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Autore: arimika    19/01/2014    2 recensioni
Una terribile epidemia sta mietendo vittime su vittime falciando vite.
Dopo un anno di sperimentazioni e cure la malattia è stata debellata, ma il Pokéworld deve contare le sue perdite: all’apparenza solo i Ditto, tra tutti i Pokémon, sono sopravvissuti.
Dieci anni dopo i Ditto si proclamano i padroni del mondo, solo sette ragazzi potranno salvare il Pokéworld.
Il futuro è nelle loro mani, ma l’ombra del tradimento serpeggia anche tra chi ha la volontà per fermare quelle creature che sanno essere identiche a noi e ci reputano esseri inferiori.
Un’antica leggenda sta per essere riportata alla luce, il passato si ripeterà?
Chi avrà il potere di fermare l’avanzare della fine?
Vittoria e sconfitta non sono più decisi dall’ago della bilancia.
Paring: Ikarishipping, Contestshipping, Almiashipping e Pokéshipping; accenni Egoshipping.
Protagonisti: Lucie, Devi (nuovi personaggi), Alex, Hitomi, Glenda (Pokémon Ranger Ombre su Almia), Ash, Misty, Barry, Belle, Dawn, Paul, Haruka e Shu (anime).
Antagonisti: Cyrus, Giovanni, Max, Ivan, Spighetto, Saturn, Martes e Giovia (anime), Frido e Keino (PKMN Ranger Ombre su Almia).
Se volete, aprite e recensite, questa è la mia prima fic in questo fandom e ne vado decisamente orgogliosa. ^_^
Buona lettura.
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Barry, Drew, Lucinda, N, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Ash/Misty, Drew/Vera
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime, Videogioco
Capitoli:
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Mi è mancato non aggiornare e oggi, finalmente, sono riuscita a concludere questo capitolo. Devo essere sincera: mi è dispiaciuto vedere il tempo passare mentre non riuscivo a scrivere che tre. quattro righe la settimana. Lo scorso non era un capitolo d'addio, era una promessa di un altro e quel "in corso" che leggevo sullo stato della storia mi ha convinta a resistere e a non abbandonare questa storia. Ho passato brutti momenti ma ora sono tornata.
Non credo di riuscire a pubblicare con le due settimane come frequenza e con intervalli di tempo tra una pubblicazione e l'altra regolari. Detto questo, mi scuso per i quattro mesi (sono quattro mesi?) che non aggiornavo e ringrazio coloro che hanno letto. Vi giuro: quando entravo e vedevo il numero di visualizzazioni aumetare, quando leggevo che il numero di persone interessate aumentava, volevo scrivere, ci provavo, ma non ce la facevo mai. Vorrei ringraziarvi. Tutti, dal primo all'ultimo. Non so quando ci rivedremo, non penso a Gennaio, però. Spero che le vostre vacanze siano state belle, vi auguro di essere ritornati bene e che quest'anno, tra l'altro già iniziato, proceda nella miglior direzione.
Grazie mille a Euphemia, AnaDarkLady97 e FrozenReborns che hanno recensito, le prime due lo scorso capitolo, il terzo l'intera storia con una semplice recensione.

CAPITOLO TREDICI

Stavano camminando già da qualche ora.
Vedendo la regione dall’alto di una mappa poteva sembrare veramente molto piccola, i disegni striminziti e le spiegazioni ridotte al minimo indispensabile. Sul quel foglio di carta, che anni prima era facile trovare in un Centro Ranger, la regione  pareva microscopica, di una grandezza irrilevante. Eppure camminando, a mano a mano che procedevano, potevano comprendere il vero significato di una scala di riduzione: quelli che su una cartina erano solamente due centimetri, corrispondevano ad almeno dieci chilometri nella realtà. E le piante dei loro piedi ne pativano le conseguenze.
Cosa avrebbero dato per avere un paio di Dadavolanti o due Staraptor cosicché il loro viaggio fosse il più confortevole e veloce possibile.
Ma, ahimè…. Dopo la distruzione dei Bricconieri di Pokémon ad Oblivia, i progetti per ricostruirli erano andati perduti, e così, anche le possibilità di volare dopo la morte della gran parte dei Pokémon.
Camminare sotto quel sole cocente era stancante, non un anelito di maestrale o levante scuoteva le fresche chiome rigogliose in quell’assolata mattina, solo il movimento dei loro corpi e i loro respiri tranquilli smuovevano la placidità oziosa che aleggiava nell’aria in ogni fessura e pertugio infilandosi come la polvere, dappertutto.
Il fruscio dell’erba era tanto consono alle loro orecchie da risultare quasi familiare, lo scricchiolio dei loro passi che, con il loro incedere frettoloso, si susseguiva senza tregua era il simbolo delle fratture che ancora una volta andavano rompendo e sconquassando la terra. Gli alberi raccontavano loro le proprie storie ma loro, sordi com’erano al richiamo della natura, continuavano lungo il cammino che aveva tracciato nelle menti indisturbati beandosi della pace, l’unica sensazione che, dalle storie delle anziane querce, lasciava una traccia tangibile nei loro subconsci.
Le mani si toccavano, sfiorandosi. I loro fiati si mescolavano mentre un brivido percorreva le loro schiene ogni volta che la loro pelle si scontrava quasi fosse ghiacciata. Il sudore gocciolava dalle fronti, faceva caldo. Troppo.


