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Autore: outofdream    23/01/2014    2 recensioni
Rivisitazione di "Twilight", di S. Meyer.
Dal 17 Capitolo:
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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                                                                                                         I Cullen


Credo fu la luce per prima, ma non posso dirlo con precisione. Quella forse, sì, quella e il profumo, profumo nel respiro, profumo fra le dita, dita che si infilavano fra i miei capelli e arrivavano a toccare ogni ciocca, a sfiorarmi la nuca, per capire di cosa e come fossi fatta, dita che potei sentire anche sulla punta delle mie ciglia scure, che come mani di ballerine si muovevano all’unisono, spinte da quell’unico, silenzioso movimento che come un’onda mi cullava, mi spingeva a riaffacciarmi alla vita dopo un sonno così profondo, che più che sonno avrei volentieri definito torpore totale o completa perdita di conoscenza, poiché non riuscivo a ricordare nulla di quella notte, nemmeno un volto aveva popolato la mia mente e il mio eterno vagare in quel buio infinito. Era come se per un breve lasso di tempo, avessi cessato di esistere.
Come se non fossi stata più nessuno per molto, moltissimo tempo e tornassi a essere solo in quell’istante, al richiamo di quel tocco, di quel lento muoversi sulla mia pelle.
Quando aprii gli occhi, Edward ritrasse la mano e mi lanciò un’occhiata indecifrabile.
«Che ore sono?», ruppi io per prima il silenzio.
«Le nove, credo», mormorò lui, stiracchiandosi, «Ti ho svegliata?».
«No», dissi girandomi su un fianco, «Non avevo più sonno. Che hai combinato stanotte, mentre dormivo?».
«Sono rimasto qui a vederti sbavare sul cuscino», rise, «Uno spettacolo emozionante, te lo giuro. Avessi avuto una macchina fotografica..».
«Che vorrebbe dire? Io non sbavo, non è vero».
«Eccome», continuò lui, «Perfino tuo padre è rimasto perplesso alla visione.. Stamattina si è scapicollato in camera tua per assicurarsi che fossi ancora viva e quando ha visto il tuo bel faccino spiaccicato sul materasso si è come congelato. Ha indietreggiato lentamente e è scappato dai suoi amici poliziotti».
«Ma cosa dici!», sbottai io, «Tu sì che inventi un sacco di fesserie».
«E adesso che fai di solito? Mangi? Ti vesti?».
«Mi rimetto a dormire».
«Cosa? Di nuovo?», la sua impazienza mi toccò il cuore.
«È tutta la notte che ti aspetto», disse con un rapido sospiro, avvicinandosi a me, «Perciò.. Adesso che vuoi fare?». Gli risposi con un sorriso.
Mi alzai e andai a lavarmi e vestirmi, rispuntando dal bagno poco dopo, con una maglietta extra-large che lo fece ridere e dei jeans stretti, ai quali si limitò a lanciare semplicemente un’occhiata più lunga delle altre, abbassando lo sguardo poco dopo. Andammo in cucina e feci colazione, provò ad assaggiare un po’ dei miei cereali, finendo per definirli il peggior pasto di tutta la sua vita.  Mi raccontava tranquillamente dei suoi momenti, di quello che gli piaceva mangiare, «La marmellata di ciliegie è la più buona», insisteva facendomi ridere, di suo padre e dei suoi capelli folti e così simili ai suoi, lucenti, che lui pettinava con cura ogni mattina e sfiorava ogni volta che era assorto. Mi parlava della sua vicina di casa, «Quella più grande di me», disse così, tradendo un filo di imbarazzo e malizia, la stessa che tendeva le sue gonne a asciugare sulla terrazza davanti alla finestra di camera sua, quelle e le sue camicette gialle, con lo scollo rotondo; quella che si affacciava ogni mattina alla finestra e lo salutava con il braccio teso e un grosso sorriso