volessero beffarsi di me.
Proseguo ancora, sempre più lentamente, trascinando i piedi stanchi. Con un rantolo mi accascio sulla coltre bianca, mi accoglie materna nel suo grembo. Il gelo che si espande dalla punta della freccia sembra voler rivaleggiare con quello della neve. Tra le guglie frastagliate in grottesche figure che sembrano deridermi il vento geme modulando la sua canzone a cui si unisce la voce della Montagna. E il sole dardeggia la sua e la neve sussurra la sua. E la punta di selce piantata vicino al cuore, anche lei mormora la sua canzone. Gli occhi annebbiati si chiudono, le tenebre mi avvolgono. L’ultima cosa che posso udire è la canzone di morte e consolazione che la Montagna canta per me. Il vento mi ricopre con un sottile manto di neve e si porta via il mio respiro.







Nota dell’autrice:
L’uomo, conosciuto come Oetzi (dalla vicina valle dell’Oetzal), era un maschio adulto, alto circa 160 cm, che al momento della morte doveva avere all'incirca 46 anni. Un'età ragguardevole visto che la mummia risale all’età del Rame (3300 - 3100 a.C.). L'Uomo venuto dal ghiaccio era equipaggiato nel migliore dei modi per la permanenza in alta montagna. Aveva calzature, una specie di pantaloni, perizoma, sopravveste, un mantello fatto d'erba e un berretto di pelo d'orso. Inoltre portava con sé un arco non finito, una faretra con frecce, un'ascia di rame, un pugnale di selce con fodero, un ritoccatore, contenitori in corteccia di betulla, una gerla, punteruoli d'osso ed altro. Le nuove indagini radiografiche e tomografiche hanno evidenziato una punta di freccia nella spalla sinistra. Trafiggendo il corpo, la freccia ha prodotto un foro di circa 2 cm nella scapola. Pur non avendo leso organi vitali, sembra che sia stata proprio questa ferita a provocarne la morte. La freccia fu scoccata dal basso e da una distanza di circa 100 m. Una ferita da taglio piuttosto profonda sulla mano destra lascerebbe intendere che Oetzi abbia avuto una colluttazione poco prima di morire. Analisi del DNA del sangue riscontrato sui vari oggetti ed armi d'accompagnamento hanno evidenziato quattro tipi di sangue umano diversi. I pollini nell'intestino di Oetzi e le foglie d'acero di montagna, colte fresche dall'albero, permettono di fissare il momento della sua morte all'inizio dell'estate. La mummia si trova a Bolzano, nel Museo Archeologico dell'Alto Adige.
   
 
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