- Acqua!- fu l’unica cosa che uno dei due poteva esclamare quando non ce la fece proprio più a proseguire il cammino, apparentemente eterno.
 
Si buttò sull’erba, tra la rugiada che ancora si attardava sui piccoli e fragili steli, infradiciandosi. Assaporò la frescura che stava andando a mitigare il caldo afoso di quel sole di fine estate. Sorrise quando guardò la compagna, sdraiata accanto a lui, mentre guardava il cielo sorridendo con occhi beati.
Appoggiò una mano sul suo ventre richiamando la sua attenzione.


-A cosa stai pensando?- le domandò tranquillo guardandola e sorridendole.

Lei lo fissò e tornò a posare il suo sguardo verso il cielo.

- A niente. Oggi il cielo è stupendo, trasmette una sensazione di pace quando ti perdi in quell’azzurro. Sembra come se non esistessimo o come se i nostri problemi non avessero ragion d’essere. E poi… - s’interruppe alzando il busto e guardandolo- è divertente immaginare che le nuvole si rincorrano e cambino forma perché stanno giocando a nascondino.

- Già.- portò le mani dietro la testa fissando l’azzurro, poi chiuse gli occhi- Glenda?- la chiamò- Posso farti una domanda?
- Certo!- lo guardò stupita.
- Se un giorno dovessi scomparire, tu… tu come ti sentiresti?
- Non mi sentirei!- esclamò- Ti verrei a cercare e ti riporterei indietro anche prendendoti a calci in culo se fosse necessario! In fondo... mi sono talmente tanto abituata alla tua stupidità che non potrei farne a meno.
- Bè… - rise.
- Che ridi a fare, brutto zuccone zoticone che non sei altro!- si era indispettita.
- Guarda che ti multo sai?- stava diventando isterico ma stranamente lo disse con la voce divertita.
- Fai pure! Tanto al primo cestino butto tutto!- uscì dal suo zaino una risma di fogli strappati da un blocchetto per le multe mostrandogliele… dovevano essere a mala pena un centinaio.
- Io ti multo!- iniziò a scribacchiare qualcosa su altri foglietti per poi aggiungerli sulla pila.
 
Continuando a litigare non si erano affatto accorti che si erano avvicinati alla fine di quelle immense gole. Dopo quasi un giorno di cammino… ora dovevano trovare soltanto un’imbarcazione che li portasse a destinazione. Ma di barche e pescatori non ce n’era neanche l’ombra.
L’unica soluzione che venne loro in mente (a Glenda, il compagno di viaggio era troppo stupido) fu quella di costruire una zattera di fortuna con cui risalire il fiume.
Si trovavano ad un molo vicino alla sede dell’ex federazione ranger, un edificio caduto in disuso che portava i segni della mancanza di manutenzione umana: essendo stato costruito molto velocemente, i materiali non erano di ottima fattura e solo un’adeguata e costante cura poteva rendere l’aspetto della costruzione pulito, ordinato e soprattutto piacevole alla vista. Vi si accedeva tramite delle scale e si estendeva su un’ampia zona alzandosi su tre livelli includendo il piano terra ed escludendo il giardino sul tetto. La via d’accesso, unica, se vogliano escludere quella aerea, era molto lunga: una scalinata di un centinaio di gradini di cemento rovinati dalle esplosioni dei Pineco che un tempo abitavano lì vicino. Non c’erano lampioni ad illuminarla e, se un ranger rincasava dopo il tramonto, solo le stelle e la luna potevano indicargli la strada. Ma loro non avevano problemi: i Pokémon selvatici di notte dormivano e non dovevano, nella maniera più assoluta, disturbare il loro riposo illuminandoli con delle luci indesiderate.