stampato in volto. Quella che morì nell’estate dei suoi ventidue anni lasciando la finestra di camera sua chiusa e senza nessuno che la riaprisse mai più. E poi si ricordò del suo primo maggio a New York, di quel cappotto di panno grigio e di quella scarpa bianca scendere vorticosamente dall’Empire State Building, e di quel tonfo sordo – si ricordò del corpo di Evelyn McHale precipitare giù dall’ottantaseiesimo piano di quel grattacielo scintillante e volteggiare fra i venti come un fiore, chiudersi in un sonno senza respiro fra le lamiere della limousine delle Nazioni Unite, parcheggiata al lato della strada. Lei era scivolata nel vuoto, in attesa dello schianto, e lui, così mi diceva, era qualche kilometro distante, ma fu comunque capace di distinguere il tragico canto delle sue lacrime. Per anni quella melodia tormentò le sue notti, tanto che, stremato dal ricordo di quella donna piegata a braccia distese in quella scintillante bara aperta, provò a dormire, provò a tornare agli antichi ritmi, ignorando completamente la sua nuova natura o forse semplicemente incapace di adattarvisi. «Sono certo di aver sognato, una volta. Sognai Jane e la sognai nella mia classe, nel mio vecchio liceo. Carlisle ha sempre cercato di spiegarmi di come questo non fosse possibile, di come i suoi studi, condotti nel corso degli anni, lo provassero, ma io sono convinto, perché ero proprio lì, lì con lei, seduto al mio posto, mentre quella vecchia dispotica della nostra professoressa di inglese la faceva stare in piedi, in piedi davanti a tutti mentre le urlava contro la sua invidia di donna avvizzita, ma più precisamente di come il vestito che indossasse fosse troppo corto, che era una ragazzina stupida e una svergognata a presentarsi a scuola vestita in quel modo. Allora lei si risiedeva con educazione, strofinandosi con fare meccanico le labbra con la punta del suo pollice e nascondeva le lacrime fino alla fine della lezione. Poi correva nei bagni. E io ero lì, lì improvvisamente al suo fianco, vedevo le sue piccole mani aggrapparsi alla mia camicia e la sua voce flebile chiedermi, “È vero Edward? È vero? Sono una svergognata? Non va bene questo vestito?”. Io le dicevo che secondo me era la più bella di tutte e allora lei tirava su col naso e rideva felice. Quando finì il sogno, ero di nuovo solo. Provai a cercarla, perché io non le avevo mai detto quelle cose, non le avevo mai detto nulla e non so cosa mi passasse per la testa, forse volevo solo rimediare, volevo solo provare qualcosa a me stesso, dopotutto c’era ancora tempo, erano passati solo 29 anni e non sarebbe stato un problema tornare a Chicago per me. Mi immaginavo che l’avrei trovata donna, moglie e madre, con una bella casa e un bel marito, un’auto anche e magari un cane – quando eravamo a scuola non faceva che dire quanto le piacessero i cani. Ma quando fui di nuovo fra le nostre antiche vie, quelle che un tempo ai miei occhi avevano significato qualcosa, lei non c’era più. Chiesi in giro e a lungo finché non seppi che era morta in un incendio, prima ancora che potesse aver avuto tempo di sposarsi o di viaggiare o che ne so, di guardare più film. O di sapere che io l’avevo sempre trovata bella. Me ne andai da Chicago quel giorno stesso e così come fuggii da quella città fuggii dall’America stessa e mi stabilii a Madrid, per un po’, tenendomi sempre in contatto con Carlisle. Lui ancora non crede al sogno che feci, ma immagino fosse semplicemente l’ultimo sospiro della mia vita, così come la conoscevo prima e credevo che l’avrei sempre conosciuta. Forse dovevo solo ricordarmi questo, quel viso, forse era importante e basta».