I ranger avevano sempre avuto tre regole:
Rispetta la natura.
Rispetta i Pokémon.
Proteggi i civili e i Pokémon da qualunque situazione poteva risultare dannosa per loro.

E così si erano sempre comportati, inseguendo i propri sogni e lottando per chi non poteva. Le loro armi erano degli Styler: dei dispositivi elettronici che funzionavano grazie a onde elettromagnetiche inviate da propulsori interni, il loro meccanismo di funzionamento era semplice, per non dire elementare. Una trottola si staccava, dopo essersi caricata dei sentimenti positivi della persona, e girava intorno al Pokémon a cui trasmettere l’amicizia del ranger. Se si riusciva, la cattura era completata e il piccolo ti seguiva finché gli fosse chiesto qualcosa e lui, facendola, veniva liberato.
Questo era uno dei motivi del contrasto e dell’odio che si era instaurato tra Ranger e Allenatori. Il motivo per cui nelle regioni di Fiore, Almia e Oblivia agli allenatori non era permesso entrare, oltre che per motivi storici. Ma dopo la scomparsa dei Pokémon e il successivo bisogno dei Ditto in quasi tutte le siuazioni, anche a questi era stato possibile l’accesso.
L’edificio era grande ed imponente, ma tutta la sua prestanza diminuiva quando si notavano le crepe dei terremoti o le piante che vi crescevano, principalmente felci e piccoli rampicanti. Era triste riflettere su come l’incuria del tempo lo avesse divorato, lentamente. I due stavano cercando nel bosco qualche tronco sufficientemente grande da assemblare insieme per costruire una zattera. Ma non avevano fatto i conti con il fattore imprevisto.


- Cercate qualcosa ragazzi?- i due si voltarono di colpo spaventati.

Quando videro il ragazzo che aveva parlato si gelò loro il sangue nelle vene per la sorpresa. Il suo viso, affabile  e buono, con le guance un po’ troppo paffute e il doppio mento, faceva da perfetto contorno a due occhi allegri e vispi di un acceso marrone dello stesso colore dei capelli corti, leggermente mossi. Con il suo fisico robusto, il giovane torreggiava sopra ad uno strano Aerodactyl.

- Chi sei tu?- fu tutto ciò che riuscì a dire Glenda fissandolo spaventata.
- Se non ti presenti ti multo!- sbraitò il compagno di viaggio della bionda.
- Siamo "vostri" amici, non abbiamo brutte intenzioni nei vostri confronti. Il mio nome è William, ma per gli amici sono Willy.- gli rispose quello ignorando il commento del ragazzo.- Vivo nella Valle di Crio e questo è il mio carissimo amico: è un Ditto.

Così dicendo scese dal Pokémon che si trasformò in un essere umano: prese le sembianze di un ragazzo dai capelli blu lunghi fin poco sopra le spalle, leggermente più corti avanti e con un ciuffo a coprirgli l’occhio destro di un acceso azzurro.

- È-è un Ditto???- la ragazza fissò il biondino al suo fianco che stava cercando qualcosa dall’interno dallo zaino subito dopo aver sentito del Pokémon.
- Sì, sono un Ditto.- gli rispose quello portando le mani alla vita poggiandole sopra allo hadajuban blu.- il mio nome è Valerio.
- Stammi lontano Ditto!- sibilò la ragazza assottigliando lo sguardo e fissandolo in cagnesco.
- E pensare che vi volevo risparmiare la fatica inutile di costruire una zattera…- disse quello alzando le spalle e avvicinandosi a Willy- Direi che questi ragazzini non hanno bisogno del nostro aiuto. Che ne dici? Ce ne andiamo?

Il bruno fissò i due biondini meravigliato.

- M-ma io volevo aiutarli!- gli rispose quello guardando in direzione della ragazza.
- Oh! Trovato!- esclamò il riccioluto uscendo il suo pesante martello- E ora noia  due, Ditto! Pagherai per quello che i tuoi amici hanno fatto!

Glenda era tentata di lasciarlo attaccare, quando si ricordò di chi fosse il vero motivo di quel viaggio.
Anche quel piccolo, che aveva intenzione di curare, era della stessa specie di Valerio… ma lui non avrebbe partecipato alla distruzione degli umani, a quell’orrendo massacro quindi perché avrebbero dovuto attaccarlo senza conoscerlo?

Il biondo piegò leggermente le gambe e caricò il martello, con tutta la sua forza lo scagliò in direzione del Pokémon. Il blu, rimanendo in forma umana, lo evitò ma l’aria che si era mossa dopo lo spostamento dell’arma lo fece sbalzare all’indietro e sbattere contro il tronco di un albero.


- Barry! Smettila! Proviamo a fidarci di loro, ok? Abbiamo bisogno d’aiuto e dobbiamo essere tornati da quel Ditto in poco più di una settimana.- lo rimproverò sempre più stizzita e mettendosi in mezzo tra i due sconosciuti e il suo compagno di viaggio.
- Hai detto Ditto? – sibilò quello- io non aiuterò alcun Ditto! E se stiamo andando nella Valle per lui ti puoi scordare che ti accompagni!- scandì bene le ultime parole, quasi con cattiveria, per rimarcare il loro contenuto.- Ti saluto, Glenda! Io non salverò la vita ad alcun Ditto!
- Barry… perfavore… - provò a supplicarlo mentre lui riprendeva il suo zaino e se lo poggiava in spalla, raccolse anche il suo martello sotto gli occhi di tutti e lo legò nella sua cintura
-  Glenda, decidi. O salvi quel Pokémon e io ti lascio qui, o me… scegli!
- Perché dovrei? Sei un mio compagno, sei un mio amico… anche se non condividi la mia scelta siamo amici, no? E gli amici si aiutano! Quindi vieni con me! Ti prego Barry.- il biondo ci penso sù qualche secondo fissando la terra e l’erba che si muoveva cullata dal vento ondeggiando in quello piccolo spazio che gli era stato assegnato. Alzò lo sguardo e lo condusse sul suo volto incatenando gli occhi di lei ai suoi.
- Noi non- scandì questa parola- siamo più amici.- le sorrise mentre lei sgranava gli occhi cercando di cogliere una qualche sfumatura in quella frase così asciutta che la conducesse a pensare che il ragazzo aveva mentito, invano.
- Stai- deglutì allibita- stai scherzando, vero? Non può essere.
- Allora. Hai deciso?- la fissò seriamente, riducendo i suoi occhi arancioni a fessura.
- Sì. Allora ciao.- la ragazza si voltò e iniziò ad avviarsi verso Willy e Valerio, gli diede le spalle e lo salutò con un gesto della mano.- Addio.- Barry sputò a terra e se ne andò correndo.

Passo dopo passo, avanzava senza mai voltarsi indietro, brandello dopo brandello distruggendo, dilaniando, con tutta la forza che possedeva, quel piccolo misero legame che tra loro si era istaurato. In quel momento Glenda provò per la prima volta cosa significava sentirsi sola, ma era solo all’inizio, al principio di un baratro di solitudine; così, priva del supporto morale che solo quel ragazzo sapeva infonderle, si sentiva vulnerabile, ben più di quanto il suo carattere e la sua vita l’avessero mai fatta provare. Tirò indietro le lacrime che iniziavano a pizzicarle gli occhi, sperando che nessuno notasse il baluginio che glieli increspava e che faceva luccicare le iridi azzurrine, e quella leggera irritazione che colorava di un lieve e delicato rosso sangue il candore del bulbo, come una macchia indesiderata esse stavano andando a rovinare un momento perfetto: in fondo, non era lei quella che desiderava che il biondino sparisse? E allora perché sentirsi così… cosa stavano a significare quei sentimenti, quell’emozione che la stava svuotando? Non lo sapeva. Non voleva scoprirlo.
Sorrise mascherando le emozioni, come era diventata abile a fare quando subiva un torto e, dopo che Hitomi se n’era andata, la sua abilità era andata migliorando sempre più, poi si volse, mostrando uno dei suoi più falsi sorrisi verso il ragazzo e il Ditto. Cercava di tirare un sorriso, da fuori sembrava, doveva apparire, felicissima che lui fosse scomparso dalla sua vita definitivamente; ma non comprendeva cosa stesse provando realmente, cos’era quella sensazione di angoscia che la stringeva in una morsa, quella paura che tanto la abbatteva, spaventava, annientava, che tanto le faceva tremar le gambe? Perché sentiva il suo cuore battere sempre più dolorosamente a mano a mano che il biondo si faceva sempre più lontano? Non poteva sapere la risposta… o forse, ed era molto più probabile, non voleva, semplicemente, averla. La figura si faceva sempre più piccola e lontana, ogni suo passo, ogni eco del suo incedere veloce era una lama fredda, tanto fredda quanto il ghiaccio invernale, tanto maestosa quanto letale, che la dilaniava. Era questo il vero dolore? Non riusciva a spiegarsi il perché di questo gesto fatto dal biondo. Non riusciva a capire cosa  stesse succedendo dentro di lei. Ma quello non era il momento di pensare e tornò a fingere.
 