Ascoltavo quelle parole con un’avidità feroce, una curiosità rovente che non conosceva limiti e non poteva mai essere saziata in alcun modo: mi accorsi in quel momento dell’universo dietro i suoi occhi, del modo gentile con il quale mi parlava e condivideva con me ogni dettaglio. Quando raccontava, quando tornava in quei luoghi, quando spariva senza cambiare posto i suoi occhi assumevano un’espressione particolare, direi quasi tranquilla e raramente lui osservava il mondo con tale espressione: proprio in quella maniera lo fissavo io, sorridente, ripensandolo umano, giovane, sui suoi primi banchi di scuola, nei suoi primi vestiti, con occhi avidi e golosi, affamati di vita, furiosi e lo stesso liberi. Non sarebbe mai più stato così, non avrebbe mai più potuto e so che non se l’immaginava quando tornava a casa la sera, per la cena, o quando ascoltava la radio, quando non faceva i compiti, rispondeva male ai professori, urlava divertito con i suoi amici, pensando che ancora la vita poteva avere tanto da offrirgli, che sarebbe finita nel migliore dei modi, che era invincibile e nessuno l’avrebbe mai piegato. E pensai allora anche a Jane, provando a immaginarmi che tipo di ragazza fosse, che modo avesse di parlare, come fosse quel vestito. Forse era davvero bella, la più bella di tutte e quel pensiero mi fece soffrire un po’, quasi come se il ricordo di quella ragazza, morta in chissà quali misteriose circostanze, fosse talmente imponente da oscurarmi e rendermi invisibile.
Mi domandai se anche Edward si sentisse così, quando la ripensava, ma decisi di non indagare oltre.
«Dovremmo guardare un film io e te», parlai a un certo punto, arricciando le labbra.
«Oh, ti prego.. Questa è una di quelle cose che vorrei non dover fare», si portò una mano sul viso lui, fingendo sconforto, «Che vorrebbe dire?».
«Che mi posso solo immaginare», continuò lui, sempre coprendosi gli occhi, «Che razza di spazzatura guardi.. Film melensi e noiosissimi. Non mi stupirei proprio».
«Allora vattene», risposi piccata, ferita nel mio orgoglio, «Vorrà dire che mi troverò qualcun altro per guardare Trainspotting».
Le sue dita si separarono appena, schiudendosi, lasciando intravedere solo uno dei due occhi, che adesso mi osservava interessato, «Ti ascolto», disse, portando lentamente la mano sul tavolo e scoprendo la carnagione pallida e un’espressione furba e divertita che sembrava non avere nulla a che fare con i demoni che lo perseguitavano. «Troppo tardi, evidentemente se dubiti così tanto dei miei gusti non possiamo rimanere amici», mi alzai, mettendo tazza e cucchiaio nel lavandino, «Vai, vai», insistei poi, andando in salotto, ma lui fu rapido a raggiungermi. «Non credevo che la figlia dello sceriffo guardasse certe cose», tranne una risata.
«È solo un film, mica mi faccio di eroina».
Ci fu un attimo di silenzio, poi mi voltai verso di lui, «Se un vampiro si droga cosa succede?», il mio sguardo allarmato e quella domanda dovettero coglierlo parecchio impreparato, perché rise per un bel po’, prima che riuscisse a spiccicare parola.
«Ma che domande fai!».
«Sono seria, dimmelo!», lo tenni per un braccio, «Edward! Che succede? Impazzisce tipo?».
«Non lo so! Non ho mai sentito di vampiri che facessero uso di eroina».
«Però potrebbe essere possibile? Carlisle che ne pensa?», insistei finché lui non poggiò il palmo della sua mano fredda sulla mia fronte: «Dovresti stare un po’ zitta e far riposare la tua testa.. Nel tuo cervello ci dev’essere un inferno», disse.
Sbuffai, «Non mi dici mai nulla di interessante».
«A parte che sono un vampiro», commentò.
«Sì, a parte quello».