- M… mi darete una mano?- chiese in un sussurro spaventata di aver appena preso una decisione che in fondo al suo cuore, lo sapeva perfettamente, considerava tremendamente sbagliata.
 

 
 *********

 
 Non molto lontano da dove i due biondini li avevano lasciati, forse un po’ più in alto e più a oriente rispetto alla posizione precedentemente indicata dalla mappa ufficiale di Almia in loro possesso, quattro persone, tre delle quali di età compresa tra i quindici e i vent’anni mentre l’ultima aveva già percorso un percorso di vita di durata consona al suo ruolo di madre con figli di età non superiore agli otto anni, stavano salendo, faticando non poco, le Alture Vertigine. Le alte pareti di almeno cinquanta metri, rocciose e impervie, avevano la fama internazionale di essere tra le più pericolose al mondo: la loro consistenza era tale che, alla minima goccia di pioggia, la terra si frantumasse tra le mani degli avventurieri incoscienti e un appiglio, all’apparenza solido, si sbriciolasse, come se fosse fatto di sabbia, quando vi si appoggiava un piede sopra e vi si spostava il peso del corpo.

Possiamo, dunque, ben immaginare in che condizioni si trovassero quei quattro disgraziati che avevano saltato il pranzo a base di conoscenze teoriche sulle tecniche dell’arrampicata per prediligere la fretta della partenza: un cocktail più veloce, una scelta, sicuramente, molto più pericolosa. Nonostante la completa negligenza di approfondimenti circa sicurezza e la totale inesperienza pratica dell’escursionismo su via ferrata, erano riusciti a sopravvivere alla prima notte arrampicati alla bell’e meglio su di un qualche masso della base della parete imbacuccando persino le orecchie all’interno delle coperte che avevano portato con loro per il freddo di quella gelida notte estiva; nemmeno le costellazioni e il fascino per le stelle li aveva distratti sul loro unico (o quasi) pensiero: penetrante e agghiacciante il freddo aveva penetrato la loro pelle congelando, con loro sommo spavento, persino le ossa. Inutile dire che, tra l’abbassamento troppo repentino della temperatura e la preoccupazione per i bambini sperduti, quella notte non passò né facilmente né porto con sé sogni tranquilli per i nessuno tra i “dormienti”.

L’indomani mattina, dopo una colazione frugale a base di gallette che piacciono a tal punto agli avventurieri da costringere ogni scrittore di romanzi fantasy e d’avventura che si rispetti a nominarle almeno una volta all’interno dei propri elaborati, sbadigliarono. La stanchezza del giorno precedente non aveva abbandonato i loro muscoli e essi parevano già pronti a essere fonte di dolore e rammarico per tutta la giornata, i raggi del sole riscaldavano le membra affaticate alleviando talmente poco la tensione che le rendeva un cosiddetto “fascio di nervi”, tuttavia ciò che nemmeno un sonno “ristoratore” può darti, non lo fornirà, sicuramente, una scia luminosa e calda e ben presto anche il tepore andò, a livello di sensazione scemando.
La durata della scalata, non certo irrilevante, aveva compromesso le condizioni  psico-fisiche di ognuno dei membri della spedizione. Soltanto una persona pareva determinata, forte e, quanto meno, in buona salute. Si trattava infatti della più motivata, di colei che aveva trascinato quegli sconosciuti, nemmeno conoscenti, verso un’impresa inverosimilmente pericolosa senza alcun rimorso nei confronti delle loro vite. Era, come sempre, vestita di colori accesi dalle tonalità giallognole e rossastre, la felpa pesante che indossava era costantemente tinta dalla terra: nell’arrampicarsi strusciava contro la parete ciascuno dei suoi indumenti. Tuttavia anche lei, come i suoi compagni, aveva delle sbucciature sulle gambe, dei tagli sulle mani, sottili come fatti dalla carta e altrettanto dolorosi, e la consapevolezza, a dispetto degli altri del tutto ignoranti riguardo all’argomento, che avrebbero potuto, molto semplicemente e con grande probabilità, non far ritorno nelle proprie case.
Un’unica cosa le conservava la necessità di non dire niente riguardo alla pericolosità di quell’area e la tratteneva: aveva bisogno di quel gruppo di sconosciuti. I suoi figli avevano la precedenza su ogni cosa.

I tre ragazzi andavano lamentandosi tra loro di quanto fossero stanchi e imploravano la più grande, per mezzo del loro portavoce, l’unico ragazzo del gruppo, di passare qualche altra ora lì, nascosti alla vista dei Ditto e al sicuro da eventuali sfracellamenti al suolo. Ma ella aveva altre priorità: la vita dei suoi figli e negava loro ogni possibilità di riposo. Così, dopo aver ritirato il bivacco allestito per la notte e caricati gli zaini sulla spalle che già immaginavo una fine agonizzante, ripresero la salita baciati dal Sole, ma non dalla fortuna. Nel proseguire la donna li istruiva sui pochi modi per sopravvivere, i consigli, ovviamente, non erano rispettati neanche da lei, così povera di competenze nell’ambito. La scalata fu molto problematica e lenta, sia per la questione degli appigli insicuri sia per la preoccupazione di non cadere: niente garantiva loro che le corde che li teneva ancorati alla parete avrebbero retto nello sfortunatissimo caso in cui fossero scivolati e caduti. Nessuna speranza avrebbe garantito loro di sopravvivere e, chi in un modo, chi nell’altro, cercavano di dissimulare il nervosismo e la paura a suon di picconate e di “Porco Arceus”.

Mentre, sul finire del secondo giorno, si stavano accampando per la notte, la donna sposata con Vulcano, la più “esperta” del gruppo, guardò l’orizzonte. Era ancora giorno, ma le ombre avrebbero presto vinto la loro consueta battaglia sui raggi luminosi scacciandoli prepotentemente per poche ore e usurpandone il trono, il la luce e la tenebra sarebbero dovute essere sorelle ma, essendo gemelle, avevano lo stesso diritto di regnare su quel pianeta per la stessa durata di tempo, ma solo in due giornate all’anno ciò accadeva, le rimanenti erano un continuum di battaglie; qualcosa sul finire del visibile, interessava gli occhi di quella femmina che si stavano facendo sempre più cupi e preoccupati.
Stormi di cumulonembi, neri come la pece, massicci come il Monte Corona, si stavano avvicinando rapidamente. Troppo velocemente. La donna aggrottò le sopracciglia mentre calcolava in quanto tempo quelle nuvole sarebbero arrivate vicino il monte: sarebbe stata sicura, nel caso in cui piovesse,  la loro morte. La pioggia aveva il dannatissimo effetto di corrodere la parete e quest’ultima, essendo molto friabile, avrebbe fatto in modo che i ragazzi cadessero nel precipizio. Ma le nuvole correvano velocemente, non si poteva aspettare che arrivassero e rovesciassero su di loro il proprio contenuto: di questo la donna ne era ben consapevole.
Diede ordine ai ragazzi di mettere nella tenda che avevano montato tutto ciò che poteva intralciare loro il cammino, escludendo le provviste, che avrebbero portato con loro, e lasciando gli oggetti che potevano attirare l’attenzione dei fulmini. Stava ancora sistemando i moschettoni quando una goccia, seguita dalle sue sorelle, le lambì il naso; era fine, sottile, ma tutti lo sapevano che da lì a poco sarebbero arrivate le altre.


- Belle- la donna richiamò l’attenzione della strega, lei sapeva che lo fosse: poco prima, quando Alex stava per cadere, aveva usato un incantesimo per salvarlo- puoi fare qualcosa per impedire che piova?
- No Fiammetta… mi dispiace- la biondina si guardò intorno mortificata, ma un’idea svegliò il cervello illuminandole gli occhi- Ma posso fare una cosa!