«E che ho qualcosa come cento anni», continuò, «E che posso fermare un’auto in corsa con una mano».
«Quello non me l’hai detto, lo sapevo già», precisai pignola.
«Ah certo, questo cambia tutto», il tono era sarcastico ma il suo volto disteso e rilassato, lanciai uno sguardo ai suoi occhi dorati, così incredibilmente brillanti, e mi domandai se la notte precedente non fosse andato a caccia, non riuscivo a tenere il conto di quanti giorni fossero trascorsi dall’ultima volta, quando sparì nel parcheggio, dopo avermi detto che se ne sarebbe andato con Alice. Dopo le sue confessioni, iniziai a dubitare che si fosse fatto accompagnare da lei: ciò che era successo, il fatto stesso che io fossi ancora viva ma più terribile fra tutti che io fossi a conoscenza di ogni particolare e indiscrezione riguardo la loro famiglia, doveva essere motivo di attrito fra i rapporti familiari. Chissà se era stata solo una scusa.
«Dai, metti il film», mi disse e io annuii, sovrappensiero.
Preferivo non soffermarmi troppo su quei dettagli, l’idea di lui solo faceva sì che il mio cuore si stringesse sempre un po’, tanto che alle volte non avrei mai voluto lasciarlo andare via. Guardammo il film, fra battutine e scherzi, di quando in quando mi voltavo a guardarlo e una parte di me, facendomi vergognare, sperava che lui facesse lo stesso, tanto che spesso mi trovavo a lanciargli rapide occhiate soltanto per soddisfare questa mia curiosità. Ogni tanto si lasciava sfuggire un commento, qualcosa che gli riportava alla memoria cose brutte e belle del suo passato, diceva, «Sai non sono mai potuto andare a vedere questo film, al cinema dico. Carlisle non voleva – non che me lo avesse esplicitamente vietato, soltanto aveva paura che potesse succedere qualcosa, che l’odore di tutte quelle persone potesse darmi alla testa, che potessi fare una carneficina», oppure, «Quando ero piccolo impazzivo per i popcorn, quelli che preparava mia madre erano i più buoni, ma ci metteva una quantità di burro allucinante, ancora non mi spiego come abbia fatto a non diventare un obeso affetto da serie cardiopatie».
Gli chiesi se avesse foto di lui, di quando ancora era piccolo, e lui scrollò le spalle, «Forse, saranno da qualche parte a casa». Chissà se aveva anche una foto di sua madre.
O di Jane.
Finimmo di guardare il film e parlammo a lungo dopo quel momento, di musica specialmente, di libri e arte. Avevamo questo modo di dirci le cose, così entusiasta, così pieno di vita, così selvaggio che quasi facevo fatica a tenere a mente la vera e ormai indelebile natura di Edward, a pensare che la mia vita era sempre in pericolo finché stavo con lui, che sarebbe potuta bastare una carezza, una spinta più forte delle altre, anche solo un suo dito avrebbe potuto smascherare l’insopportabile debolezza del mio corpo: contro di lui, contro la sua forza smisurata, contro la sua velocità non avevo scampo e ancora non potevo immaginare il dolore che dovesse provare nel respirare la mia stessa aria, pregna del mio odore per lui così irresistibile, traccia incancellabile del mio sangue vivo, pulsante. Sarebbe bastato un suo morso, uno solo a lacerare le mie membra e a porre fine alla mia vita e questo pensiero mi sconvolse a tal punto che pur di esorcizzarlo, scacciarlo dalla mia mente, avventata domandai come avesse fatto Carlisle a trasformarlo.
«Mi morse, che domande fai?».
Allora aggiunsi frettolosa, «Cosa hai provato?».
«Dolore», scrollò le spalle, «Un caldo asfissiante,.. No.. Non rende l’idea. Mi sembrava di bruciare vivo, non capivo più nulla, dentro di me c’era come un mostro che voleva uscire, me lo sentivo proprio qui», disse indicando lo stomaco, «Come in Nightmare, hai presente?», rise per alleggerire l’atmosfera.