Si abbassò e disegnò con un dito, in maniera leggibile, un cerchio, poi si rimise in piedi e guardando la giovane madre con fare saccente disse:

- Astaroth da mihi virtutem, nembulae imbricae moramini itineribus.- dopo aver pronunciato la formula, si rivolse alla donna- Ho fatto in modo di guadagnare un po’ di tempo, ma dobbiamo fare attenzione: non posso usare altri incantesimi, sono troppo stanca.
- D’accordo, faremo in modo di non averne bisogno- le sorrise rassicurante, nascondendo la paura per la pioggia- Grazie- le disse sottovoce, poi rivolgendosi a tutti- Siamo pronti, scendiamo. Ora!- i presenti asserirono convinti.

Con un peso sul cuore tutti iniziarono la discesa seguendo le istruzioni della più anziana e più “esperta” circa le scalate. Seguivano con attenzione i suoi movimenti e provavano a imitarli alla bella e meglio con scarsi risultati. Le mani andavano i certi posti, i piedi su determinati appigli, una sequenza di mosse doveva essere eseguita se volevano aver salva la vita. Sembrava quasi un ballo, una danza mortale senza scampo, fatta di movimenti aggraziati che si susseguivano senza riposo. Come foglie trainate dal vento autunnale che già spirava nonostante si fosse ancora alla fine della stagione segnata dal caldo e dal grano, come i fiocchi di neve in una tempesta del Monte Corona, si muovevano secondo leggi non precise mossi dal solo, o quasi, desiderio di salvarsi.
Erano circa a metà percorso quando una primordiale goccia si posò sul naso all’insù della streghetta, ella non fece in tempo ad avvisare il resto del gruppo che l’incantesimo era spezzato: la natura non poteva essere piegata al proprio volere se non da colui che aveva stretto un patto con Belzebù, Belle questo lo sapeva, gli altri no,  questo segreto era meglio che non si sapesse tanto facilmente, Shū l’avrebbe sconfitta, sempre e in ogni caso, Astarotte era sempre stato meno potente e importante di Belzebù, eppure ciò aveva permesso alla sua volontà di sopravvivere: il suo corpo non avrebbe retto allo sforzo di sigillare un demone tanto potente, così gli era stato detto, così aveva sempre creduto, mai aveva avuto motivi per lamentarsi, tranne ora.

Ora si sentiva una stupida fallita: se fosse successo qualcosa ai suoi compagni, lei non avrebbe potuto far nulla per aiutarli. Sentiva il fiato mancarle per le fitte che quel mostro infliggeva al suo cuore impuro e macchiato, ogni artiglio che penetrava la prigione in cui era relegato indeboliva le sbarre che lo contenevano, unitamente al suo potere. Aveva accettato tutto questo per il potere. Solo per quella brama di dominio. Le scuse che aveva usato “voglio aiutare” o “non voglio che altre persone si ritrovino nella mia stessa situazione” erano vuote e inutili, fornite e preparate prima del tempo in cui sarebbero servite, per dare sole e mere giustificazioni. La verità era un’altra, lei lo sapeva; la brama di potere l’infiammava tuttora, lambiva nel suo subconscio influenzando le sue decisioni. Il demone da quella traeva forza. Aveva smesso di provare a contrastarla, al contrario, la assecondava, si ribellava quel tanto per rimanere ancora padrona del suo corpo relegando la sua volontà in un sempre più piccolo anfratto. A breve avrebbe perso se stessa.
Guardò in basso per copiare le mosse della donna e spalancò gli occhi, lo spettacolo che non avrebbe voluto vedere si presentò alla sua vista. Una mano destra scivolò sulla roccia, lasciando la presa, il piede dello stesso lato sfuggì all’appiglio, il polso opposto, non resistendo al peso del corpo cedette. Ella rotolò nell’abisso.


- Haruka!- gridò sperando che il solo suono della sua voce bastasse a riportare indietro il tempo, a salvare la ragazza.

Il volo della bruna si concluse con un tonfo, secco e vuoto. Belle si sentì svuotata, inutile, impotente. Se solo fosse stata più forte, se solo nel suo corpo avesse potuto ospitare Belzebù, se solo fosse riuscita a rallentare ancora la pioggia. Tanti se, ma non avrebbe potuto fare niente di tutto questo. I limiti devono essere accettati, gli errori pagati. Il prezzo poteva essere altissimo.