Io rimasi un po’ sulle mie.
«Quando lei è nella vasca, e spunta la mano di Freddy Krueger».
«E poi lei si sveglia all’improvviso!», dissi, felice di essermi ricordata.
Rise, «Sì proprio così».
«Che schifo», lo presi in giro, sghignazzando.
«Guarda stai molto attenta ragazzina, sennò ti trasformo, eh», mi punzecchiò.
«Se fossi un vampiro ti spaccherei il culo, non potresti più pavoneggiarti e fare il figo perché scintilli al sole o perché ti mangi gli orsi», incrociai le braccia, con aria di sfida.
«Ti piacerebbe, stupida scema», mi spinse via lui, «Sarei comunque molto più forte, non farti illusioni».
Risi alle sue parole, risi e seppi di essere felice, felice per davvero, perché per un attimo tutto era perfetto.
Poi, quell’attimo finì.
Edward si irrigidì, divenne più duro del marmo, fermo come una statua, gli occhi improvvisamente neri e densi – stava in ascolto. Chiesi quale fosse il problema, ma non ebbi risposta. Almeno, non subito.
Fu solo dopo qualche attimo che disse, irrequieto, «Devo andare».
«Cosa? Perché?», lanciai un’occhiata all’ora, non era nemmeno mezzogiorno, Charlie non sarebbe tornato che stasera e allora perché tanta fretta? Ero forse io la causa di quel suo improvviso malessere?
«Ho fatto qualcosa che non va?», chiesi subito, provando a toccarlo, ma lui si era già alzato.
«No», rispose freddo, «Ma devo andare».
«E che fretta c’è», parlò una voce, che per un attimo, scambiai quasi per mia, ma di gran lunga più suadente e melodiosa – a quel suono, Edward si bloccò nel mezzo della stanza, senza più muovere un muscolo.
Lanciai un’occhiata aldilà del divano, verso quei lunghi capelli biondi color della sabbia poggiati su spalle dal profilo morbide, avvolte in una sottile camicetta nera che scendeva sulla sua vita di ape quasi come una seconda pelle. Rimasi senza parole quasi, a quella visione, di fronte alla magnificenza di Rosalie, la sorella adottiva di Edward, che adesso ci fissava entrambi, con aria piuttosto contrariata, a braccia conserte.
«Non sapevo ti piacesse giocare col cibo», fece un cenno nella mia direzione, avvicinandosi con passo fermo, con aria così seria che Edward si chinò sul divano, rivolgendomi le spalle, tendendo le braccia quasi a volermi proteggere – addirittura mi parve di udire un ruggito, profondo boato nato dalle sue viscere.
«Oh, per favore, non c’è proprio bisogno», il suo tono di voce era seccato, «Non toccherei questo schifo nemmeno con i denti di un altro, figurati».
Edward parve rilassarsi.
«Cosa ci fai qui?», sibilò.
«Sono venuta a riportarti a casa», Rosalie rispose con la stessa freddezza che aveva mostrato il fratello.
«Allora puoi anche tornare da dove sei venuta», ribatté Edward, senza battere ciglio.
«Io dubito», sorrise maligna lei, volgendo gli occhi aldilà delle nostre teste.
«Edward», bisbigliò una voce alle nostre spalle.
Accanto a me, lui tirò un sospiro, passandosi le mani sul viso, quasi come se quell’unica parola avesse spazzato via dal suo cuore ogni speranza: anche Alice era lì, insieme a Jasper. Quei suoi grandi occhi di cerbiatto risplendevano come l’acqua sulle ferite della terra, nelle piccole pozzanghere colte da un debole raggio di luce dopo il temporale e la sua voce era una supplica delicata, eppure le sue parole nascondevano un mistero che non riuscii a cogliere immediatamente: era il risentimento, forte e amaro che le si leggeva in volto ogni volta che il mio viso entrava nel suo campo visivo.
«Edward», ripeté, poggiandogli una mano sulla spalla, «Andiamo a casa».
Lui non si mosse e allora fui io a parlare, commettendo forse uno fra gli errori più gravi.
«Sapete, dovreste essere voi ad andarvene», parlai con foga, rivolgendomi anche al biondo ragazzo smilzo e silenzioso che se ne stava appoggiato alla parete del salotto, «Questa è casa mia, e a casa mia esistono le porte e visto che non le avete usate per entrare, vi consiglio di usarle per portare i vostri culi fuori da qui».
Rosalie provò a dire qualcosa, ma Alice la fermò, ritraendo la mano con freddezza, fissandomi intensamente negli occhi per darmi un’idea e una misura di quanto fosse difficile per lei non sventrarmi come un maiale, in quell’istante preciso. Perfino Edward mi guardava esterrefatto, livido di paura e siccome non riusciva, nemmeno lui, a dire qualcosa, io continuai.
«Andatevene subito. Il mio non è un invito».
Rosalie mi fu addosso in un attimo: non feci nemmeno in tempo a vederla, né Edward a muoversi. Stringeva le sue freddissime mani intorno ai miei polsi, schiacciandomi lo stomaco con il ginocchio sinistro costringendo il mio corpo all’immobilità totale. «Io ti dovrei ammazzare, inutile schifosa», sussurrò vicino al mio orecchio, spaventandomi così tanto da farmi venir voglia di piangere, ma non abbastanza da farmi star zitta. «E allora fallo», dissi, col fiato rotto in gola.
«Cosa?», i suoi occhi si aprirono, colpiti da una sorpresa autentica, che piegò il suo viso in un’espressione adorabile.
«E allora fallo!», gridai con tutta la voce che mi era rimasta, «Fallo! Ammazzami! E sarete costretti a andarvene di nuovo! Vallo a dire a Carlisle, vediamo cosa ne pensa», ghignai, ormai senza più inibizioni.
«Rosalie», Alice richiamò la sua attenzione, «Ti devi calmare».
Quel tono di voce, così inespressivo eppure pesante mi ricordava le parole di Edward («Mia madre non chiedeva, lei esigeva, imponeva»). Alice, a modo suo, di certo non per via del calore nelle sue frasi o cenni, mi ricordava la madre di Edward, una donna che non avevo neanche mai visto, eppure che le somigliava, potevo vederla e sì, ne ero certa: le somigliava moltissimo, ma solo nel modo di fare, quello era identico.
«Edward, anche te», per un attimo non capii, ma quando Rosalie mi si tolse di dosso, potei vederlo di fronte a me, chiuso fra le braccia di quel ragazzo silenzioso, educato perfino nel modo di piegare suo fratello al suo volere, quasi come se i suoi gesti offensivi e fulminei dicessero, «Per favore, mi permetteresti di farti del male? Sei molto gentile, ti ringrazio». I suoi occhi neri erano impazziti e andavano a fuoco fra quelle lunghe ciglia nere, era furente e cercava con ogni sua forza di liberarsi, ma Jasper non glielo consentiva.