Fiammetta scese il più velocemente possibile, si assicurò che nessun altro cadesse, quello che provava nei confronti di quei ragazzi non era affetto, era soltanto un senso materno, o la semplice utilità che essi avevano nella ricerca dei due suoi figli. Tell e Pat le mancavano. Era preoccupata, molto. Ma più di tutto, voleva accettarsi delle condizioni della ragazza: il volo non era stato altissimo, ma lei non si era ancora rialzata. Quando finalmente giunse a un metro e mezzo dal suolo, spiccò un salto e, con un’agilità innata e un’eleganza sopraffina, atterrò dolcemente sul terreno. Non perse nemmeno il tempo di aggiustarsi i capelli che le ricadevano disordinati sul volto e sulla schiena, essendosi liberati a forza dai lacci, che si recò, quasi correndo dalla ragazzina. Notò, con sollievo, che il suo polso batteva ancora; le mosse gli arti, piegandole un braccio e una gamba il suo volto sembrava contorcersi in una smorfia di dolore. Dovevano essersi rotte. La cosa preoccupante era che non si fosse ancora svegliata dopo una buona mezz’ora trascorsa incosciente.
Gli altri arrivarono.


- C’è la farà? E’ viva?- le chiese l’unico ragazzo del gruppo che non pareva più di tanto spaventato dalla possibile perdita di quella componente. L’unico sentimento nei riguardi della ferita era l’indifferenza mista alla gratitudine per averli salvati durante il massacro operato dai Ditto qualche giorno prima, ma a questo si fermava.

D’altro canto il suo cuore era chiuso; poche persone erano importanti per lui e, dopo il “tradimento” di Hitomi, nessun’altro era mai riuscito a diventare qualcuno che suscitasse un qualche sentimento in lui.
Brando, Luana, Hitomi, Lucie, Ilario e Glenda. Loro potevano dirsi, in qualche modo, fondamentali per la sua esistenza. Hitomi, probabilmente, si poteva escluderla: la ferita inferta da lei al suo animo era talmente tanto profonda da non essersi ancora rimarginata, il pensiero di lei aveva continuato a tormentarlo nei suoi incubi, nelle notti insonni per molto tempo, la rivedeva, la riviveva ovunque. Era stata un’ossessione. Quando vedeva qualcuna che somigliasse a lei, solitamente impazziva. Diventava un mostro. Provava a uccidere, a infliggere lo stesso dolore che lo martoriava. Il suo istinto di distruzione, di autodistruzione prendeva il sopravvento. Distruggeva la sua stanza se in quei momenti ve lo rinchiudevano al suo interno. Con lei era uno sbruffone, si atteggiava per nascondere quella sua sbandata per lei.  Da quel dolce sentimento era nato un odio per lo stesso pensiero di lei. Sotto certi aspetti nascondeva il suo rancore sotto una maschera; per tutti non pensava più a lei, si era dimenticato della sua esistenza. Nessuno aveva mai visto il suo polso, cosparso da piccole cicatrici: il dolore lo riportava alla realtà. Piano piano si era rialzato, aveva smesso di inseguire la sua ombra. Il suo animo era rimasto macchiato e l’odio cieco, tanto simile a quello di una bestia ferita, si era, apparentemente sopito.


- Sì, Alex. Dovrebbe avere solo un paio di ossa rotte e qualche taglio, molto probabilmente anche una commozione cerebrale: ma se non si risveglia entro un’ora dovremo preoccuparci.

Belle si era accucciata a terra con la testa fra le mani e le gambe tirate verso il petto, aveva appena provato ad usare un incantesimo su Haruka per guarrirla non sortendo alcun significato, non le importava cosa sarebbe successo; lei voleva il potere, questo era vero, ma aveva un lato buono che le suggeriva di aiutare quella sconosciuta anche mettendo a repentaglio la sua vita. Maledisse i valori che i genitori le avevano insegnnato.
Un senso di vuoto le dominava il cuore. L’impotenza la gettava nello sconforto. A cosa servivano i suoi poteri, la sua magia, se quando aveva bisogno di essi, questi non le servivano a nulla? Così  psichicamente debole, nemmeno si accorse che il demone stava prendendo forza, le sue zannate si fecero più forti, ma lei non se ne accorse, le confondeva per spasmi dovuti alla fatica. Ad un tratto, capì, ma era troppo tardi:  Astarotte si era liberato.
La vista le si fece appannata, le figure sfocarono in un grigio incolore, i suoi occhi cambiarono colore: le iridi verdi divennero rosse. La prigione, un tempo di quel mostro, le si chiuse attorno: le sbarre spezzate si ricostruirono rinchiudendola al suo interno, rendendola solo una spettatrice della sua vita.













 
  
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