«Ti avevo chiesto di non salvarla, Edward. Lo capisci perché? Lo capisci che è una sofferenza per tutti? Pensi che per Jasper sia facile stare qui, con lei, in questa casa? Per essere qui oggi ha fatto un grande sacrificio, lo fa per te», sospirò Alice, ignorandomi, «Torniamo a casa. Cosa c’entri tu con lei? Morirà comunque, Edward. Non puoi salvarla per tutta la vita. Un giorno, lei morirà. Forse non adesso o fra vent’anni, ma quando comincerà a invecchiare, quando gli anni si saranno fatti troppi, cosa farai? Pensi che allora sarà più semplice? Già fra vent’anni si cominceranno a notare differenze fra voi, se già non le noti adesso. Quando avrà cinquanta o sessanta anni in più di adesso, cosa farai? Salirai sempre dalla sua finestra e ti metterai a dormire con lei? E pensi che sarà semplice per lei vivere una vita se tu le starai vicino? Un giorno potrebbe sposarsi, avere dei figli magari, anche un lavoro, cose sue a cui pensare e di cui tu non farai mai parte. E anche se così non fosse, quando ti morirà fra le braccia per un attacco di cuore o un ictus, quando magari non riuscirà più nemmeno a riconoscerti, cosa farai? Rimarrai al suo capezzale e poi di fronte la sua tomba per tutto il resto della tua vita? O magari ti ucciderai?», ogni domanda era una lama che Alice conficcava nel petto del fratello, senza nemmeno un filo di rimorso o un attimo di esitazione chiedeva e chiedeva ancora, domande di cui tutti conoscevano la risposta ma che nessuno aveva mai osato, prima di allora, pronunciare ad alta voce. La odiavo, la odiavo con una ferocia più unica che rara, con ogni centimetro, molecola, muscolo del mio corpo, odiavo tutto in lei, l’odiavo anche se sapevo che voleva solo il meglio per Edward e per questo motivo l’odiavo ancora più forte perché sapevo che il meglio che lui si meritava non ero io. E capivo fino in fondo il ruolo che avevo in quello spettacolo, solo che non potevo accettarlo.
«Adesso smettila!», gridai alzandomi di scatto, «Il giorno in cui non lo vorrò più nella mia vita te lo farò sapere, te lo garantisco».
Alice mi fulminò con lo sguardo, ma non perse comunque la calma, «Nulla di tutto questo ti riguarda, tu sei solo un’ingenua, nessuno si sarebbe potuto aspettare una reazione diversa da te, era chiaro come il sole che non saresti riuscita a stroncare questo rapporto, ma da mio fratello», rivolse uno sguardo maligno a Edward, «Mi sarei aspettata un atteggiamento diverso. Specie nei confronti della sua famiglia. Ma nei tuoi,.. Figurati. Cosa credi di essere tu per lui? Cosa pensi di significare, ti chiedo. Faresti bene a lasciare perdere e a metterti l’anima in pace, è un favore personale che ti chiedo».
«Andiamocene», Rosalie mi passò accanto, «Mi sto incominciando a innervosire. Se non vuoi che finisca in un bagno di sangue questa adorabile chiacchieratina fra amiche ti conviene portarlo via di qui».
Alice si limitò a fare un cenno nella direzione di Jasper e l’espressione di Edward da atterrita che era si trasformò in una preghiera, una supplica silenziosa poi tradotta in un’unica, singola frase:
«Jasper ti prego..».
Si guardarono per una manciata di secondi, prima che il fratello parlasse, «Scusa Edward, davvero».
Edward sapeva che era sincero, che davvero gli dispiaceva, che se fosse toccato a lui scegliere avrebbe fatto tutto in modo diverso, che non avrebbe mai voluto che una cosa così accadesse, non dopo simili parole, ma che non c’era altro modo. In una frazione di secondo, vidi il corpo di Edward rilassarsi e il suo volto mutare ancora una volta in un’espressione che non significava nulla e non esprimeva che gioia, tranquillità, dolcezza: Jasper lo lasciò andare e con quel sorriso stampato in volto Edward si lasciò guidare da lui fino alla porta di casa, ben lieto di togliere il disturbo, proprio come se per tutta la vita non avesse atteso che di varcare quella soglia, che di darmi le spalle e allontanarsi da me. Era tutto lì, accadeva tutto sotto i miei sconfitti occhi eppure non aveva nulla di autentico, nulla di tutto ciò che adesso riguardava Edward era vero o reale, nemmeno quel sorriso. «Cosa gli hai fatto?», balbettai, fissandolo atterrita, ma Jasper si limitò appena a guardarmi e io sono certa di aver scorto in quegli occhi una scusa, una anche per me, una che non fece che fomentare il mio sconforto, «Dove lo portate?».
«A casa», disse Rosalie tirandomi per i capelli e sbattendomi al muro, «E tu farai bene a stare qui dove sei, va bene? Farai bene a non pensare nemmeno di muovere un passo verso casa nostra».
Ma ciò che nasceva in me in quegli istanti dovette toccarla nel profondo, portare a galla ricordi a lei molto cari, poiché per un solo secondo, parve tenera, buona, gentile e perfino le sue mani allentarono un po’ la presa, «Tu non sei come lui», strillò sottovoce, ma con un dolore tale da farmi venir voglia di morire, «Non lo sarai mai. È successo e tu non puoi farci nulla. Credi che mi diverta? Credi che goda nel trattare così mio fratello.. O te? Ma è già successo una volta. Lui non può superarlo di nuovo. Non può perdere di nuovo un’altra persona, il fuoco non può sempre cancellare ogni cosa».
Abbassò lo sguardo, «Non è abbastanza forte. Non lo sarà mai», così disse prima di sbattermi al muro, facendomi cadere a terra, prima di andarsene con le sue ultime parole,
«Tu con lui non c’entri niente. E questo non significa nulla comunque».
La porta si chiuse alle sue spalle, lasciandomi sola, in casa mia, sotto la luce opaca di un mezzogiorno come un altro, e forse era vero, questo non significava nulla comunque.
Non significavano nulla le risate, non era valso a nulla aver scherzato, aver imparato a conoscerci, che mi avesse raccontato della sua vicina, quella più grande di lui, quella che morì lasciando la finestra di camera sua chiusa e non significavo nulla io, con quelle lacrime che una dietro l’altra rigavano il mio viso, scendendo copiose sul mio collo, gocciolando sui miei vestiti. Non significavamo nulla noi, non significava nulla che io avessi cantato per lui, che avessi pregato, che ci fossimo divisi davanti alle porte del sonno, che avesse imparato a toccarmi come si tocca un fiore.
Ma allora perché non riuscivo a alzarmi da terra? Perché non riuscivo più a guardare il divano dove, pochi minuti prima, eravamo seduti? Perché allora, perché mi chiedevo non facevo altro che ripetere, nella mia testa, quella frase? Il fuoco non può cancellare sempre ogni cosa.
A risentirla così spesso, quasi come una canzone, mi venne subito in mente Jane, ma non seppi bene il motivo, poiché ciò che si muoveva in me adesso non aveva nome né forma, ma sapevo quanto male si portava dietro e adesso eccolo, all’altezza del mio stomaco, che si divincolava e premeva frenetico per uscire – pensai immediatamente a Edward, al modo in cui aveva descritto il dolore della trasformazione e allora pensai che magari nessuno mi aveva morso, magari non c’era veleno nel mio sangue, veleno che infettava il mio corpo e il mio cuore, magari non stavo per diventare anche io, come tutti loro, affamata di sangue, ma di certo stavo morendo.
Di certo ero lì distesa e non riuscivo più a sentire che quel dolore e il tempo cominciava a farsi lento, inconsistente, vago, quasi un ricordo lontano, dal valore insignificante. Presi un altro respiro, più profondo e provai a alzarmi, tentando di vincere me stessa e ogni altra cosa, di abbattere quel senso di tristezza e desolazione, avvilimento che m’avevano colta, ma l’unica cosa a cui potevo pensare era che se n’era andato. Se n’era andato, forse per sempre e non mi avevano permesso nemmeno di salutarlo.
Nemmeno un cenno.
E io non l’avrei potuto vedere mai più.
Aveva ragione Rosalie, il fuoco non può cancellare sempre ogni cosa, poiché quello era un dolore impossibile da dimenticare. O da perdonare.

  
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